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Politica miope e capitalismo senza capitali: questa Italia non merita Telecom

La tormentata storia di Telecom Italia è la metafora di un Paese oppresso da debiti, senza capitali e senza vision e frenato da mille lacci e laccioli – La scalata senza Opa degli spagnoli è l’epilogo di una serie infinita di errori che si moltiplicano dopo la privatizzazione e che vanno addebitati a una politica miope e a un capitalismo privo di capitali

Politica miope e capitalismo senza capitali: questa Italia non merita Telecom

“Del passaggio di mano di Telco il management di Telecom Italia lo appreso dai comunicati stampa. Per arrivare a scelte differenti dovevamo tutti quanti pensarci prima”. C’è molta amarezza in questa confessione che il presidente di Telecom, Franco Bernabè, ha fatto alla commissione Industria del Senato sul raid spagnolo sul più grande gruppo italiano di telecomunicazioni, ma c’è anche un trasparente atto d’accusa prima di gettare la spugna. Fino alla sua privatizzazione Telecom Italia era una gallina dalle uova d’oro e ancor oggi resta un asset strategico essenziale per la sua rete: ammesso e non concesso che l’operazione spagnola vada realmente in porto, vedersela sfilare così fa tristezza. Ma dovevamo pensarci prima.

La solitudine di Bernabè, che era tornato alla guida di Telecom per una rivincita personale dopo l’Opa a debito di Gnutti e Colaninno che nel ’99 lo aveva defenestrato dopo sole poche settimane e che è all’origine di tutti i guai del gruppo, è anche la solitudine di Telecom. Ma non stupisce che sia andata così, perché Telecom è un po’ la metafora dell’Italia: tanti debiti, scarsi capitali, pochi investimenti e mille lacci e lacciuoli in un mercato nel quale l’eccesso di operatori e lo strapotere degli over the top (Google in testa) ha stravolto i paradigmi competitivi.

Il caso Telecom è un caso di scuola: purtroppo in negativo. Il gruppo leader delle tlc in Italia è stato la vittima sacrificale di un capitalismo senza capitali e di una politica intrusiva o assente ma comunque sempre miope. Ora il sistema Paese può piangere quanto vuole, ma sono solo lacrime di coccodrillo. Se davvero riuscirà a conquistare Telecom, dribblando golden share e rischi di opa e prevalendo sul gruppo che sostiene Bernabè e che reclama la ricapitalizzazione della società, può anche darsi che Telefonica, pur essendo gravata da 50 miliardi di debiti, riesca nel tempo a ridare smalto a Telecom ma per il Paese è già una partita persa.

Del resto la conquista degli spagnoli è solo l’ultimo atto di una storia che parte da lontano e che conferma come l’Italia, che nella sua provinciale diffidenza verso l’impresa, non capisce e non ama i grandi gruppi non meritasse un gioiello com’era Telecom. Fin da quando era pubblica e si chiamava Stet l’unica preoccupazione della politica, con poche eccezioni, era quella di usare Telecom come una grande greppia per inventarsi posti di lavoro fasulli o caldeggiare appalti truccati per gli amici degli amici.

Sa il cielo quante resistenze incontrò per modernizzare il sistema italiano delle telecomunicazioni un galantuomo di grande finezza come Giuliano Graziosi che nei primi anni ’80 il ministro del Tesoro Nino Andreatta nominò amministratore delegato della Stet. Infatti dopo qualche anno, e soprattutto dopo il famoso Piano Europa e le alleanze con gli americani di At&T, Graziosi fu prima affiancato da altri manager democristiani e socialisti interessati solo al dividendo politico della Stet e poi allontanato.

Poi venne – nella seconda metà degli anni ’90 -’arrivò la stagione della privatizzazione di quella che era diventata Telecom Italia. Secondo la vulgata corrente la privatizzazione voluta da Prodi e da Ciampi fu la causa del declino di Telecom ma è un falso storico. Può darsi che la fretta di fare le privatizzazioni per entrare nell’euro non sia stata una buona consigliera, ma la verità vera è che la debolezza dell’assetto societario della Telecom uscita dalla privatizzazione fu dovuta principalmente alla riluttanza di capitalisti senza capitali e soprattutto senza vision che, dopo aver tanto invocato le privatizzazioni, al momento di aprire il portafoglio preferirono girare la testa dall’altra parte o praticare la politica della lesina.

Ne sa qualcosa il fondatore del fondo di private equity Clessidra, Claudio Sposito, che allora lavorava a Morgan Stanley al cui il Tesoro aveva assegnato l’incarico di raccogliere le sottoscrizioni per la privatizzazione. Sposito, che è un ottimo uomo di finanza, passò l’estate del ‘97 a fare il giro delle sette chiese ma le risorse rastrellate non erano certamente entusiasmanti. Il famoso nocciolino Telecom che comprendeva l’Ifil, le grandi banche, Mediobanca e pochi imprenditori privati nacque così.

