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Riforma pensioni 2020: le proposte sul tavolo

Continua la trattativa fra Governo e sindacati in vista di una possibile riforma delle pensioni 2020 – Le ultime novità riguardano le penalizzazioni per ogni anno di anticipo rispetto alle regole previste dalla legge Fornero

Riforma pensioni 2020: le proposte sul tavolo

Riparte il tavolo fra governo e sindacati per arrivare a una riforma delle pensioni 2020. L’obiettivo è riscrivere le regole sulla flessibilità in uscita per consentire a un numero maggiore di italiani di andare in pensione anticipata senza eccessive penalità. In particolare, i sindacati puntano a superare definitivamente l’impianto della legge Fornero, che ha alzato a 67 anni l’età pensionabile. Il governo non è contrario, ma per riuscirci intende archiviare Quota 100 al termine della sperimentazione triennale (fine 2021 – inizio 2022) e utilizzare i soldi già stanziati per la misura del governo gialloverde: circa 28 miliardi di euro in 10 anni.

RIFORMA PENSIONI 2020: LA PROPOSTA DEI SINDACATI BOCCIATA DAL GOVERNO

Ogni anno di anticipo deve portare con sé una riduzione dell’assegno, altrimenti il sistema previdenziale tornerebbe su una traiettoria insostenibile. Il problema è trovare un accordo sull’entità del taglio.

La proposta iniziale dei sindacati (pensione anticipata a 62 anni con 20 di contributi) non prevedeva penalizzazioni e per questo è stata rifiutata dal governo. Costava troppo.

RIFORMA PENSIONI 2020: LA PROPOSTA DEL GOVERNO BOCCIATA DAI SINDACATI

Si è tornati quindi a parlare di ricalcolo delle pensioni. La questione riguarda i contributi versati fino al 1995, che – in base alla riforma Dini – vengono conteggiati con il più generoso sistema retributivo (legato all’ultimo stipendio percepito dal lavoratore). Dal 1996 in poi, invece, i contributi si calcolano con il sistema contributivo, che è più penalizzante perché tiene in considerazione solo i contributi effettivamente versati. Il ricalcolo prevede che il lavoratore, per andare in pensione con qualche anno di anticipo, accetti il conteggio contributivo anche dei contributi versati fino al 1995.

PENSIONE ANTICIPATA: -30% CON IL RICALCOLO CONTRIBUTIVO

In questo modo, però, l’assegno rischia di ridursi parecchio. Troppo, secondo i sindacati. L’Osservatorio previdenza della Fondazione Di Vittorio della Cgil ha fatto i calcoli: per andare in pensione a 64 anni anziché a 67, un lavoratore che ha versato 18 anni di contributi prima del 1996 subirebbe un taglio di un terzo della pensione lorda, pari a un quinto di quella netta. Ad esempio, un dipendente che ha incassato più o meno lo stesso stipendio per tutta la carriera si vedrebbe ridurre l’assegno da 880 a 690 euro. Meno della pensione di cittadinanza (780 euro).

POSSIBILE COMPROMESSO: TAGLIO LINEARE INVECE DEL RICALCOLO

Il governo sta ragionando quindi su una controproposta: sostituire il ricalcolo contributivo con una penalizzazione meno pesante per ciascun anno di anticipo. L’entità del taglio non è stata definita, ma è possibile che si recuperi il 2% annuo proposto anni fa dall’ex deputato Pd Cesare Damiano. A quel punto una pensione anticipata di tre anni costerebbe una penalizzazione del 6%, molto meno del 30% imposto dal riconteggio contributivo.

La trattativa è ancora in fase iniziale: solo a marzo, terminato il primo giro di tavoli tecnici, i ministeri dell’Economia e del Lavoro cominceranno a chiarire la loro posizione ai sindacati.

