Gianna sedette davanti allo specchio della toilette, gettò un’occhiata alla sua immagine riflessa, e pensò che, per essere una signora di mezza età, non se la cavava affatto male. Ma poi lo sguardo le cadde sul collo e tutto il suo buonumore andò a farsi benedire. La pelle rilassata per non dire avvizzita rivelava appieno i suoi cinquantacinque anni. Come sosteneva Nora Ephron, sofisticata autrice di commedie per il cinema ma anche di romanzi, il collo, assieme alle mani, è uno spietato rivelatore dell’età di una donn
La scrittrice newyorkese aveva appena pubblicato un volumetto intitolato Il collo mi fa impazzire. Tormenti e beatitudini dell’essere donna. Gianna non l’aveva letto, ma aveva scorso l’intervista con Nora Ephron su una rivista. L’autrice dichiarava, con una certa disinvoltura, di aver bisogno di otto ore alla settimana per la necessaria “manutenzione”, un po’ come per un’auto che ha accumulato parecchi chilometri.
Gianna cominciò a calcolare mentalmente il tempo che dedicava alla cura di se stessa. Quando arrivò a dieci ore – non aveva mai pensato di metterci così tanto – scrollò le spalle irritata e mormorò: «Che scemenza!» spalmandosi la crema sul viso e sul collo, operazione indispensabile prima di applicare il fondotinta. Nello stesso tempo sbirciò il vestito di chiffon steso sul letto, una cosuccia impalpabile dai colori pastello, che le era costato una fortuna, ma che le stava d’incanto.
«Sembra una ragazzina» le aveva detto la commessa, quando l’aveva provato.
Eh già! La sua era una generazione che si rifiutava d’invecchiare e, vuoi perché l’aspettativa di vita si era allungata, vuoi per il tenore di vita migliore rispetto all’epoca dei suoi genitori, alla sua età una donna non solo sembrava una ragazzina, ma poteva ancora sperare di cuccare. Non che fosse il suo caso. Lei era sposata, sposatissima da trentatré anni, una troglodita in fatto di matrimonio, della serie “finché morte non vi separi”, come quella esilarante fiction che trasmettevano su Sky.
«Sei ancora in alto mare, vedo» considerò Fabio affacciandosi alla porta della camera da letto.
«C’è tempo, no?» rispose distrattamente.
«Ultimamente impieghi un’eternità a preparati» osservò suo marito, che era già sbarbato, vestito e profumato. Un quasi sessantenne in ottima forma. Impaziente e scattante come quando aveva trent’anni, e camminava avanti e indietro per il corridoio con le chiavi della macchina in mano, aspettandola. Mentre lei, si rendeva conto, stava diventando sempre più lenta.
«Vado a fare benzina» la informò.
Gianna gli fu grata per quell’idea. Almeno non lo avrebbe avuto fra i piedi per un po’.
Mentre si passava il mascara, non poté fare a meno di pensare a ciò che l’aspettava quel giorno: un matrimonio dopo tre funerali che si erano succeduti a distanza raccapricciante. Non era superstiziosa ma in quei mesi, sei per l’esattezza, aveva cominciato a perdere un po’ del suo senno, piuttosto razionale, indugiando in maniera morbosa su quelle strane coincidenze. Fino a quel momento non aveva avuto familiarità con la morte né ci aveva pensato più di tanto, relegandola nel fondo della sua mente, come un’eventualità remota. I suoi genitori, seppure anziani, godevano di una discreta salute e, a parte i nonni, deceduti quand’era piccola, non era stata toccata da nessun lutto.
Tutto era iniziato con la telefonata di Luciana, un’amica d’infanzia, nella giornata più grigia di un novembre piovoso. Dopo qualche convenevole, le aveva comunicato che Dario, il suo primo ragazzo, era morto. Gianna era rimasta così sconvolta da non cogliere, sul momento, il paradosso. Ossia che fosse proprio colei che un tempo gliel’aveva portato via a darle la terribile notizia.
«Quand’è il funerale?» aveva chiesto, non a caso, prima ancora di informarsi come fosse morto. Era terrorizzata dal rito del funerale, dall’atmosfera che vi si respirava, dai dolenti e, sì, anche dalla salma esposta come se fosse un manichino vestito a festa.
«Non si sa ancora: in caso di suicidio ci vuole parecchio tempo.»
«Suicidio?» aveva replicato come un’idiota.
«Dario si è tolto la vita col monossido di carbonio, chiudendosi nell’auto» le aveva riferito Luciana, senza giri di parole, ma anche senza un minimo di sensibilità.
«Ma lui non era tipo da fare una cosa simile!» gridò.
«Lo so. Era una persone superficiale e irresponsabile, ma era un uomo positivo. Del resto le persone cambiano» aveva commentato Luciana.
«Sai perché l’ha fatto?» aveva chiesto Gianna immaginando una torbida e sfortunata storia d’amore.
