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La scomparsa di Luigi Spaventa e l’eredità culturale che ci lascia

L’acuta interpretazione della crisi è l’ultimo lascito culturale di uno straordinario economista come Luigi Spaventa che contribuì a svecchiare la cultura economica italiana e a formare una nuova generazione di economisti – Animò il mitico istituto di via Nomentana alla facoltà di Scienze Statistiche a Roma – Generoso anche il suo impegno politico e civile

La scomparsa di Luigi Spaventa e l’eredità culturale che ci lascia

Luigi Spaventa è stato un grande economista, perché ha fornito contributi importanti sui temi dello sviluppo, della finanza, della teoria della politica economica e delle sue applicazioni, e una persona straordinaria perché animata da una passione civile, da una curiosità intellettuale e da una rettitudine morale che trovano pochi termini di paragone nel nostro Paese. La sua vita è stata ricca di esperienze e di riconoscimenti. Spaventa è stato infatti membro del Parlamento italiano, ministro del Bilancio, presidente della Commissione di vigilanza sulle società quotate (Consob), presidente di infrastrutture e di istituzioni finanziarie (per esempio, Monte dei Paschi e Sator). Prima ancora egli è stato però un rigoroso e appassionato docente e ricercatore che, a partire dagli anni Sessanta, ha fornito un apporto cruciale allo svecchiamento della cultura economica italiana, alla formazione di una nuova generazione di economisti e all’introduzione di strumenti innovativi di politica economica.

Va ricordato, sotto quest’ultimo profilo, che Luigi Spaventa è stato uno degli animatori del mitico Istituto di via Nomentana (Facoltà di Scienze Statistiche di Roma) dove, specie nel corso degli anni Settanta, si svolgevano accesi e formativi dibattiti sui problemi aperti nella teoria e nella politica economica. I giovani aspiranti economisti italiani, che miravano a essere accettati nella comunità accademica, dovevano passare sotto le “forche caudine” di una discussione con Spaventa e con un piccolo gruppo di altri suoi famosi colleghi. Se questi giovani erano in grado di superare il primo impatto, quasi sempre segnato dalle impareggiabili rapidità di analisi e profondità di sintesi di Luigi Spaventa, si accorgevano di avere di fronte una persona che – pur essendo estremamente competente e rigorosa – aveva un genuino interesse per il loro ancor rozzo punto di vista e un’incredibile capacità di ascolto.

Del resto, anche nei dibattiti recenti sulla crisi finanziaria internazionale del 2007-‘09, la maggior parte degli studiosi coinvolti ha avuto spesso la sensazione che Luigi Spaventa fosse in grado di individuare, con anticipo, quegli aspetti critici e quelle tendenze di fondo che sarebbero state poi oggetto delle loro analisi. Bastino due soli esempi. Fra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008, quando molti economisti internazionali ancora trattavano la crisi come un episodio acuto ma di breve durata, Spaventa ha scritto e pubblicato un saggio su quei processi di riduzione delle attività bancarie (il deleveraging) che sarebbero poi esplosi nella seconda metà del 2008 e avrebbero innescato la più grave crisi ‘reale’ del secondo dopoguerra.

Per giunta, fra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009 – ossia quando la discussione teorica fra economisti si inaridiva in una sterile contrapposizione fra quanti continuavano a difendere un paradigma ‘dominante’ ma incapace di spiegare la crisi e quanti propugnavano un acritico ‘ritorno’ a Keynes, Spaventa ha sparigliato le carte. In poche pagine, egli ha sottolineato quali fossero le recenti acquisizioni teoriche, da cui non si poteva tornare indietro, ma anche i gravi problemi analitici irrisolti, che un uso inappropriato di tali acquisizioni aveva contribuito a ‘nascondere sotto il tappeto’.

La rilettura di questi due recenti lavori di Spaventa è struggente. Essa ci ridona la grandezza e la freschezza dell’amico perduto, ma ci mostra al contempo quanto ci è stato sottratto con la sua malattia e la sua morte.

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