5 thoughts on “Riforma pensioni 2020: le proposte sul tavolo

  1. MANDATO PENSIONE FORZATA DOPO VISITA MEDICA FATTA MESTRE COMMISIONE MEDICA DA LEGGE 335DEL95 CHI MI PAGA ANNI MANCANTI XQUOTA CENTO CHE NON HO XCHE LICENZIATO PURE MALATTIA DANNIPURE QUELLI SONO 6MAGGIO2018 PRENDO 935EURO LORDI MESE 700NETTI CHI MI PAGA ANNI MANCANTI E

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  2. Dalle pochissime notizie filtrate riguardo alla trattativa in corso sul cosiddetto “superamento” della legge Fornero mi è parso di capire che l’intenzione del governo in carica sia quella di abolire la pensione d’anzianità per lasciare solo quella di vecchiaia, che verrebbe abbassata dagli attuali 67 anni a 64 anni d’età per tutti. Ciò significherebbe che coloro che hanno incominciato a lavorare a 18 anni compiuti dovranno lavorare per ben 46 anni prima di poter andare in pensione mentre nel contempo persone che hanno lavorato solo 20 anni o giù di lì potranno ottenere la pensione alla stessa età dei primi, cioè a 64 anni. Insomma alcuni lavoratori dovranno lavorare più del doppio degli anni di altri per poter andare in pensione alla loro stessa età. Spero che tale ipotesi sia rigettata per ovvi motivi di lampante iniquità.
    Altrettanto palesemente iniqua è la pretesa dei sindacati di abbassare di un anno per ogni figlio la soglia dell’età della pensione per le donne a prescindere dal loro reddito e dal fatto che esse e i loro figli siano in perfette condizioni di salute; l’abbassamento dell’età della pensione andrebbe infatti riservato a lavoratori (sia donne sia uomini) con gravi malattie croniche e parzialmente invalidanti. Del resto la pretesa che le donne con figli vadano in pensione prima delle donne senza figli, magari perché sterili o loro malgrado zitelle, nonché dei lavoratori maschi sottende e avalla una concezione anacronistica della donna, come se cura della casa e dei figli non possa essere in maniera paritaria suddivisa tra i coniugi. Peraltro tale pretesa cozza contro la ratio dell’innalzamento recente delle pensioni giustificato con l’innalzamento della “speranza di vita”, cioè della lunghezza media della vita, che in Italia per le donne è notevolmente più lunga che per gli uomini (85,3 anni per le donne contro 81,0 per gli uomini). Il risultato sarebbe che lavoratori e lavoratrici con patologie croniche anche parzialmente invalidanti fino al 73% e magari con redditi bassi si troverebbero a dover lavorare più anni prima di ottenere una qualche pensioncina rispetto a donne sanissime (del resto il parto non è una malattia ma una situazione fisiologica che è più facilmente realizzabile in donne sane) e magari con coniugi ad alto reddito e quindi nelle condizioni economiche di poter optare per un orario di lavoro part time.
    L’età a cui andare in pensione in Italia è stata innalzata con la motivazione che la speranza di vita si è allungata. Perciò ai diabetici di tipo I (quindi completamente insulinodipendenti) che, secondo l’unica statistica ad oggi esistente, vivono in media tra gli 11 e i 12 anni in meno delle persone sane, la soglia dell’età per andare in pensione dovrebbe essere abbassata di 11 o 12 anni. Il problema è che la gestione del diabete di tipo 1 è molto più difficile quando si deve lavorare a tempo pieno per più di 40 anni; infatti dopo 20 anni di diabete il 90% dei malati ha sviluppato retinopatia, che è la maggiore causa di cecità in età lavorativa. L’articolo 32 della nostra Costituzione dice che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. In un paese come l’Italia in cui la spesa pensionistica è sotto controllo e in linea coi parametri europei mentre quella assistenziale è fuori controllo, che senso ha far lavorare per tanti lustri persone con il diabete di tipo 1 – malattia non dovuta né legata ad un errato stile di vita – fino a quando diventino invalidi gravi, con tutto il carico di spese collettive e di tragica sofferenza individuale che ciò comporta?