Luciana le confidò di aver saputo dal fratello che, ultimamente, Dario si era dato al gioco e doveva parecchi soldi a un usuraio. Probabilmente era quella la causa.
«Non ci posso credere» aveva mormorato, sempre più confusa.
«Nemmeno io. E da ieri che non faccio che pensare a lui, a come eravamo» aveva concluso Luciana.
Fu esattamente quello che fece Gianna, dopo la telefonata. Un salto nel passato, al “come eravamo”: una generazione che sognava di cambiare il mondo ma che, almeno nella realtà della città di provincia in cui viveva, anteponeva l’amore romantico a quello universale di cui si blaterava tanto.
Dario era comparso nella sua cricca di amici un pomeriggio d’estate. Biondo, con i lineamenti marcati al limite della volgarità, si era fatto subito notare per i pantaloni ocra attillati, la camicia nera di pizzo aperta sul petto abbronzato, e le labbra alla Mick Jagger. Non appena pronunciò le prime parole, palesando un’infantile quanto imbarazzante balbuzie, la sua immagine sexy fu notevolmente ridimensionata. Apparentemente lui non se ne curava, e quando qualcuno gli chiedeva come mai tartagliasse tirava in ballo un misterioso trauma infantile, di cui non aveva mai rivelato i particolari. I pettegoli sostenevano che probabilmente aveva iniziato a balbettare dopo la nascita del fratello di cui era geloso. Niente di così misterioso o affascinante, dunque, ma solo una reazione banale di fronte a un problema affettivo che colpiva quasi tutti i bambini. In ogni caso, quell’handicap e la conseguente vulnerabilità che ne derivava faceva presa sulle ragazze quasi quanto la sua sensualità, in parte innata, in parte costruita.
Gianna si infatuò di lui sin dal primo momento e Dario, le cui antenne captavano le vibrazioni femminili ancor prima che si manifestassero, una sera in cui si erano attardati nel giardino sotto casa, la baciò in un modo che la rimescolò tutta. Tuttavia non le chiese di essere la sua ragazza, non in maniera formale, anche se per Gianna quel bacio significava molto più delle parole che lui pronunciava a stento. E si scoprì, come una Penelope senza tela, ad aspettare che lui capitasse in giardino per invitarla a uscire o solo per dedicarle qualche attenzione. Eventualità affatto scontata, dal momento che Dario vagava dall’una all’altra delle sue amiche con la nonchalance di un play boy consumato. Alla fine rimasero solo lei e Luciana, la sua amica-nemica, a contendersi il trofeo.
Gianna non ricordava come fosse iniziata la faida fra loro due, a ben pensarci non c’era stato nemmeno un motivo scatenante se non il fatto che Gianna era una ragazzina acqua e sapone mentre Luciana, con il trucco esagerato come le minigonne, sembrava una groupie in cerca di una band.
Andò a finire che Dario, per non far torto a nessuna, si divise equamente fra entrambe, sostenendo il ruolo di bravo ragazzo con Gianna e di simpatica canaglia con Luciana. Ma Dario baciava così bene che non aveva la forza di dargli un ultimatum o di lasciarlo. Inoltre sperava di riuscire in qualche modo a sconfiggere l’amica nemica che, secondo lei, era tutta apparenza e niente sostanza, con quelle gonne sempre più corte e gli stivaloni a metà coscia.
Solo molto più tardi si rese conto che quei due erano fatti l’una per l’altro, e che la forte carica sensuale di Dario era frutto di un istinto animale, dietro al quale c’era il nulla. Ma a sedici anni i parametri con cui misurava i suoi sentimenti e i suoi ormoni in subbuglio erano ben altri. Sebbene lui la tenesse sulla corda, o forse proprio per questo, Dario occupò i suoi pensieri e il suo cuore in maniera così viscerale che non avrebbe mai più provato emozioni tanto intense, nemmeno con Fabio, il ragazzo di cui s’innamorò a vent’anni e che finì col sposare. Riempiva le pagine del diario dei Peanuts scrivendo il suo nome, componeva ingenui versi alla Prévert che non avrebbe mai fatto leggere a nessuno e, non disponendo di fotografie del suo amato bene, vi incollava tutte le istantanee di Mick Jagger, ritagliandole dalle riviste. Ascoltava Lady Jane dei Rolling Stones sognando che al posto della rock star ci fosse Dario che cantava, con quella voce bassa e sexy, solo per lei. Quando cantava non balbettava e in fondo fra Jane e Gianna non c’era molta differenza.
Nei due anni successivi saltò a quella corda insieme a Luciana con tanti sospiri e qualche lacrima, intercalati dai momenti indimenticabili che lui le dedicava. Perché quando stava con lei, Dario la ripagava di ogni frustrazione e incertezza. Sapeva essere tenero, protettivo e la rispettava, come da un cliché che, dopotutto, non era ancora stato sostituito dalla libertà sessuale.
