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Telecom Italia: non basta cambiare il capo se non si interviene su strategie, governance e capitali

E’ del tutto illusorio pensare che basti cambiare il numero uno per rilanciare il più grande gruppo italiano di telecomunicazioni: l’addio di Bernabè solleva invece problemi di strategia, di governance e di investimenti – E’ su questo terreno che Telefonica dovrà misurarsi se realmente andrà in porto la sua conquista di Telecom.

Telecom Italia: non basta cambiare il capo se non si interviene su strategie, governance e capitali

Qualche volta basta cambiare il capo perché un’impresa risorga. Alla Fiat è stato così. Otto anni fa Sergio Marchionne ereditò una Fiat tecnicamente fallita e, malgrado le incomprensioni che la sua strategia continua a suscitare in Italia, ne ha fatto di nuovo un player mondiale. Ma i casi aziendali non sono sempre eguali: in Alitalia di capi ne hanno cambiati tanti ma la compagnia aerea non si è mai ripresa. In Telecom Italia sarebbe bello pensare che basti sostituire Bernabè alla guida per rilanciare il gruppo. Ma è del tutto improbabile che avvenga. A meno che non scattino tre condizioni che in gran parte gli azionisti di blocco di Telco hanno fin qui negato al presidente uscente fino a indurlo a dimettersi.

Telecom Italia può anche aprire un bando internazionale per cercare il miglior manager al mondo nel campo delle telecomunicazioni ma non riuscirà mai a trovare la via del rilancio se non risolverà tre problemi determinanti: una strategia di sviluppo, la ricapitalizzazione e una nuova governance.

Partiamo dall’ultimo punto, che è il meno esplorato ma è forse quello cruciale. Qui c’è un problema grande come una casa che ha contribuito non poco a far deragliare la gestione Bernabè. Chi comanda realmente in Telecom? I numeri dicono che il gruppo è sostanzialmente una public company perché il mercato ha in mano l’85% del capitale complessivo (azioni di risparmio comprese) , ma la realtà dimostra che il padrone assoluto di Telecom è Telco (il blocco di azionisti composto da Telefonica, Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo, con gli ultimi tre partner in uscita) che detiene il 22,4% del capitale ordinario. Non occorre essere degli specialisti per capire che si tratta di una governance del tutto sbilanciata e nella quale, per fare un esempio, la Findim di Marco Fossati, che ha in mano il 5% di Telecom, non ha alcuna rappresentanza negli organi sociali. Sono lontani i tempi del cosiddetto nocciolino duro della Telecom post-privatizzazione, ma la situazione non è molto diversa ed è ora che cambi e si allinei alle best practices internazionali.

Poi c’è il problema, non meno decisivo, della strategia. Nella sua gestione Bernabè, non avendo nuove risorse finanziare a disposizione e avendo ereditato sei anni fa un debito di oltre 35 miliardi di euro che ha ridotto a poco più di 28 pur realizzando 25 miliardi di investimenti, ha cercato di barcamenarsi tra il mantenimento degli asset sudamericani (Brasile in testa), che alimentano i profitti del gruppo, e lo sforzo, rivelatosi insufficiente, di rilanciare la presenza di Telecom sul mercato interno. Per vincere questa seconda sfida, soprattutto nel mobile, sarebbe stato necessario eliminare uno dei troppi concorrenti che frantumano la telefonia mobile in Italia: o comprando H3G, da sempre in perdita ma con una quota di mercato non trascurabile, o puntando su Fastweb, che non a caso Vodafone ha messo nel mirino anche per la sua rete fissa. Bernabè ha tentato l’integrazione con H3G ma le pretese della casa madre cinese hanno fatto fallire sul nascere le trattative. L’assenza di capitali disponibili ha fatto il resto.

Ora Telefonica, che si appresta a diventare l’azionista di riferimento di Telecom se si risolverà il problema della messa in sicurezza della rete e si appianeranno i nodi antitrust in Brasile, ha in mente di cambiare registro. Via Tim Brasil da Telecom Italia per fare cassa e non inciampare nella normativa brasiliana antitrust e riflettori accesi sullo sviluppo di Telecom in Italia. E’ una strategia che ha una sua logica, anche se impoverisce l’orizzonte internazionale di Telecom, ma che è tutta da verificare sul campo.

Una cosa però è certa e arriviamo così al secondo dei tre punti in questione, che non è di sicuro il meno importante: senza nuovi capitali la nuova Telecom non può sperare di vincere. Per potenziare la rete, al di là della sua collocazione societaria, e per fronteggiare una concorrenza sempre più agguerrita e che si è rafforzata e ampliata con gli Over the Top (Google in primis), servono soldi. La strategia e la governance sono essenziali ma senza capitali non si va da nessuna parte e si rischia invece di imboccare la pericolosissima china del downgrading, che mette in pericolo la sostenibilità del debito. L’era di Bernabè si è infranta sulla ricapitalizzazione. Presto capiremo se i nuovi re di Telecom saranno in grado di cambiare musica.

Leggi i precedenti articoli del direttore Franco Locatelli sul caso Telecom Italia:
https://www.firstonline.info/a/2013/09/25/telecom-non-e-come-alitalia-o-ansaldo-la-differenz/8b85d308-f592-40b7-8235-e1c7c92e6d0f
https://www.firstonline.info/a/2013/09/28/politica-miope-e-capitalismo-senza-capitali-questa/4d82c77c-2b24-46da-be14-c2e0f6e6edd3 

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