    Personalmente insegno da 36 anni nella scuola superiore e da 20 col diabete T1 e a causa delle diurne e notturne oscillazioni glicemiche sono veramente agli estremi del logoramento e alla soglia della disperazione, perché non mi posso permettere di cessare di lavorare poiché non posso vivere di rendita e percepirei una pensione misera solo tra 8 anni e forse più, viste le ipotesi ultimamente in circolazione.
    Pertanto chiedo che per i malati di DT1, così come si fa per i lavoratori sani, l’età del pensionamento venga rapportata all’effettiva durata media della vita, aggiornata di anno in anno. Perciò sarebbe urgente che il Consiglio superiore di Sanità – conformemente allo statuto delle sue finalità – effettuasse annualmente e rendesse di pubblico dominio il rilevamento dell’età media dei decessi dei diabetici di T1, in base alla quale calcolare la soglia per andare in pensione (N.B. con regime contributivo); in alternativa si potrebbe considerare ai fini del computo di tale soglia d’età ogni anno lavorato con il carico della malattia come valente per due anni lavorati dalle persone sane.
    Tutto mi aspetto da chi riveste ruoli sanitari, politici e sindacali tranne che un comodo, facile, cinico ed indifferente silenzio, che concretamente significherebbe la inesorabile (ed evitabile) lenta rovina della vita di tanti cittadini italiani nei prossimi 5-10 anni.

    Attualmente anche chi, come me, ha una invalidità civile riconosciuta al 60% non ha nessun diritto a una qualche pensione anticipata. Quello che vorrei ricordarle è che fino a una ventina di anni fa circa la soglia pensionistica minima per gli uomini era di 35 anni di lavoro, oggi di 42 e 10 mesi (che dovrebbero peraltro gradualmente aumentare…). Pertanto se io fossi nato una ventina di anni prima del mio effettivo anno di nascita avrei già potuto essere in pensione (ho già alle spalle 36 anni di lavoro), senza dover chiedere un’uscita anticipata dal lavoro in quanto affetto da diabete T1.

    Chiedo almeno che i lavoratori nelle mie condizioni di salute non siano costretti a lavorare un numero di anni superiore a quello di chi può accedere, pur se in perfetta salute, alla “pensione di vecchiaia” con soli 20 anni di contributi. E’ assurdo che chi lavora da decenni nelle mie condizioni, e quindi è esposto col trascorrere del tempo al rischio di gravi irreversibili complicanze, debba lavorare 43-45 anni, cioè più del doppio di persone in perfetta salute.

    Chiedo almeno che non venga eliminata la pensione d’anzianità poiché, se viene lasciata solo quella di vecchiaia a 64 anni anagrafici (come secondo i progetti del governo in carica), per privilegiare figli di papà e signore altoborghesi, si penalizzano in modo sbagliato coloro che hanno incominciato a lavorare a 18 anni e coloro che non hanno perso tempo andando fuori corso all’Università.

    Io per esempio – secondo di cinque figli – non ho potuto bighellonare all’Università (che per ragioni anagrafiche ho incominciato a 18 anni) e mi sono laureato a 23 anni, avendo cominciato a lavorare a tempo indeterminato già durante la preparazione della tesi; perciò a 64 anni avrò alle spalle ben 46 anni di contributi, di cui 30 lavorati in condizione di diabetico di tipo 1 (cioè col metabolismo completamente annientato).

    Le sembra accettabile che quelli nelle mie condizioni debbano pagare, in tema di soglia del pensionamento, per i privilegiati del passato, del presente (20 di servizio per i lavoratori tardivi) e del futuro (mi riferisco alla ”pensione di garanzia” per i giovani e a madri sane e economicamente agiate): quelli come me non hanno né diritti umani, né diritti lavorativi acquisiti né garanzie???

    Chiunque provasse a vivere, nonché a lavorare a tempo pieno, anche solo per 48 ore con la mia patologia eviterebbe di sostenere posizioni che gridano vendetta al cospetto di Dio sulla questione da me trattata.

    Rispettosi saluti.

    Leonardo

    * lavoratore con invalidità civile al 60% e portatore 24 ore su 24 di sensore elettronico con cannula sottocutanea per monitoraggio continuo della glicemia.

    In quanto affetto da DT1 obbligato a sottoporsi a esame triennale per rinnovo patente, ma quanto a soglia pensionistica considerato perfettamente in salute…

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  3. liliana caterina simoncini · Edit

    Che vergogna, a pagare per tutti questi massacri economici sono ancora le donne, hanno lavorato meno anni certo, ma non si considera che la famiglia e’ ancora sulle spalle delle donne? In Francia si che ci sanno fare! 62 anni per gli uomini e 58 per le donne. In Italia sappiamo solo mantenere la casta!!!!

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  4. Come al solito a rimetterci sempre i soliti ….gente che ha lavorato 35/42 anni andrà in pensione piu vecchio come età! /62 /67 CON Penalità……..complimenti

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