Così, per conquistarlo e scalzare definitivamente la sua rivale, Gianna decise di giocarsi la sua unica, preziosa carta: quella della verginità. Un pomeriggio che Dario aveva la febbre e in casa sua non c’era nessuno, si accoccolò nel letto accanto a lui. Presto fu travolta dai suoi abbracci febbrili cominciando a tremare e a scottare a sua volta, tanto che le balenò il sospetto che il virus da cui era stato colpito l’avesse contagiata all’istante. In parte era vero, solo che il virus non era quello dell’influenza ma di una malattia chiamata infatuazione o, come credeva Gianna, amore.
Dario cominciò a spogliarla e Gianna lo lasciò fare. Non avrebbe opposto resistenza neanche in seguito se lui, a un certo punto, non fosse stato travolto da un accesso di tosse. Evidentemente il tempo che impiegò a tossire, a bere un po’ d’acqua e a prendere una pasticca, gli servì anche per fare il punto della situazione e decidere di non andare fino in fondo.
Quando finalmente la tosse cessò, Gianna ricominciò da dove si erano interrotti, mettendoci tutta l’innocente sensualità di cui era capace. Ma lui la bloccò osservando: «È meglio di no, sei troppo piccola per queste cose». Quindi ricominciò a baciarla in quel modo tanto dolce quanto eccitante che la mandava in orbita ma poi la lasciava là a vagare, confusa, nello spazio.
Dopo quella volta non furono mai più da soli. E un mese più tardi, a uno dei tanti festini cui partecipava tutta la cricca, Dario non la degnò di uno sguardo per ballare allacciato tutto il tempo con Luciana, spezzandole il cuore. Dal momento che non era votata al vittimismo, si fece da parte abbandonando quel gruppo di amici per altre, più nuove e congeniali compagnie.
Successivamente conobbe Fabio, un ragazzo sicuramente più intelligente e stimolante di Dario. I cui orizzonti non erano ristretti al giardino sotto casa o all’ultima conquista, ma spaziavano in vari campi, coinvolgendola nelle sue curiosità e nel desiderio di esplorare il mondo. Insomma, il tipo giusto con cui crescere. E se talvolta le capitava di sognare Dario, al risveglio scacciava la nostalgia con il sollievo di averla scampata bella!
Col passar del tempo il giardino non era più un luogo di ritrovo, tuttavia in estate le capitava spesso di imbattersi in Dario nello stabilimento balneare della città, dove si recava in pausa pranzo. Per parecchi anni lo aveva visto in compagnia di una graziosa brunetta che sarebbe diventata sua moglie e poi dei figli piccoli, un maschio e una femminuccia. Sembravano una famiglia felice sebbene Dario non riuscisse a mascherare una certa insofferenza nei confronti del ruolo di pater familias.
A quarant’anni aveva ancora lo stesso fisico di quand’era ragazzo, anche se la volgarità, un tempo stemperata dalla giovinezza, si stava manifestando appieno nei tratti del suo volto. Per il resto, era sempre simile a se stesso. Quando si trovava davanti a una donna che gli piaceva, faceva la coda e si metteva ad annusare la preda, nonostante la presenza della moglie.
Quel giorno di luglio, Gianna, distesa sull’asciugamano, stava quasi per addormentarsi quando il sole si era oscurato all’improvviso. Aveva aperto gli occhi e se lo era trovato davanti.
«Come mai tutta sola?» le aveva chiesto lui.
«E tu?» gli aveva girato la domanda, non scorgendo la brunetta né i bambini che ormai dovevano essere grandi.
«Io non sono solo, sono libero. È diverso.»
Gianna si era alzata a sedere chiedendogli di spiegarsi meglio. Dario aveva preso posto accanto a lei e le aveva raccontato che stava per separarsi dalla moglie.
«Mi dispiace» aveva replicato Gianna.
«Non ero tagliato per il matrimonio» aveva puntualizzato lui. Poi l’aveva guardata intensamente negli occhi sussurrandole quanto gli anni fossero stati generosi con lei. Era molto più bella adesso, che da ragazza.
Gianna per un momento aveva avvertito un leggero brivido che l’aveva riportata indietro di vent’anni. Dario, il cui radar era sempre pronto a cogliere la minima occasione, era passato immediatamente all’attacco. Le aveva fatto capire quanto sarebbe stato bello, dopo tanto tempo, concludere quello che avevano iniziato. Ci aveva pensato, qualche volta. Lei no?
Gianna gli aveva fatto presente di essere felicemente sposata e di non avere alcuna intenzione di tradire suo marito.
«Oh» aveva replicato lui, sornione «dicono tutte così».
Era stata la sua arroganza, alla fine, a farla reagire. «Be’, io non sono tutte e gradirei prendere il sole in pace, se non ti dispiace.»
Dario aveva incassato il colpo e, dopo averle accarezzato la guancia con un gesto affettuoso, si era dileguato.
Più o meno in quel periodo, come le aveva preannunciato, si era separato dalla moglie alla quale erano stati affidati i due figli adolescenti, e aveva ripreso a sfarfallare da una ragazza all’altra, tutte più giovani di lui. Naturalmente a informarla era stata Luciana che, ogniqualvolta s’incontravano, la aggiornava sul loro comune perduto amore. «L’età delle sue fidanzate è inversamente proporzionale alla sua, tanto da rasentare il ridicolo» aveva commentato un giorno.
