Chi avrebbe mai immaginato che ciò che più sorprende gli investitori stranieri dell’Italia non è il debito pubblico, che pure è il terzo più grande al mondo, ma qualcosa di più impalpabile? Eppure a impressionarli più di ogni altra cosa è la diffusa antipatia che nel nostro Paese riscuote un manager del calibro di Sergio Marchionne. Chi ce lo ricorda non è uno osservatore qualunque ma uno tra più attenti delle vicende italiane: Bill Emmott, già direttore dell’Economist e autore di un libro di grande successo come “Forza, Italia – Come ripartire dopo Berlusconi”. Sull’ultimo numero de “L’Espresso” Emmott ha scritto un commento di grande interesse e di forte attualità che tutte le forze politiche e sociali dovrebbero leggere e meditare e che già nel titolo va dritto al cuore della questione: “Nemo Marchionne in patria”. Insomma, l’indice di gradimento (molto basso) di Marchionne in casa nostra come test degli orientamenti politici e delle tendenze sociali e culturali dell’Italia. In definitiva, della voglia degli italiani di crescere o di restare nella morta gora della recessione e della stagnazione.
Se fino a qualche tempo – racconta Emmott – gli investitori stranieri si chiedevano “perché gli italiani continuano a votare per Silvio Berlusconi”, oggi si domandano “perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia”. E spesso non sanno rispondere. Sarà anche vero che il ceo della Fiat, l’uomo che cinque anni fa ereditò una società tecnicamente fallita e oggi ne ha fatto una realtà industriale con mille problemi ma che sta vincendo la scommessa americana ed è tornata in partita, ha gravi limiti comunicazionali e ha commesso più di un errore di tattica sindacale. Ma sarebbe troppo semplicistico pensare che la risposta possa essere questa. “Sorprende – scrive ancora Emmott – che tanti italiani abbiano un’opinione così negativa sull’uomo che guida una delle aziende manifatturiere più importanti e più antiche del Paese” malgrado mostrino spesso l’orgoglio di appartenere a un Paese che è la seconda potenza manifatturiera europea dopo la Germania. “E più strano ancora appare il fatto che questo grande Paese manifatturiero produca in un anno meno automobili che nel Regno Unito”. Già, produciamo meno auto della Gran Bretagna che per vocazione ha la finanza piuttosto che l’industria: come mai?
La diffusa antipatia che Marchionne raccoglie in Italia, “in particolare tra i media delle élite, è – agli occhi dei tedeschi, dei britannici e degli americani – il sintomo di qualcosa che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso: che agli italiani non interessi veramente la crescita economica” e che l’Italia non abbia davvero abbracciato il capitalismo moderno e non sia interessata ad accogliere chi vuol fare affari.
Emmott ha pienamente ragione. Oggi Marchionne è, forse suo malgrado, la cartina al tornasole del sentiment italiano. Il problema, ovviamente, non è trasformare Marchionne in santo, ma capire che cosa susciti tanta avversione nei suoi confronti: se sia la sua persona, se sia la Fiat o se sia la sfida innovativa che, piaccia o no, Marchionne ha lanciato nonostante l’opposizione di larga parte dei sindacati, delle forze politiche, dell’opinione pubblica, dei media e – ciò che ancora più sconvolgente – nell’indifferenza della Confindustria e dei suoi vertici. Il punto è questo: è giusto che il Paese chieda alla Fiat e alle poche altre grandi imprese nazionali che cosa sono disposte a fare per l’Italia, ma a condizione di farsi una seconda domanda e di chiedersi che cosa il nostro Paese sia pronto a fare per mantenerle, valorizzarle e attrarle nel nostro territorio. In altre parole: in un Paese industriale come il nostro le grandi imprese sono un lusso, un optional o una necessità e una fonte di sviluppo? Grazie Emmott di avercelo ricordato e di costringerci a ragionare su queste verità. Ma grazie anche a Marchionne di aver sfidato con l’impopolarità il conformismo che sta condannando l’Italia alla mediocrità. Naturalmente sui modi del ceo della Fiat si può sempre discutere, ma sulla sostanza dei problemi di produttività, di certezza dei comportamenti delle varie parti in gioco e, in definitiva, delle regole del gioco che Marchionne solleva non è nascondendo la testa sotto la sabbia che faremo un passo avanti verso un avvenire più luminoso.