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Arel: l’Italia si è dimenticata dei giovani

Ampia ricerca dell’Arel sulla condizione giovanile in Italia coordinata da Tiziano Treu e Carlo Dell’Aringa – La flessibilità non è precarietà e le cause della disoccupazione giovanile non dipendono dalla precarietà ma da elementi strutturali – La differenza tra Italia e Germania sta soprattutto nel nostro basso tasso di attività – Le politiche necessarie

Arel: l’Italia si è dimenticata dei giovani

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invitando i giovani a partecipare attivamente alla vita politica ed evitando di rifugiarsi nello scoramento dell’antipolitica, ha tenuto però ad abbattere alcuni luoghi comuni che danno un’idea distorta e illusoria della strada che occorre imboccare per superare la crisi. Senza il rigore del bilancio pubblico – ha detto il Capo dello Stato – avremmo continuato a fare debiti scaricando il relativo onere proprio sui giovani che sono chiamati a pagare il conto delle spese allegre dei propri padri. E questo è esattamente il concetto contrario a quello più diffuso nella vulgata giovanile e non solo, secondo la quale l’austerità viene pagata soprattutto dai giovani.

Anche il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, intervenendo al Quirinale alla presentazione del rapporto Arel sui giovani ed il lavoro, ha colto l’occasione per abbattere un altro luogo comune secondo il quale, specie nella propaganda sindacale, si tende a confondere la precarietà con la flessibilità. Si tratta di due concetti diversi e bisogna discutere di come attuare una ben regolata flessibilità proprio per vincere la precarietà.

La poderosa ricerca dell’Arel intitolata “Giovani senza futuro?” e coordinata da Tiziano Treu e Carlo Dell’Aringa, chiarisce bene le dimensioni e i termini della questione giovanile offrendo ampia materia di riflessione a quanti vogliono affrontare senza demagogia un problema grave e complesso. In primo luogo Treu e Dell’Aringa dimostrano che i giovani italiani stanno pagando un prezzo elevato a causa della crisi, ma non troppo diverso da quello che stanno sopportando i giovani di altri paesi europei. La vera diversità sta non tanto nella disoccupazione che pure è salita molto, quanto nel tasso di attività che in Italia è appena del 40% mentre in Germania è del 53%.

Per i giovani italiani i contratti temporanei sono il 46% circa contro il 57% in Germania. Di conseguenza, e questa ci sembra la prima importante affermazione contenuta nel rapporto, si può dire che l’alto tasso di disoccupazione giovanile in Italia non dipende tanto dalle precarietà, cioè dalla diffusione dei contratti di lavoro temporaneo, quanto a cause strutturali profonde che la crisi ha aggravato, ma che preesistevano all’esplosione della bolla finanziaria nel 2008. Bisogna capirle bene e rimuoverle se si vuole uscire dalla crisi con un sistema più efficiente capace di offrire reali opportunità di inserimento ai giovani e non solo mendaci promesse.

I problemi più delicati della situazione giovanile sono da un lato i giovani nè-nè, cioè che non lavorano e non studiano, e dall’altro la diffusione di situazioni lavorative illegali e cioè stage, partite Iva ecc. Oltre ovviamente al vero e proprio lavoro nero che naturalmente non riguarda solo, né forse principalmente, i giovani e che non si riesce a stimare con accettabile approsimazione.

Lo studio dell’Arel indica anche una serie di politiche capaci di affrontare il problema giovanile che non è legato solo alla fase di crisi che stiamo vivendo, ma che deriva da un progressivo degrado delle strutture preposte a facilitare l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, iniziato da almeno 15 anni e che è stato parzialmente tamponato nel decennio scorso dalle leggi Biagi che hanno aumentato la flessibilità in entrata. Infatti le proposte dell’Arel partono dalla necessità di rivedere e riqualificare i percorsi scolastici ed in genere la qualità della nostra istruzione, legandola più strettamente al mondo del lavoro anche attraverso l’intensificazione dell’alternanza scuola-lavoro che da noi è poco praticata rispetto a quanto avviene negli altri paesi.

Poi si passa per un miglioramento dell’apprendistato che in Italia non funziona soprattutto per le difficoltà di chiarire le competenze dello Stato e delle Regioni che dovrebbero partecipare al sostegno di questo istituto che in molti altri paesi europei svolge un ruolo fondamentale per agevolare l’inserimento dei giovani nell’attività lavorativa. Occorre poi riorganizzare i servizi all’impiego mettendo personale capace e competente al fine di aiutare i giovani nella selezione delle opportunità lavorative. E ciò unito a sostegni al reddito finalizzati e selettivi, potrebbe aggredire proprio quelle sacche di maggiore sofferenza costituite dai tanti giovani che non lavorano e non studiano.

Treu e Dell’Aringa , infine, fanno capire in più punti che sarebbe opportuno unificare, o quantomeno avvicinare, le tutele tra precari e titolari di impieghi a tempo indeterminato e che questo non dovrebbe avvenire riducendo la flessibilità dell’ingresso. Tra questa redistribuzione dei diritti rientra anche l’annosa questione dell’articolo 18 che i due autori, pur lasciando capire chiaramente che si tratta di un “diritto” superato e dannoso, preferiscono non affrontare direttamente per evitare “tensioni sociali”, ma propongono alcune modalità capaci di attenuarne la portata senza formalmente intaccare i tabù del reintegro che è sempre più una bandiera delle organizzazioni sindacali.

I giovani hanno un futuro. Offrirlo è nell’interesse del paese, compresi gli anziani. Per raggiungere l’obiettivo è necessario prendere consapevolezza che è il contesto dell’economia italiana che deve mutare, aprirsi all’innovazione, cambiare comportamenti che sono ormai dei gusci incapaci di dare effettiva protezione a chi li indossa, porsi nella condizione di utilizzare i talenti e la voglia di fare dei giovani così da riprendere tutti insieme il cammino dello sviluppo.

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