Gianna l’aveva visto in un negozio del centro qualche mese prima del suo suicidio. Le era parso appesantito in volto, come se bevesse o qualcosa di simile, mentre il fisico era sempre asciutto. Indossava una giacca di pelle da rocker su jeans attillati. La bocca era sempre quella di Mick Jagger, ma le rughe ricordavano quelle di Keith Richards. “Due Rolling Stones in uno” aveva pensato salutandolo.
Avevano parlato un po’ del più e del meno, e a un certo punto si era avvicinata una ragazza, che fino a quel momento era stata occupata a guardare i capi d’abbigliamento. Lo aveva preso a braccetto e gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Era troppo affettuosa per esser sua figlia, ma abbastanza giovane per essere la sua compagna. Lui gliel’aveva presentata, infatti, come tale. Non poteva avere più di venti, ventidue anni.
Al funerale, cui infine Gianna aveva partecipato con il supporto di due pillole ansiolitiche, non l’aveva vista. C’erano invece, oltre ai genitori e il fratello, la moglie e figli, i loro vecchi amici e tante persone che non conosceva.
E, naturalmente, Luciana.
Si erano tenute in disparte per tutto il tempo, dopo aver porto le condoglianze ai genitori e un ultimo saluto al manichino composto nella bara. Una visione degna di un film gotico degli anni Ottanta. L’avevano vestito con un completo grigio scuro, abbigliamento che Dario non aveva indossato nemmeno il giorno del suo matrimonio, preferendo una tunica bianca e un paio di pantaloni neri. Glielo aveva rivelato Luciana, che solo allora le aveva raccontato di aver partecipato al suo matrimonio, insieme al fidanzato.
«Non è lui» si era detta Gianna, respingendo la delusione per non essere stata invitata al matrimonio e imponendosi di guardare il cadavere. Aveva cinquantaquattro anni ed era giunto il momento di confrontarsi con la morte. Quell’uomo dal volto cinereo e i tratti duri era il simulacro di Dario e mai come in quell’occasione Gianna si era chiesta il perché di quel rito, di quella esibizione. Pur rendendosi conto che aveva a che fare con tradizioni religiose antiche e profonde, aveva rafforzato la convinzione che fosse una pratica un po’ barbara e senza senso. Non capiva quale conforto potesse offrire l’esposizione della salma ai parenti. Gianna credeva nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte, credeva nell’energia divina e sottile che abbandona il corpo per un’altra dimensione che, sperava, fosse di pace, luce e serenità. Tuttavia la sua razionalità le impediva di credere in Dio, in senso convenzionale. Perciò si considerava una persona alla ricerca della fede e a volte le capitava di invidiare coloro che ne erano stati baciati.
Dario non era stato certo uno di questi. Chissà in quale oscurità si era addentrato per decidere di porre fine alla sua vita, e chissà che cosa gli era passato per la testa negli ultimi istanti. Il suo era stato un atto di coraggio o di vigliaccheria? Conoscendo Dario e il suo amore per la vita era sicuramente il primo. A quel pensiero, le venne da piangere.
“Che spreco!” pensò, uscendo dalla cappella perché aveva un disperato bisogno di respirare una boccata d’aria fresca.
«Tutto bene?» le chiese Luciana raggiungendola.
«Sì, bene» rispose Gianna «stavo pensando al significato di tutto questo, voglio dire, non ti sembra strano che il primo morto che vedo nella mia vita sia Dario?».
Luciana, che non era mai stato un tipo particolarmente sensibile o mistico, la guardò come se fosse fuori di testa. Scosse la testa e replicò: «Sta per iniziare la funzione».
In chiesa, mentre temeva di svenire a causa delle esalazioni dell’incenso, Gianna si soffermò a lungo su quel quesito. Era forse un segno del destino? Se era così non riusciva a coglierlo. La solenne funzione che seguì le fece però capire che ci sono momenti in cui bisogna lasciar andare i pensieri razionali e abbandonarsi, cuore e mente, al mistero.
Quello era uno di quei momenti.
Si unì alle preghiere, si lasciò trasportare dall’atmosfera, trovandovi, tutto sommato, un certo conforto.
Più tardi, seguendo il feretro insieme a Luciana, si rese conto che stava dicendo definitivamente addio alla sua giovinezza. Un periodo che si era protratto per molto tempo rispetto alla sua età biologica.
Nei giorni successivi tornò alla vita di sempre: il lavoro, la famiglia, i mille impegni, ma si sentiva diversa, come se le mancasse qualcosa. Poiché non sapeva come interpretare quel sentimento, si figurò di avere una menomazione fisica come la mancanza del dito mignolo del piede. Niente di tanto grave o invalidante, solo una seccatura, una fitta che di tanto in tanto le ricordava la brevità della vita e la fine dei sogni. Ma col passare dei giorni e il ritorno alla routine cominciò a dimenticarsi di Dario e della morte.
