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Tesoro, dal divorzio con Bankitalia a quello con l’Unione europea

Nella gestione del debito pubblico la condizione più importante è la fiducia degli investitori nella capacità dello Stato di rimborsare i titoli alla scadenza, che non è mai mancata, ma che oggi il sovranismo esasperato ha messo in crisi spingendo il Tesoro al divorzio di fatto con l’intera Unione europea, con tutte le conseguenze del caso – Ricordiamoci dello sciagurato prestito Littorio

Tesoro, dal divorzio con Bankitalia a quello con l’Unione europea

Correvano gli anni 1980-1983, il governo era guidato da Giovanni Spadolini (che successe ad uno dei tanti governi Andreotti) e Ministro del Tesoro era Nino Andreatta. In quei tempi di cambi flessibili la lira continuava a svalutarsi rispetto al marco tedesco sfiorando le 600 lire per marco; i tassi di interesse sui CCT oscillavano tra il 19 ed il 20%, così come quelli sui BOT che oscillavano anche loro tra il 19 ed il 20%. Dal canto suo, la spesa per interessi passivi ammontava a circa il 5-6% del Pil, a fronte dello stock del debito pubblico pari a circa il 60% dello stesso Pil. I tassi bancari applicati alla clientela si aggiravano nell’intorno del 18% con punte del 20% nel 1981; l’inflazione raggiunse il 20-21%.  

In questo contesto il ministro Andreatta si rivolse direttamente in prima persona e senza mediazioni politiche e/o partitiche dovute a qualche contratto di governo, al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, scrivendogli in data 12 febbraio 1981 che “ho da tempo maturato l’opinione che molti problemi della gestione della politica monetaria siano resi più acuti da una insufficiente autonomia della condotta della Banca d’Italia nei confronti delle esigenze di finanziamento del Tesoro”. Il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi rispose con lettera in data 6 marzo 1982 dichiarando che sulla linea di intervento proposta “si trovava sostanzialmente d’accordo”. Da allora il tasso di interesse da corrispondere sottoscrittori dei titoli di stato risponde alle leggi di mercato della domanda e dell’offerta di titoli e alle loro valutazioni sulla convenienza di siffatto investimento.

Nel caso specifico del debito pubblico la condizione più importante è costituita dal grado di fiducia che gli investitori hanno sulla capacità dello stato sovrano di rimborsare i titoli alla scadenza oltre che a corrispondere il tasso di intessere risultante al  momento dell’asta per il collocamento. Da allora, malgrado la crescita abnorme del debito pubblico italiano, gli investitori italiani ed esteri hanno sempre mostrato fiducia nello stato italiano, come attesta il progressivo allungamento delle scadenze dei titoli di stato (oggi all’incirca di sei anni). La certezza che i governi che si sono susseguiti da allora avrebbero sempre operato con la dovuta flessibilità ed energia per mantenere l’Italia nel rispetto dei trattati e negli accordi di cambio via via firmati fino all’entrata nell’euro e quindi nel regime dei cambi fissi ha contribuito alla progressiva riduzione nel lungo periodo dei tassi e di realizzare per questa via a il migliore controllo della spesa per interessi passivi. In alcuni casi fu necessario adottare politiche di bilancio onerose quanto imprevedibili dovute al crollo della fiducia sulla capacità dei governi di onorare il debito pubblico. 

Oggi il sovranismo esasperato, in vista delle prossime elezioni europee, vantato senza soluzione di continuità della coalizione gialloverde, più che il populismo infarcito come il tacchino natalizio di proposte irrealizzabili, sta forzando il Tesoro verso il divorzio di fatto con l’intera Unione europea. Circostanza che, nella montante sfiducia del mercati interni ed internazionali, renderebbe nei fatti impossibile allo stato sovrano italiano di onorare, anche nel breve periodo, il proprio debito pubblico; di arrestare la fuga dei capitali all’estero; di continuare ad allungare le scadenze del debito; di continuare a convincere i risparmiatori a non ricercare sicurezza nella nuova liquidità ottenuta non rinnovando alla scadenza i titoli pubblici tenuti in portafoglio; come attesta la recente disaffezione per il BTP.

Ne conseguirebbe una violenta  destabilizzazione finanziaria; caso mai alimentata dalle sciagurate parole di chi rimpiange la lira o accenna con pericolose gioco di parole, al possibile  l’annullamento del debito pubblico, come se questo potesse all’improvviso scomparire a fronte della ricchezza degli italiani. Riportare nella narrativa il termine “consolidamento” dovrebbe costituire obbligo lessicale per alcuni dei più esilaranti cantori del contratto di governo, della sua vantata rigidità, che invece rende impossibili provvedimenti a fronte delle mutabili condizioni dell’economia interna e internazionale. Cantori della incomprensibile ai più manovra di bilancio. Incomprensione dovuta anche al lessico mai minimamente tecnico ma sempre e soltanto politico narrativo da campagna elettorale, ma che  perennemente usato, non trova mai riscontro nelle normali discussioni di economia e finanza che richiedono un seppur minimo linguaggio tecnico. 

A fronte di siffatta babele narrativa, va ricordato che è però vero che nella storia dell’Italia non sempre lo Stato ha rispettato gli impegni presi con i risparmiatori: così come avvenne nel 1926 quando Mussolini per conseguire la stabilizzazione monetaria autorizzò per decreto legge In data 6 novembre del 1926, l’emissione dl “prestito Littorio”, prima annunciato nel suo discorso di Pesaro del 18 agosto del 1926, che imponeva la immediata conversione in titoli senza scadenza dei Bot con scadenza a cinque e sette anni, il cui stock costituiva all’incirca un quarto del debito pubblico di allora. Fu un passo sciaguratamente importante per conseguire la sovranità e l’autarchia economica e l’isolamento dell’Italia dal resto del mondo. Così come potrebbe succedere quando l’attuale  divorzio di fatto tra Tesoro italiano e Unione Europea dovesse trasformarsi in divorzio di diritto, questa volta emendando il contratto di governo.  

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