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Calcio e proprietari americani: un equivoco mediatico che riguarda la Roma ma non solo

La debacle della Roma, la cui colpa sta cadendo sulla società nonostante un mercato giudicato fino a dieci giorni fa eccellente, sta facendo tornare d’attualità il tema delle proprietà americane nel calcio europeo – Finora poco vincenti (vedi anche Liverpool), ma a differenza degli arabi attenti al business e alla programmazione.

Calcio e proprietari americani: un equivoco mediatico che riguarda la Roma ma non solo

Sono giorni duri per la Roma, schiacciata dalla Juventus con un pesante 4-1 sabato sera. Inevitabili le polemiche in un ambiente caldo come quello romano, ma – tralasciando l’aspetto tecnico – è curioso come alcuni inizino a spostare l’obiettivo della critica dal campo ai piani alti, arrivando fino alla proprietà americana. Un paio di esempi. L’editoriale di un noto osservatore di cose romaniste: “[…] Andrea Agnelli era negli spogliatoi prima della partita. Pallotta, giustamente, se ne stava per i fatti propri”. Il commento su Repubblica dell’ex direttore del Corriere dello Sport: “[…] la proprietà non c’è. E a discutere di ciò che succede sono i dirigenti: sicuramente bravissimi dirigenti, ma comunque dipendenti”.

Roma e Liverpool Malumori simili a quelli romani ci sono in casa Liverpool, acquistato nel 2010 dall’americano Fenway Sports Group al prezzo di circa 380 milioni di dollari. Guidato da John Henry e Tom Werner, il FSG ha riportato i Boston Red Sox alla vittoria nelle MLB World Series dopo ben 86 anni, ma ai tifosi del Liverpool ha chiesto un po’ di pazienza, spiegando la necessità di dover passare per un periodo di “rebuilding”. Un concetto tipicamente americano, che certo due anni di insuccessi (i Reds stanno vivendo il loro peggior avvio di stagione da un secolo ad oggi) hanno reso ancor più straniero ai tifosi che affollano la Kop. In realtà all’inizio la nuova proprietà sembrava ideale per i tifosi. Dal punto di vista del business il FSG ha infatti subito fatto vedere cosa è in grado di fare: 230 milioni di dollari dalla bostoniana Warrior per la maglia; 132,6 milioni di dollari dalla Standard Chartered, nuovo sponsor. Sul campo invece, fuori l’allenatore Roy Hodgson, mai amato, e dentro il mito Kenny Dalglish, che insieme al dirigente Damien Comolli ha speso 150 milioni di euro in pochi mesi senza particolari risultati, con l’inevitabile licenziamento di entrambi. Di lì cambio di regime, co poteri all’ex direttore commerciale e poi AD Ian Ayre, con una campagna acquisti al risparmio e con molti errori, seguiti da critiche a volontà. Ai primi di settembre è arrivata la risposta di John Henry, – personaggio assai riservato (ma ha un suo profilo Twitter, per quanto poco usato) che in una lettera aperta ai tifosi ha scritto: “Spendere non vuol dire solo comprare talenti. Le nostre ambizioni non si limitano solo a mettere insieme una squadra da metà classifica con giocatori costosi capaci però di contribuire solo per un paio d’anni (riferendosi al mancato acquisto dell’americano 29enne Clint Dempsey, ndr). L’enfasi della nostra azione sarà focalizzata sulla crescita dei nostri giocatori e su una sempre migliore direzione tecnica”.

Parole non dissimili da quelle usate alla Roma dall’ex presidente Thomas R. DiBenedetto, da quello attuale James Pallotta e da Paolo Fiorentino, Direttore Generale di Unicredit (azionista di maggioranza insieme agli americani), che ha recentemente affermato: “Il management è più importante del nome del presidente. Per noi è molto importante che la società venga rappresentata da Baldini e soci. Pensiamo di aver un fatto investimento eccezionale sul management, nessuna società in Italia ne ha uno così articolato. Da Baldini a Sabatini, passando per Fenucci. Per noi questo è l’elemento fondamentale e di grande garanzia”. Che siano i manager a guidare una società è una concezione normale nel mondo dell’impresa a livello internazionale, ma evidentemente molto meno in Italia, e per niente nel mondo del calcio (persino in Inghilterra, in parte).

Proprietà americana: problema o opportunità?Qualche problema simile però c’è anche in altri club con proprietà americana. All’Arsenal comanda il miliardario Stan Kroenke, proprietario anche di altri team negli USA, uno che di soldi ne ha molti, ma che non appare assolutamente intenzionato a gettare sul club londinese. Diritti tv, merchandising e uno stadio splendido come l’Emirates consentono ai Gunners di vivere agli alti livelli della Premier e di essere presente ogni anno in Champions, grazie anche alla sapiente gestione tecnica del manager francese Arséne Wenger (laureato in economia e ben conscio dei limiti di spesa). Ma di vittorie i tifosi dell’Arsenal non ne vedono dal 2006/07, e Kroenke si è ormai fatto la fama del taccagno silenzioso.