Finché una mattina… Era appena entrata in ufficio, quando squillò il telefono. Sollevò la cornetta, più seccata che incuriosita. Detestava quelli che chiamavano di prima mattina, all’alba, come usava dire lei.
«Gianna…»
La voce, maschile e familiare si spense dopo aver pronunciato il suo nome.
«Massimo?» replicò incerta.
Massimo iniziò a parlare e a piangere contemporaneamente emettendo suoni confusi. Tuttavia Gianna capì, capì una cosa che non avrebbe mai pensato potesse succedere. Si accasciò sulla sedia dell’ufficio con la cornetta in mano, mentre il sangue le defluiva dalla testa e tutto girava intorno a lei. Adesso non vedeva più niente, solo buio pesto, da cui si augurò di non emergere mai più.
Ma vi emerse. Con la sensazione che qualcuno le avesse strappato il cuore e lo stesse ancora masticando prima di sputarlo.
Afferrò la borsa, lasciò detto a Marina, la collega che la guardava sbalordita, che doveva andare e si precipitò in ospedale sperando di aver capito male, sperando che…
Quando vide Massimo accasciato su una poltroncina della sala d’attesa del pronto soccorso e Fausta, la madre di Giuliana che piangeva disperata accanto a lui, capì che non c’era più speranza.
Giuliana, la sua migliore amica, il suo alter ego, la parte migliore di sé, se n’era andata per sempre. Da allora e nei giorni a venire, Gianna non avrebbe mai associato Giuliana alla morte ma a una partenza pronunciando sempre, quando parlava di lei, le parole: «Se n’è andata».
Attonita e senza lacrime, abbracciò Massimo poi Fausta, e sedette accanto a loro, aspettando che ricomponessero la salma della sua amica, prima di far entrare i suoi famigliari.
Su quella panca visse momenti di vuoto assoluto, estraniandosi dal presente e dalle persone che erano là con lei. Finché il pensiero di suo marito non affiorò dalle tenebre che l’avvolgevano, e trovò la forza per chiamarlo. Fabio arrivò subito, l’abbracciò in silenzio e Gianna sentì, percepì la sua forza e la sua solidità, un punto fermo in un mondo che le stava franando sotto i piedi.
«Ma com’è successo?» le chiese.
Gianna lo guardò confusa, con gli occhi pieni di lacrime che non si decidevano a scendere.
Massimo, dopo aver abbracciato Fabio, sembrò rianimarsi: «Stamattina non riuscivo a svegliarla, ho pensato che avesse preso un sonnifero, ultimamente soffriva d’insonnia. L’ho scrollata, ma lei non mi rispondeva e… i medici mi hanno detto che probabilmente era già in coma». Finì la frase a spizzichi e bocconi, riuscendo comunque a fornire un quadro abbastanza completo di quello che era accaduto. Secondo una prima, frettolosa diagnosi, poteva aver avuto un ictus, vista la parte destra completamente paralizzata e la bocca atteggiata a una smorfia.
«Non soffriva di ipertensione né di altre malattie a rischio» mormorò Gianna. E continuò a ripeterselo, quando si trovò di fronte a quello che restava della sua migliore amica con un crescente senso di colpa. Dovuto semplicemente al fatto che lei, nonostante lo strazio, era viva.
Era entrata insieme a Fabio, le gambe in gelatina e un tremito in tutto il corpo. Suo marito le teneva la mano in una stretta calda e confortante e pian piano i battiti del suo cuore si erano placati e le gambe avevano smesso di tremare. A un certo punto, però, lui, che nei confronti della morte aveva un atteggiamento ancora più refrattario del suo, si era dileguato lasciandola sola.
«Come hai potuto farmi questo?» sussurrò Gianna, che in quel momento percepiva la presenza di Giuliana nella stanza. Una presenza che non c’entrava niente con quel corpo rigido avvolto da un lenzuolo né con quella smorfia beffeggiante.
«Be’, me l’hai fatta davvero grossa, stavolta» disse, rendendosi conto che Massimo e Fausta erano usciti per lasciarle sole. Come quando si trovavano a casa dell’una o dell’altra e chiunque entrasse nella stanza era considerato un intruso.
La sensazione che Giuliana potesse sentirla si rafforzò e così continuò: «Sei sempre stata troppo sensibile, troppo vulnerabile per passare indenne attraverso le ferite della vita, che hanno inciso solchi profondi nella tua anima. Credevo che avessi superato il grande dolore che ti aveva colpito, invece non era così».