Con pochi soldi e soprattutto nessuna competenza del settore, le new entry pretendevano di guidare la Telecom e finirono per cambiare presto il management sfiduciando l’ad, che era Tomaso Tommasi di Vignano (un manager che aveva già dimostrato in Sip le sue capacità e che le ha confermate costruendo pezzo dopo quel gioiello che è diventata la multiutility emiliana Hera), e affidando il gruppo a un manager poco competente e un po’ troppo spaccone come Gianmario Rossignolo. Poi Ciampi, che nel ’98 era il ministro del Tesoro e che si sentiva responsabile del buon andamento della madre di tutte le privatizzazioni, si adoperò per convincere Franco Bernabè a lasciare la guida dell’Eni, che aveva guidato con successo dopo le nebbie di Tangentopoli, e ad assumere la guida di Telecom Italia diventandone amministratore delegato. 

Ma la prima stagione di Bernabè alla guida di Telecom durò solo poche settimane perché la febbre di Borsa che allora circolava spinse finanzieri senza scrupoli e senza capitali capitanati da Chicco Gnutti ad allestire l’Opa a debito di Telecom con l’appoggio di Roberto Colaninno (ex ad di Sogefi del gruppo De Benedetti), che poi ne assunse la guida operativa, e con l’incredibile appoggio finanziario di Mediobanca e politico dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Quando si fa un’Opa delle dimensioni di quella su Telecom e si scaricano i costi dell’operazione sulla società-preda, e cioè sulla stessa Telecom, non ci vuole molto a intuire dove si va a parare.

E infatti Telecom, malgrado godesse ancora di una rendita semi-monopolistica, cominciò a imbarcare debiti su debiti che ne impiombarono le ali. D’Alema era convinto che Gnutti e Colaninno fossero dei “capitani coraggiosi” di un nuovo capitalismo alternativo a quello delle famiglie storiche e dei cosiddetti salotti buoni ma si trattava di un colossale abbaglio che valse a inguaiare Telecom e a pregiudicarne il futuro. 

Poi venne la stagione di Marco Tronchetti Provera e dei Benetton ma non andò meglio. Un po’ perché l’idea molto milanese che Telecom fosse solamente un carrozzone ex pubblico portò ad allontanare manager di qualità ma soprattutto perché gli alti prezzi pagati per l’acquisto del pacchetto di controllo da Gnutti e Colaninno diventarono da subito – complice il crollo dei mercati tre mesi dopo – un’ossessione finanziaria per i nuovi re del gruppo telefonico che li spinse a commettere diversi passi falsi, il principale dei quali fu la fusione tra Telecom e Tim.

Quando Bernabè tornò in Telecom – e siamo agli ultimi anni – trovò un gruppo completamente diverso da quello che aveva lasciato nel ’99. Telecom era un gruppo che aveva addosso 40 miliardi di debiti, che aveva già perso molte sfide tecnologiche, che si trovava a fronteggiare una concorrenza sempre più agguerrita e che era ingabbiato da un azionariato nel quale primeggiava la minoranza di blocco di Telco, composta da Telefonica, da Mediobanca, da Generali e da Intesa Sanpaolo.

Il passaggio di Telecom da Tronchetti a Telco fu immaginata come un’operazione di sistema ma fu pagata a caro prezzo e fu alla base delle successive difficoltà di Telecom e di Bernabè. Sia perché la presenza di Telefonica impedì subito di ragionare sulla possibile vendita Tim Brasil o sullo scorporo della rete ma soprattutto perché era evidente che quasi tutti i nuovi soci non volevano svenarsi ulteriormente per Telecom anche a costo di negarle le risorse per nuovi investimenti e/o acquisizioni.

Bernabè ha provato a ridurre certosinamente il debito e i costi di gestione ma non ha mai avuto i capitali e le mani libere per rilanciare davvero Telecom. Ha dovuto barcamenarsi ma la sua si è rivelata da subito una mission impossible. Nei prossimi giorni deciderà se aprire l’ultima battaglia per mettere in sicurezza Telecom o rassegnare le dimissioni.ma, senza un sistema-Paese che crede e che sostiene i pochi grandi gruppi nel rispetto delle regole della concorrenza e soprattutto senza azionisti lungimiranti che credono nella sfida delle telecomunicazioni, Telecom non poteva e non può andare lontana. Telefonica aspettava solo il momento migliore per conquistarla ma la verità è che l’Italia non ha perso Telecom da oggi ma da molto tempo. Ora si appresta solo a pagare il conto ed è un conto salato.

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