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Quel Referendum propositivo mina la democrazia rappresentativa

La riforma costituzione voluta dai Cinque Stelle in nome della cosiddetta democrazia diretta e in discussione alla Camera prevede che le proposte di legge presentate da almeno 500 mila elettori debbano essere non discusse ma approvate dal Parlamento: in caso contrario si va al referendum – Un meccanismo che rischia di contrapporre costantemente Parlamento e popolo: sarebbe ora che i costituzionalisti facessero sentire la loro voce

Quel Referendum propositivo mina la democrazia rappresentativa

Mentre giornali, televisioni e social network si occupano rumorosamente di immigrazione, TAV e reddito di cittadinanza, silenziosamente procede il cammino di alcune riforme costituzionali che potranno modificare sostanzialmente e profondamente il funzionamento delle nostre istituzioni e della nostra democrazia.  

Un po’ sotto traccia, ma con una certa speditezza, si sta così lavorando in Parlamento al disegno di legge di revisione costituzionale che esplicitamente persegue quel modello di “democrazia diretta” cui il Movimento 5 stelle, all’atto della costituzione del Governo, ha addirittura chiesto (e ottenuto!) di denominare il Ministero delle riforme istituzionali. Per il Movimento questo, quindi, è il modello istituzionale cui tendere (come ampiamente predicato, d’altra parte, dai Casaleggio padre e figlio). Democrazia diretta, si badi bene; non democrazia partecipata, modello quest’ultimo cui alludono gli attuali articoli 71 e 72 della Costituzione riguardanti, rispettivamente, le proposte di legge di iniziativa popolare  e il referendum abrogativo. E’ certamente vero che mentre l’istituto del referendum abrogativo è stato ampiamente utilizzato ed è divenuto, in vari periodi della storia repubblicana, lo strumento per grandi battaglie civili e politiche, l’iniziativa legislativa popolare è stata pressocchè ignorata. Tutt’e due questi istituti richiederebbero di certo un intervento di manutenzione straordinaria che ridesse loro vitalità ed  efficacia: una revisione del quorum per il referendum abrogativo che, con il regime attuale, ha spesso vanificato la partecipazione di milioni di cittadini alla consultazione referendaria, e un obbligo stringente del Parlamento a esprimersi e deliberare sui temi sollevati dall’iniziativa popolare. 

Tutt’altra cosa però è la riforma, già approvata dalla Commissione Affari costituzionali della Camera – e che sarà presto varata anche dall’Aula – con cui si modifica l’articolo 71 della Costituzione con lo scopo (A.C.1173 A) di introdurre il referendum propositivo. Il Testo originario è leggermente migliorato grazie al lavoro della Commissione Affari costituzionali che, paradossalmente, proprio in questa occasione, ha confermato quanto sia importante quel lavoro di approfondimento, di confronto , di correzione, di valutazione d’impatto che è tipico del lavoro parlamentare. In base al nuovo meccanismo tutte le proposte di legge presentate da almeno 500.000 elettori devono essere approvate dal Parlamento. Si badi bene: il Parlamento ha l’obbligo non di discuterle, ma di approvarle. Dunque, per ipotesi, il Parlamento che ha dato vita ad una maggioranza di centrodestra sarebbe obbligato ad approvare una proposta tipicamente ispirata a valori e obiettivi di un altro schieramento politico.

Se il Parlamento non approva, allora viene indetto referendum; se poi il Parlamento approvasse il testo di iniziativa popolare introducendo delle modifiche, allora il referendum riguarderebbe i due testi, quello promosso dai cittadini e quello parlamentare. Un meccanismo assolutamente destabilizzante: non solo, come molti costituzionalisti hanno sottolineato, si realizzerebbe una continua contrapposizione tra Parlamento e popolo sia sulle scelte di fondo insite nei singoli progetti di legge che sull’eventuale lavoro di aggiustamento, razionalizzazione svolto dal Parlamento sul testo di iniziativa popolare, lavoro che verrebbe immediatamente e irrevocabilmente tacciato di tecnocratica manomissione della volontà popolare.  Attraverso la propaganda dei social, inoltre, verrebbe enfatizzato un modo semplificato e superficiale, demagogico e populista di discutere sui singoli temi, un modo che inevitabilmente trascinerebbe anche il Parlamento timoroso di perdere il contatto con il popolo e la propria legittimazione. 