Amiche dai tempi del liceo, avevano asserito spesso che la loro amicizia le aveva salvate dal lettino dello psicoanalista. Si erano sempre raccontate tutto, dai pensieri più intimi, ai loro sogni. Quando Giuliana aveva perso il figlio che aspettava, al sesto mese di gravidanza, Gianna le era rimasta accanto cercando di consolarla in ogni modo, di alleviare il terribile dolore di non poter più diventare madre. Consigliandole di adottare un bambino. Ma Massimo non ne voleva sapere e poi le adozioni erano percorsi estremamente difficili e frustranti. Lei che era votata a fare la madre, era stata condannata a non poterlo diventare. Ma col tempo sembrava aver fatto pace col destino. Si era rimessa in piedi, ma evidentemente qualcosa dentro di lei si era spezzato, lasciando che il grumo di dolore vagasse nel suo corpo come una bomba ad orologeria, finché non era esploso.
Gianna si chiese se avesse fatto tutto quello che poteva per la sua amica e si rispose di sì. L’aveva amata con tutto il cuore, l’aveva fatta ridere quando era triste, e le aveva offerto un surrogato di quel bambino che tanto desiderava, nominandola zia di nome e di fatto di Camilla, la sua unica figlia.
Giuliana e Dario si conoscevano appena, appartenevano a due universi paralleli nei quali Gianna aveva camminato in fasi alterne della sua adolescenza. Due mondi che, pur non entrando in collisione, erano implosi a poca distanza l’uno dall’altro, mettendo la parola fine alla sua giovinezza e lasciandole un grande vuoto dentro.
La voce di Fabio irruppe nei suoi ricordi mentre, dopo aver terminato la fase del trucco, si stava infilando il vestito.
«Manca mezz’ora all’inizio della cerimonia» le ricordò.
«Sono pronta» replicò Gianna. Era preparata ad affrontare la seconda parte della sua vita, un periodo di transizione che l’avrebbe traghettata verso la terza età, a patto che ci arrivasse.
Con la scomparsa di Giuliana, l’incertezza del domani di cui prima aveva solo un vago sentore, era divenuta una costante dei suoi pensieri. Dopo il funerale dell’amica, dove le era stato almeno risparmiato l’omaggio alla salma poiché Massimo aveva deciso di far chiudere la bara, era stata assalita da un pensiero ossessivo: ‘Non c’è due senza tre’. Che cosa aveva lei più di Dario e Giuliana per garantirsi il privilegio di continuare a vivere? Certo, Dario era stato l’artefice della propria fine, mentre Giuliana non aveva avuto scelta. Tuttavia Gianna non era sicura che fosse davvero così. Entrambi, seppure in maniera diversa, erano stati colpiti dalla stessa, grave patologia: la morte dell’anima.
Maledetta la sua smania di cercare una spiegazione per ogni cosa, che la portava ad addentrarsi in un labirinto tanto vasto quanto oscuro, e per certi versi molto angosciante. Vale a dire che ognuno di noi è responsabile della propria vita e della propria morte. In ogni caso di una cosa era certa: lei voleva disperatamente vivere. Amava tutto della vita, tutto, tranne la vecchiaia e la morte.
Tuttavia l’ipotesi che ora potesse toccare a lei, le creava una tale tensione che iniziò a prepararsi spiritualmente alla visita della vecchia e abominevole Signora con conseguenze piuttosto serie sul suo equilibrio. Non mangiava, non dormiva, era tesa come una molla e trattava male tutti, Fabio in testa.
E quando nei suoi deliri subentrò l’idea intollerabile che suo marito sarebbe potuto morire prima di lei, si rese conto che la vecchiaia era una tragedia minore rispetto alla morte e si risolse a invocarla. Tuttavia, se avesse potuto scegliere avrebbe preferito andarsene prima di lui, e si immaginò se stessa sul letto di morte con Fabio accanto, che le teneva la mano.
Il caso o il destino misero fine al suo tormento in una ventosa mattina di marzo.
Anche stavolta la notizia le fu data per telefono, una coincidenza che risolse attribuendola semplicemente alla tecnologia.
«Gianna, tesoro, mi dispiace darti questa notizia. Zio Ottavio è morto» le comunicò Linda, la sorella di sua madre.
«Quando, come? E la mamma lo sa?» sbottò d’un fiato per non tradire il senso di sollievo che l’aveva pervasa.
Zia Linda le riferì che aveva preferito comunicarlo prima a lei. Quindi le raccontò che quella mattina era andata dal fratello per portargli il pane fresco e i giornali, come d’abitudine. Aveva suonato, ma lui non le aveva aperto. Allora era entrata con la sua chiave pensando che stesse dormendo. L’aveva sentito la sera prima e stava benissimo.
«Era a letto, sembrava che dormisse, ma non dormiva» proseguì con la voce spezzata. «In ogni caso se n’è andato dolcemente, nel sonno.»
Zio Ottavio, il più anziano dei fratelli di sua madre, aveva ottantasei anni, aveva vissuto una vita piena e ricca ed era morto in un modo che chiunque, nel pieno delle proprie facoltà mentali, avrebbe sottoscritto.
Ma la cosa più importante e che, non fosse stato per il dispiacere, le avrebbe fatto fare un salto di gioia, era che la sua morte, essendo la terza della serie, chiudeva quella catena perversa.
