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Professioni, l’abolizione degli Ordini è un diversivo, il nodo della riforma sono le esclusive

Il dietrofront del Governo sull’abolizione degli Ordini fa cadere il velo sulla riforma delle professioni: il cuore della riforma da fare non è lì ma nelle esclusive, nel numero chiuso, nelle norme protetttive delle tariffe minime, nel modo di svolgimento dell’attività. L’Antitrust lo segnala al Parlamento dal 1995: bastava dare ascolto

Professioni, l’abolizione degli Ordini è un diversivo, il nodo della riforma sono le esclusive

Ma davvero il problema della concorrenza in Italia passa attraverso l’abolizione degli Ordini professionali, e la liberalizzazione all’accesso alla professione di avvocato prevista nell’art. 39 bis della manovra? E come si concilia questa previsione con le dichiarazioni di chi si lamenta che in Italia ci sono più 200 mila avvocati e in Francia circa un quinto, e che questa sovrabbondanza di professionisti è una delle cause delle disfunzioni della nostra giustizia civile?
Certo, gli avvocati italiani sono come il debito pubblico: troppi. E come il debito pubblico frutto di abusi che hanno caratterizzato per decenni le procedure di accesso. Così che in certe zone d’Italia, in cui si erano sviluppate fiorenti attività di turismo concorsuale, superavano il concorso il 99 per cento dei candidati. Ma è difficile dire che questa inflazione abbia ristretto la concorrenza. Anche perchè dopo le riforme Bersani e le auto-riforme dell’Avvocatura, molte cose stanno cambiando. Già solo lo scambio tra sedi nella valutazione degli elaborati di concorso ha drasticamente ridotto le percentuali di accesso. Mentre, stabilita la derogabilità delle tariffe minime, lo spirito imprenditoriale di alcuni professionisti si è rivelato nelle “botteghe” di avvocati di strada che stanno riducendo i costi e facilitando l’accesso alla consulenza. Esistono resistenze, ma per quello c’è l’Antitrust. Sempre che la riforma in discussione in Parlamento non riporti il mondo indietro di quarant’anni.
Invece, siamo sicuri che l’accanirsi con gli avvocati, forti di un folto stuolo di parlamentari, non sia un modo per confondere le acque e evitare così di affrontare i veri nodi del mondo delle professioni? Che sono le esclusive, il numero chiuso e i limiti alle modalità di svolgimento dell’attività, in particolare le norme protettive sulle tariffe minime, sul divieto di pubblicità e i limiti alle società di professionisti.

Le esclusive: sono giustificate quando rispondono ad un interesse pubblico a che una certa attività sia svolta solo da chi ha una preparazione specifica. Il che vale certamente per l’assistenza medica e per la difesa in giudizio, ma non appare così evidente in tanti altri casi, che vanno dalla consulenza legale al trasferimento di beni immobili o registrati (o di azioni e quote di società) in cui la prestazione potrebbe ben essere fornita almeno da diversi competenti professionisti.
Anche là dove una esclusiva può essere giustificata, come nel caso del farmacista unico abilitato a vendere farmaci, i modi del suo esercizio sono spesso ingiustificati. Ad esempio la legge prevede che le farmacie possano essere gestite solo da singoli farmacisti: questa previsione “una farmacia un farmacista” impedisce quindi aggregazioni di farmacie che potrebbero sfruttare economie di scala o integrazioni verticali con società di distribuzione, consentendo di ridurre il margine di intermediazione sui farmaci, fissato anch’esso dalle norme.
L’effetto anticoncorrenziale della esclusiva è amplificato dal numero chiuso e assai ristretto che caratterizza alcune professioni: anche in presenza delle esclusive esistenti, se chiunque avesse superato un pur difficilissimo esame da notaio potesse esercitare la professione, sarebbe difficile mantenere le tariffe professionali ai livelli attuali. Ma la limitazione del numero dei notai a meno di 6000 (tra l’altro mai interamente coperti) spesso con esclusive territoriali di fatto garantisce la assoluta rigidità del mercato per i servizi notarili.

Infine, le modalità per lo svolgimento delle professioni. Naturalmente le tariffe professionali: che dovrebbero rappresentare al più un punto di riferimento per l’utente, ed essere quindi massime e derogabili, e che invece sono usate come strumento di disciplina concorrenziale, sotto il mantello del decoro professionale. Poi, il divieto di pubblicità, che si estende spesso ad ogni forma di comunicazione. E i limiti alla prestazione in forma associata e societaria, che impediscono di strutturare la prestazione di servizi in maniera efficiente. Allora, il tratto di penna su Ordini e limiti all’accesso dell’art. 39 bis rischia solo di essere un diversivo. Galvanizza l’elettorato su un obiettivo irraggiungibile e comunque non desiderabile: non giova all’utente poter scegliere tra cosiddetti professionisti della cui competenza non si ha alcuna garanzia. Si rischia di ripetere altrove l’esperienza inflazionistica dell’avvocatura. Invece la strada è di eliminare le esclusive e le disposizioni restrittive previste dai differenti statuti delle professioni. Non è neanche un compito difficile. Dal 1995 l’Autorità Antitrust ha inviato decine di segnalazioni sul tema: si tratta solo di leggerle con mente sgombra.

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