Sul piano politico l’effetto sarebbe quello di una costante continua fibrillazione e precarizzazione del Parlamento, messo continuamente a confronto con il popolo e con la verifica della propria sintonia con il sentire popolare. Con il rischio di dover forse constatare che la maggioranza politica che governa il Paese non è maggioranza nel popolo. Ovviamente nessun Parlamento potrebbe realisticamente legiferare con una prospettiva che non sia quella immediata dell’oggi e optare per scelte serie, fatte nell’interesse del Paese se viste nel medio periodo ma impopolari nell’immediato. In tal modo uno dei grandi problemi del nostro sistema politico e istituzionale, insito nell’instabilità dei governi, delle maggioranze e dell’indirizzo politico, diventerebbe una patologia alla lunga insostenibile.  

E’ vero che nel corso dell’esame in Commissione sono migliorati alcuni aspetti riguardanti, in particolare, il quorum per l’approvazione del referendum propositivo (che è ora stabilito in un quarto degli aventi diritto al voto) e nell’affidamento alla Corte costituzionale del compito di una verifica (preventiva) dell’ammissibiltà delle proposte di legge popolari, verifica da effettuare, peraltro, rispetto a criteri – indicati dalla legge stessa – quanto mai labili. Ma in questo modo, poiché quel testo per il Parlamento sarà immodificabile, prendere o lasciare, si determinerà una sorta di corresponsabilità politico-legislativa della Corte costituzionale che avrà concorso ad autorizzare preventivamente l’approvazione di norme discutibili.

Non vi è dubbio che la qualità della legislazione, già ora assai scadente, avrebbe un ulteriore crollo. Senza parlare dei profili finanziari e di copertura che dovrebbero essere indicati dai proponenti, i quali molto difficilmente saranno in grado di quantificare i costi diretti e indiretti di un provvedimento legislativo e di rintracciare in bilancio i mezzi di copertura finanziaria. Operazioni che richiedono un livello di conoscenza dei bilanci pubblici e di tecnicalità alquanto sofisticate e che, proprio per questo, vengono definite nel corso del procedimento legislativo attraverso il rapporto e il confronto tra Governo e Parlamento che si avvalgono di apparati e di strutture di supporto di alta professionalità.     

Sinora solo un ristretto numero di costituzionalisti ha contrastato con argomentazioni chiare e nette una proposta che, apparentemente, sembra ampliare gli spazi democratici allargando gli strumenti di partecipazione popolare all’attività delle istituzioni e aumentandone l’incisività. Strumenti assai subdoli però, perchè, dietro questa apparenza, celano la loro vera natura: quella cioè di essere un grimaldello, una leva per far saltare i delicati meccanismi della democrazia rappresentativa e della forma parlamentare di governo già resi fragili e messi a dura prova dalla incapacità delle classi dirigenti, negli ultimi vent’anni, di introdurre riforme che, rendendo più efficienti le istituzioni ne rafforzassero anche la legittimazione popolare. La questione è grave e seria perché fino ad oggi non mi risulta che, esistano, nel mondo occidentale sistemi democratici governati se non attraverso forme di democrazia rappresentativa. Se poi il modello a cui si ispira il governo del cambiamento è quello sudamericano così amato da Di Battista allora è un’altra storia.  

Non si tratta quindi di una piccola riforma ma di una modifica che, se approvata, avrà un impatto forte sull’intero sistema costituzionale. E’ bene quindi discuterne perché aumenti negli italiani questa consapevolezza.

°° L’autrice è stata Ministro degli Affari regionali nel secondo Governo Prodi e vicepresidente del Senato

 

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