«Come mai così pensierosa?» le chiese Fabio.
Erano in macchina, e mancava poco all’arrivo nei pressi della chiesa, dove si sarebbe svolta la cerimonia.
Gianna strinse la mano di suo marito replicando: «Non sono pensierosa, sono felice».
«Neanche si sposasse Camilla» scherzò lui.
«Oh, lei se ne guarda bene» replicò. E non poté fare a meno di considerare la bizzarria della situazione. Sua figlia aveva ventisette anni e sposarsi era l’ultimo dei suoi pensieri. Come tutti i giovani di oggi aveva altri progetti, altre priorità. La carriera, innanzitutto, che nel caso di Camilla non era tesa a raggiungere una posizione di spicco o di potere, ma a fare il lavoro che amava: la costumista. Aveva frequentato il DAMS diplomandosi col massimo dei voti, e adesso stava per andare a Roma, dove avrebbe mosso i primi passi nell’ambiente del cinema e della televisione.
Come la vide, che gesticolava sullo spiazzo erboso antistante la chiesa, le tornarono alla memoria le parole di Giuliana: «Camilla è la creatura più svanita sulla faccia della terra. Ma anche la più vera». Sì, sua figlia era donna autentica, generosa, sincera, senza peli sulla lingua. Gianna si augurò che nell’ambiente artistico quelle qualità non si trasformassero in difetti.
Si volevano un gran bene, Camilla e Giuliana. Forse perché si riconoscevano nello stesso amore per la verità, a costo di essere brutali. Mentre lei, Gianna, era più diplomatica, meno drastica, e cercava sempre di osservare le situazioni da più punti di vista. Gianna non avrebbe mai potuto dimenticare il pianto disperato e straziante di Camilla, quando le aveva dato la terribile notizia. Si erano abbracciate tenendosi strette per formare uno scudo contro quel dolore insopportabile che le aveva fatte sentire unite come mai prima di allora.
Notò subito che l’orlo del vestito di sua figlia era scucito, mentre un filo le penzolava sulla gamba. Il fatto che fosse un’appassionata di abiti e costumi non la salvaguardava dalla sciatteria. Anzi, Camilla si curava poco o niente del suo abbigliamento, un po’ come i medici che trascurano la propria salute.
Si baciarono e abbracciarono poi, con tatto, Gianna le consigliò di porre rimedio all’incidente.
Camilla entrò nella sua macchina, un’utilitaria talmente vetusta da essere considerata d’epoca, dove teneva gli attrezzi del mestiere, e si mise all’opera. Gianna seguì con lo sguardo le mani abili di sua figlia che si muovevano agili intorno alla stoffa della gonna e si chiese da chi mai avesse preso quella manualità. Lei sapeva, a malapena, attaccare un bottone.
Sollevò gli occhi giusto in tempo per veder arrivare un’auto bianca che, a differenza di quella di sua figlia, aveva tutti i numeri per essere considerata d’epoca. La macchina si fermò davanti al sagrato e, dopo un po’, scese la sposa.
Gianna trattenne il fiato: era bellissima! Aveva un portamento regale e la luce che irradiava non c’entrava nulla coi suoi capelli biondo platino, le cui ciocche spuntavano dal cappello chiaro, a tesa larga. Pure il vestito, considerò Gianna, era perfetto ma solo perché a indossarlo era una donna di settant’anni che osava sfidare la terza età sposandosi per la prima volta nella sua vita in un abito marrone a pois beige. L’abito, al ginocchio, era corredato da una fusciacca beige e da una rosa di seta dello stesso colore, appuntata al petto. La sposa calzava un paio di scarpe di raso dal tacco altissimo in tinta e teneva in mano un bouquet di roselline gialle con nastri dello stesso colore.
L’uomo che le porse il braccio per accompagnarla all’altare era un ottantenne dai tratti familiari, ancora in forma sebbene un po’ curvo.
Zia Linda sorrise e vi si aggrappò.
Nel vedere suo padre avanzare verso la chiesa insieme a lei, e sua madre che li seguiva a debita distanza precedendo il corteo dei parenti, gli occhi di Gianna si inumidirono di commozione.
Più tardi, quando tutto era compiuto, innaffiato di lacrime, gioia e sorrisi, gli ospiti si trasferirono in un raffinato hotel per il pranzo, che si sarebbe protratto fino a sera e forse fino alle ore piccole.
C’era anche un’orchestra, nella miglior tradizione. Perché zia Linda e Carlo, suo marito, amavano ballare. Infatti, si erano conosciuti e innamorati a un corso di ballo.
La festa fu davvero una di quelle che si sarebbero ricordate a lungo, in famiglia. Innanzitutto per l’età degli sposi, settanta lei e sessanta lui, fatto che aveva suscitato un certo scalpore. E poi per la clamorosa capitolazione di zia Linda, che durante tutta la sua vita aveva giurato e spergiurato che non si sarebbe mai sposata.
