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Italia-Germania, la “partita del secolo”: quei memorabili 120 minuti all’Azteca il 17 giugno 1970

Come non ricordare quei leggendari 120 minuti allo stadio Azteca di Città del Messico, mentre in Italia erano le 3 di notte quando il piattone di Gianni Rivera infilò la palla del 4-3 nella porta difesa di Maier – Le canzoni di Jannacci, e quel memorabile attacco di Gianni Brera sul Giorno dell’indomani – Angela Merkel aveva solo 16 anni e viveva nella DDR.

Italia-Germania, la “partita del secolo”: quei memorabili 120 minuti all’Azteca il 17 giugno 1970

Italia-Germania, ci risiamo. Non c’è partita di calcio come quella tra gli azzurri e i panzer tedeschi che non susciti in noi un amarcord personale che finisce per riportarci tutti a quel favoloso 17 giugno di 42 anni fa, alla “partita del secolo” celebrata ancora oggi con una targa allo stadio Azteca di Città del Messico. Di essa tutti noi ci ricordiamo non solo cosa accadde in quei 120 minuti memorabili, ma anche dove e con chi stavamo quella magica notte di giugno del 1970.

Già la notte, perché per via del fuso e dei tempi supplementari quando il piattone di Gianni Rivera infilò la palla del 4-3 nella porta tedesca difesa da Maier erano ormai quasi le tre del mattino. Una notte più indimenticabile di altre indimenticabili. Personalmente ho avuto la fortuna di seguire per il Sole-24 Ore la semifinale del Mondiale 2006 nella bolgia dello stadio di Dortmund, quella che vinta ci portò poi a Berlino per il quarto trionfo iridato battendo la Francia di Zidane: un perentorio 2 a 0 fece piangere a casa loro i bianchi guidati da Jurgen Klinsmann. Rammento le facce meste dei tanti Herr Muller sul treno strapieno che dopo la partita ci riportava a Dusseldorf e a Duisburg dove c’era il quartier generale degli azzurri di Lippi. Nell’archivio dei bei ricordi legati agli scontri tra Italia e Germania anche la serata di Dortmund si è assicurata di certo un posto di prima fila.

Ero invece in un residence di Roquebrune, di fronte alla baia di Montecarlo, quando l’Italia di Bearzot l’11 luglio 1982 strapazzò in finale una squadra tedesca stordita dalla nostra superiorità. Era il terzo titolo mondiale, eguagliavamo il Brasile. Roba da non crederci. Sull’autostrada di rientro verso Genova e Milano era un carosello infinito di auto con le bandiere tricolori. Ma il ricordo delle partite del 2006 e del Mundial spagnolo, pure grande e profondo, non ha quell’intensità emotiva, totale e coinvolgente, di quello del mondiale messicano, di quella notte passata di fronte un televisore, uno scatolone bordato di radica come erano quelli di allora, in casa di un vecchio compagno di liceo, in un’anonima strada di Milano, per l’esattezza via Lattuada, a due passi da Porta Romana.

La voce di Nando Martellini giungeva lontana dall’altra parte del mondo illuminato dal sole. Le immagini in bianco e nero erano talvolta sgranate, senza alcun conforto tecnologico. Il pallone di cuoio scuro pareva un macigno rispetto a quelli d’oggi: era un altro calcio, più lento e anche un po’ noioso con continui passaggi indietro al portiere e tanti tiri sbilenchi, anche di assi come Riva o Muller, per via del peso del pallone. Eppure fu un match che ci fece sognare per una vita intera. Eravamo diversi anche noi, certamente eravamo più giovani. Il che spiega molto delle magie e degli amarcord. Ricordi tanti e tutti nitidi: l’attesa del match che non arrivava mai per via dell’ora messicana, gli scongiuri perché la trasmissione in “mondovisione” non andasse in tilt, com’era successo in precedenti incontri. Rammento l’amaro “Unicum” sorseggiato con il ghiaccio nell’intervallo, trascorso in sospensione tra la gioia per il vantaggio di Boninsegna e il timore di essere raggiunti nella ripresa. Sul tavolo del salotto c’era, in bella vista, il numero di Playboy dedicato a un’esplosiva Ursula Andress. Il seno nudo allora era davvero una conquista. Griffato valeva ancora di più. Sul giradischi Jannacci cantava Messico e nuvole. Squadre di nuovo in campo. Per gli azzurri non c’era più Mazzola, al suo posto, in quella che fu la famosa staffetta della nazionale di Ferruccio Valcareggi, c’era Rivera. Una sostituzione che Mazzola, che era stato uno dei migliori in campo, non ha ancora del tutto digerito. Ma quella notte tutto doveva accadere secondo un copione scritto da un destino che voleva rendere quella partita unica e immortale nella storia del calcio e del costume. Così fu anche per il gol a tempo ormai scaduto di Karl Schnellinger, che sul momento ammutolì l’Italia obbligandoci a supplementari da incubo.