Un altro caso è quello dell’Aston Villa, di proprietà di Randy Lerner, che ha recentemente ceduto i Cleveland Browns della NFL in cambio di un miliardo di dollari, e che la passione per il calcio rende un caso diverso per impegno diretto e investimenti. Dal 2006 infatti, anno in cui è diventato proprietario dei Villans (pagando 62,6 milioni di sterline), Lerner ha investito 166 milioni di euro, oltre ad una cifra non nota di prestiti nei confronti del club. Solo che i risultati non lo hanno premiato, e al Villa Park di Birmigham di biglietti a disposizione ce ne sono sempre in abbondanza. E nel 2011, anche in vista dell’entrata in vigore delle regole dell’UEFA Financial Fair Play, l’Aston Villa è stato costretto a cedere alcuni dei suoi giocatori migliori per rientrare dell’eccessiva esposizione. Non va meglio il Sunderland, di proprietà di un fondo di private equity denominato Lone Star Funds, con a capo l’americano Ellis Short. Proprio Short ha più volte affermato pubblicamente di non avere alcuna intenzione di interferire con le scelte tecniche dei manager, guidati dall’ex centravanti della nazionale irlandese Nial Quinn, per occuparsi invece solo degli aspetti finanziari e di business.

Situazioni simili anche nei due club del Championship (la nostra Serie B) con proprietari USA. Il Millwall del bostoniano John G. Berylson, ex marine milionario tifoso dei Boston Red Sox (sempre loro), che prima dei Lions aveva puntato proprio il Liverpool insieme al titolare dei New England Patriots, Robert Kraft. E il Derby County, il cui maggior azionista è Thomas S. Ricketts, titolare anche della franchigia MLB dei Chicago Cubs, insieme a Andrew D. Appleby, fondatore della General Sports and Entertainment, struttura affatto dissimile dal Raptor Accelerator Fund di James Pallotta, il cui Managing Director è Mark Pannes, che è anche il CEO della AS Roma.

L’ultimo caso, quello forse con più evidenza nel mondo, è sicuramente quello del Manchester United, di proprietà della famiglia Glazer (titolare anche dei Tampa Bay Buccaneers della NFL) dal 2005, quando fu acquistato per la cifra monstre di 1,47 miliardi di euro, inclusi 850 milioni di dollari di debito scaricati sul club stesso. Una scelta questa che fece infuriare i tifosi dei Red Devils, che per protesta diedero addirittura vita ad un club rivale a livello locale recuperando nome e colori originali del team. Ma per quanto sia enorme la rata per interessi che ogni anno il club deve pagare, da allora il Manchester United ha vinto 4 Premier League, the FA Cup ed una Champions League sotto la guida del manager scozzese Alex Ferguson, vero padrone di casa all’Old Trafford, e i top players continuano a sbarcare a Manchester, come dimostra l’arrivo del centravanti olandese Robin Van Persie in estate dall’Arsenal. E ciò perché il management ha reso il MUFC il top club mondiale per valore secondo la classifica stilata da Forbes, grazie anche ai super contratti di sponsorizzazione con società quali Nike, DHL e, a partire dal 2014, General Motors, tutti in fila per farsi vedere dai 689 milioni di tifosi che il Manchester United ha in giro per il mondo.

Differenze di approccio. E nei conti…Situazioni simili quindi, quelle di club con proprietà americana ricca ma non certo disposta a riversare i propri miliardi nell’acquisto di giocatori o sui loro contratti, come invece ad esempio fanno i titolari arabi di Manchester City e PSG o il russo Roman Abramovich al Chelsea. Americani che però con il loro arrivo trasformano i propri club, risanandoli (si vedano i casi di Liverpool e AS Roma), dando ad essi una struttura di business capace di produrre utili, e delegando ai manager la gestione dell’area tecnica. E, nonostante qualche risultato altalenante sul campo, in questo la Roma rappresenta un modello in Italia, con a capo della struttura tecnica dirigenti come Franco Baldini e Walter Sabatini, tra le migliori espressioni del calcio italiano, e con il tedesco Christop Winterling arrivato dall’Adidas per far crescere le entrate.

A quanto pare però questo tipo di approccio sembra non piacere a giornalisti e tifosi, e verrebbe da pensare che non possa essere adeguato al calcio europeo. Ma il problema è alla fonte. Spesso l’arrivo di un ricco americano nella mente di un europeo fa risuonare il tintinnio dei dollari. Purtroppo però – e questo sarebbe compito dei giornalisti – si dimentica di spiegare come negli Stati Uniti lo sport sia un business, non come in Italia un posto dove invece serve per andare a far business da qualche altra parte. E andando a vedere i conti dei club europei (una ricerca dell’UEFA su 655 club nel 2009 ha verificato perdite combinate per oltre 1,2 miliardi di euro), rispetto a quelli delle leghe americane che giocano in stadi con dimensioni simili a quelle del calcio, il gap è impressionante: nella NFL l’EBITDA medio è di 41 milioni di dollari per franchigia nel 2011, nella Major League Baseball invece è di 14 milioni di dollari.

L’UEFA e l’enforcement del Financial Fair PlayI freddi numeri dicono quindi che il modello di proprietà americano è quello giusto, ma i tifosi protestano perché vedono PSG, ManCity e Chelsea riversare centinaia di milioni sul mercato dei calciatori. Ma questo è un problema che riguarda principalmente l’UEFA e la sua capacità di implementare in maniera seria le Financial Fair Play rules di cui essa stessa si è dotata, evitando i sistemi di elusione su cui alcuni club stanno lavorando alacremente ipotizzando o mettendo già in atto improbabili sponsorizzazioni milionarie da parte di società collegate. Solo quando le regole in questione saranno pienamente in vigore e tutti le applicheranno allora si potrà comprendere la lezione di business (e i conseguenti riflessi sull’aspetto tecnico) in arrivo dall’America. Ma probabilmente tifosi e giornalisti/tifosi (categoria particolarmente diffusa nella Capitale) continueranno a contestare.

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