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Previdenza: troppi vecchi, pochi giovani, niente soldi? Ecco come risolvere il rebus

Le proposte in discussione sulle pensioni non danno nessun vantaggio ai giovani che percepiscono un reddito di mille euro al mese – Bisogna invece pensare a un assegno, pari a quello sociale e finanziato dalla fiscalità generale, che integri a suo tempo le magre pensioni che i giovani di oggi avranno quando saranno anziani – Ecco i costi e benefici della proposta

Previdenza: troppi vecchi, pochi giovani, niente soldi? Ecco come risolvere il rebus

Il tema delle pensioni è diventato ormai un tormentone quotidiano. Il “grido di dolore” più lancinante riguarda il trattamento riservato ai giovani, i quali, dopo una vita lavorativa caratterizzata da periodi di discontinuità e precarietà, riceveranno, in tarda età, un assegno inadeguato rispetto alle più elementari esigenze di vita.  Al di là delle pretese divinatorie di quell’operazione mediatica che è la “busta arancione” (predire ad un giovane quale sarà la sua pensione quarantenni dopo – e quindi la vita che lo attende in questo arco di tempo – equivale a leggere nella sfera di cristallo) studiosi più seri (si veda il saggio di Angelo Marano sul n.3/2015 della rivista Politiche sociali de Il Mulino) fanno notare che, nel sistema contributivo, quanti dispongono di un reddito di mille euro al mese (pari alla metà di quello medio), malgrado un’aliquota contributiva del 33% avranno bisogno di almeno 20-25 anni di versamenti per percepire, da pensionati, una prestazione pari all’importo dell’assegno sociale.

Il che significa, in pratica, che il primi 20-25 anni di contribuzione non daranno alcun reale vantaggio in termini di prestazioni pensionistiche attese. Questi soggetti, dunque, resteranno in pratica confinati all’interno del perimetro dell’assistenza. Nei confronti delle giovani generazioni, tuttavia, si spargono soltanto calde ‘’lacrime di coccodrillo’’, perché tutte le proposte che infiammano il dibattito (dalla salvaguardia per i c.d. esodati, alla flessibilità del pensionamento, passando per l’opzione-donna) si rivolgono indistintamente alle persone anziane che, per una qualche ragione più o meno valida, vorrebbero varcare in anticipo la soglia della quiescenza.

A queste soluzioni sono dedicate risorse importanti: circa 12 miliardi a regime per 170mila ‘’esodati’’, mentre per finanziare l’opzione-donna che potrebbe essere utilizzata, in un biennio, da circa 30mila lavoratrici dipendenti ed autonome,  è stato manomesso, per il medesimo periodo, il sistema di rivalutazione automatico degli assegni di tutti i pensionati (16,3 milioni). Quanto alla flessibilità in uscita occorre mettere in conto una maggiore spesa annua tra 5 e 7 miliardi a seconda dei requisiti e dei parametri  individuati. L’Italia, poi, è il Paese che, in Europa, ha il minor tasso di occupati nelle coorti comprese tra 55 e 64 anni, mentre è quello che spende di più per i pensionati in quella medesima fascia d’età. Se si osservano, poi, i dati sull’età effettiva del pensionamento si scopre che i trattamenti anticipati/di anzianità sono in numero largamente maggiore di quelli di vecchiaia e vengono percepiti ad un’età effettiva media intorno ai 60 anni.

Le statistiche dell’Osservatorio sulle pensioni dell’Inps – a volerle leggere con cura – smentiscono sonoramente un’altra rappresentazione della realtà ormai divenuta una sorta di luogo comune che nessuno osa mettere più in discussione: quella secondo cui, dopo la riforma Fornero, i lavoratori e le lavoratrici non riescono più a varcare l’agognata soglia della quiescenza se non da vecchi macilenti e sfiniti. I dati sull’età effettiva di pensionamento, nel 2015, rendono, invece, testimonianza di quanta barbarie e di quale demagogia sia avvelenato il dibattito previdenziale. Basti solo ricordare che, lo scorso anno, considerando tutti i regimi censiti (dipendenti privati e lavoratori autonomi) il numero delle pensioni di vecchiaia anticipata/anzianità (grazie anche alle generose deroghe riconosciute ai beneficiari delle salvaguardie pro esodati) sono state in numero maggiore (157mila) di quelle di vecchiaia (124mila). Nel caso del lavoro dipendente c’è stata addirittura la differenza del doppio (104mila +1,5mila prepensionamenti a fronte di 56mila trattamenti di vecchiaia). L’età media alla decorrenza (includendo i dipendenti privati e pubblici e i lavoratori autonomi) è stata di 60,5 anni (come totale di uomini e donne): in sostanza, 1,4 anni in più dal 2010; 0,6 anni in più dal 2012, quando è entrata in vigore la riforma Fornero. Certo, l’incremento dell’età effettiva di vecchiaia è stato più importante (2,5 anni), per effetto, però, dell’avvio della parificazione (già compiuta nel pubblico impiego) del requisito anagrafico delle donne a quello degli uomini. E, infatti, mentre i lavoratori hanno avuto, nel 2015, un incremento di 0,8 anni dal 2010 (0,4 anni dal 2012), quello delle lavoratrici è stato rispettivamente pari a 2,9 anni e a 2,2 anni. 

Anche le statistiche del primo trimestre del 2016 confermano il solito trend: le pensioni saranno pure diminuite di numero, ma quelle di anzianità sono pari a tre volte gli assegni di vecchiaia. Ecco, in breve, perché ai giovani non verrà nulla da quanto “passa il convento” dell’attuale dibattito, se non un sistema pensionistico ancor più oneroso da sostenere con i loro contributi nella trappola del finanziamento a ripartizione. Se ci sono delle risorse si abbia il coraggio di ripensare il sistema pensionistico secondo le caratteristiche del mercato del lavoro di oggi.

Bisogna mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani (jobs act e decontribuzione) con un riordino del sistema pensionistico i cui capisaldi potrebbero essere i seguenti:

– 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani);

– 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uniforme – e pari al 25-26% – per dipendenti, autonomi e parasubordinati dando luogo ad una pensione obbligatoria di natura contributiva;

–  3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico;

–  4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbe consentito il versamento volontario del corrispettivo di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, al fine della diversificazione del rischio.

La proposta realizzerebbe, stabilmente, una convenienza ad effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un’aliquota contributiva per le imprese più ridotta di ben 7-8 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro come altra faccia della medaglia di una decontribuzione resa strutturale). La pensione di base compenserebbe, per i lavoratori, i minori accreditamenti secondo il modello contributivo. La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe al massimo  400mila unità all’anno (la nuova occupazione, a fronte di una ripartenza stabile dell’economia). E, quindi, presenterebbe un grado di sostenibilità ben superiore (e costi più ridotti e graduali nel tempo) rispetto a quella derivante dai progetti in discussione. Sarà poi necessario pensare ad un meccanismo compensativo, in qualche modo retroattivo, per coloro che in questi anni sono rimasti prigionieri di un sistema che non li garantiva, come per esempio, gli iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’Inps.

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