«Il matrimonio è una pratica contro natura» soleva dire, lasciandosi andare alla sua tipica risata argentina, e un giorno le aveva specificato: «In passato era diverso. Fra le guerre, le morti per parto e le varie malattie era destinato a durare poco. Inoltre la società di allora non concedeva alternative. Se non eri sposata eri una zitella, buona solo a fare da balia ai nipoti o ai vecchi. Ringrazio il cielo di essere nata in un’epoca in cui non si bada più a certe formalità» aveva continuato, imperterrita.
Gianna era molto affezionata a quella zia un po’ eccentrica che, sin da piccola, l’aveva instradata nell’affascinante mondo dei vestiti, del trucco e dei mille artifici femminili. Casa sua era un luogo misterioso e affascinante, dove ogni oggetto proveniva da un posto esotico e da ogni stanza si sprigionavano conturbanti profumi.
Linda era una donna libera e assolutamente indipendente, che aveva sempre lavorato, viaggiato e amato molto. Somigliava molto a zio Ottavio, con la differenza che lui aveva messo su una bella e numerosa famiglia. Ma per un uomo era più facile, sosteneva sempre zia Linda. «Dietro a un uomo c’è sempre una donna, ma dietro a una donna difficilmente troverai un uomo» era una delle sue massime. Perciò quando le aveva annunciato la sua intenzione di sposarsi, per Gianna era stato il crollo di un mito.
Nel vederla, adesso, volteggiare leggera fra le braccia di Carlo, si ricordò di quel pomeriggio, a casa sua, un mese prima, davanti a una tazza di caffè, quando zia Linda si era aperta con lei come mai prima. «Mi sono innamorata, ecco tutto. Sarà che con l’età si diventa più fragili e bisognosi di un affetto stabile, sarà che prima e nonostante tutti i miei amanti, non lo sono mai stata, ma sento il bisogno di avere un uomo accanto. Carlo e io non avremo il tempo di una normale coppia di scivolare nell’abitudine, nell’indifferenza o, peggio, di scoprire che ci detestiamo.»
«Non sempre è una questione di tempo» aveva osservato Gianna «ci sono coppie che cominciano a detestarsi dopo il viaggio di nozze».
«Lo so, lo so, ma vedi, credo di essere abbastanza saggia da non temere questa ipotesi, e in ogni caso non avrò rimpianti.»
Poi, come se le stesse rivelando un gran segreto aveva sussurrato: «Carlo è più giovane di me e spero proprio che quando verrà il mio giorno, mi rimanga accanto fino all’ultimo.»
E brava zia Linda, considerò Gianna guardandola ballare, ad aver risolto il problema senza tanti maceramenti.
A zia Linda e Carlo, che avevano dato il via alle danze si erano uniti sua madre e suo padre, ottantatre anni lui, settantotto lei, in movimenti aggraziati, quasi simbiotici. Dopo quasi sessant’anni di matrimonio, e nonostante litigi e malumori erano un’entità solida ed esemplare.
Via via tutti gli invitati si riversarono sulla pista da ballo, gli occhi accesi per le libagioni appena consumate, ma anche per la gioia di celebrare quella festa. Ballavano spensierati, come se non ci fosse un domani, come se, nonostante l’età e gli acciacchi, avessero ancora tutta la vita davanti.
Data la peculiarità di quel matrimonio, l’età media dei ballerini si aggirava sui settant’anni e gli unici giovani, fra cui Camilla e un giovanotto, spuntato da chissà dove, sembravano fuori posto.
«Mi concedi questo ballo?» la invitò Fabio porgendole la mano.
Gianna si alzò e seguì suo marito sulla pista.
Volteggiando leggera fra le sue braccia non poté fare a meno di riflettere sul paradosso della vita e della morte. Sul fatto che persone come Giuliana e Dario, che avrebbero avuto ancora tanti anni davanti a sé, se ne fossero andati all’improvviso. Sui giovani come sua figlia per cui il matrimonio era l’ultimo dei pensieri, e su una settantenne ancora in piena forma che si era innamorata come una ragazzina. In altre parole: i giovani che si facevano da parte e i vecchi che se la godevano.
E lei? A quale di queste categoria apparteneva?
L’orchestra intonò un valzer e i ballerini cominciarono a muoversi in sincronia girando tutti dalla stessa parte.
Gianna, tra le braccia sicure di Fabio, seguì la corrente, i piedi leggeri, la testa che le girava e la musica dentro, pensando che dopotutto non aveva importanza.
Per quanto la riguardava avrebbe danzato e danzato, sulle note di quel valzer, come se non ci fosse domani.
Laura Schiavini è nata a Trieste, dove vive e lavora. Ha pubblicato la monografia All I want is U2 (Campanotto Editore) ed è autrice di diversi racconti. Tra i suoi romanzi: La Fortuna è un talento (Robin Edizioni, 2007), A qualcuno piace dolce (Newton Compton, 2014), Tutta colpa dello yoga (Newton Compton, 2015), Dove batte il cuore (goWare, 2018).