Ma furono proprio quei 30 minuti in più, in cui successe di tutto, che fecero di Italia-Germania la madre di tutte le partite. Nemmeno il tempo di risedersi in poltrona che i tedeschi beffano con Muller il nostro Albertosi (anche lui portiere che amava scommettere). Era la fine dei sogni? Macché, Tarcisione Burgnich, il terzino dell’Inter del mago Herrera, azzeccò il gol della vita. Ed eravamo di nuovo pari. Non passano sei minuti ed ecco Riva sfoderare uno dei suoi proverbiali tiri e fare il 3-2. Cambio di campo: altri 15 minuti da batticuore. I panzer ripartono a testa bassa spronati da un eroico Beckenbauer, rimasto in campo fasciato per una spalla lussata, e ancora Muller, bomber storico della nazionale tedesca, trova il gol del pareggio con un tiretto di testa su traversone di Uwe Seeler. Albertosi è spiazzato ma sulla traiettoria della palla, fermo sulla linea di porta, c’è Rivera. Dai salta, e rinvia. Macché. E’ il patatrac. Rivera, proprio come l’abatino di Gianni Brera, resta piantato in terra tra i moccoli di Albertosi e il giubilo e i ghigni beffardi dei nostri avversari. Non mi ricordo più se in caso di pari, la partita sarebbe stata ripetuta o decisa con la monetina: non importa, perché nemmeno 60 secondi dopo, messa la palla al centro, gli azzurri intessono un’azione corale con la sfera che finisce al limite dell’area tedesca, dove il destino aveva già deciso che lì si trovasse proprio Rivera, che di piatto fa secco Maier. E’ il trionfo. E per Milano e l’Italia tutta fu la prima notte bianca, magica e interminabile, con le piazze invase da milioni di tifosi in un tripudio di bandiere e in un frastuono di clacson e trombette.

Di quella partita conservo l’edizione del “Giorno” di Italo Pietra dove Brera scrisse un attacco memorabile: “Non fossi sfinito per l’emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio. Oppure mi affiderei subito al ditirambo, che è più mosso di schemi, più astruso, più matto, dunque più idoneo a esprimere sentimenti, gesti atletici, fatti e misfatti della partita di semifinale giocata all’Azteca dalle nazionali d’Italia e di Germania. Un giorno dovrò pur tentare. Il vero calcio rientra nell’epica: la sonorità dell’esametro classico si ritrova intatta nel novenario italiano, i cui accenti si prestano ad esaltare la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria o labile o costante…”.

Sarebbe bello che anche la nuova sfida agli Europei in corso suscitasse qualcosa di simile a quel provammo tutti allora. Ma troppe cose sono cambiate. A partire dalla stessa Germania allora ancora divisa in due. Angela Merkel aveva appena 16 anni e viveva nella Germania orientale. Forse quella partita all’Azteca non l’ha nemmeno vista. Noi venivamo da una serie di sconfitte nel calcio da vergognarci culminate con la disfatta subita per conto della Corea del Nord ai mondiali inglesi del 1966. Il boom economico era ormai alle spalle ma eravamo lontani dal marasma economico e finanziario di oggi. Adesso siamo in balia dello spread e degli umori dei mercati, con un futuro sempre più confuso. Fatalmente, l’ennesimo scontro tra Italia e Germania diventa quindi l’occasione anche per un bilancio piuttosto sconsolato sulle illusioni perdute, sulle aspirazioni e gli ideali traditi. Come i sogni di vittoria in quel mondiale messicano degli azzurri di Valcareggi, gli eroi contro la Germania, che sconfitti sonoramente dai brasiliani di Pelè tornarono in patria accolti addirittura dal lancio dei pomodori.

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