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Mercati, la stagione della volatilità: in quali listini e settori si fa sentire di più

Un’analisi tecnica del fattore che più caratterizza i listini negli ultimi giorni – Maggiore la volatilità del comparto azionario rispetto alle obbligazioni – Tra le monete, storicamente lo yen è particolarmente volatile, più del dollaro – Mentre, al confronto con le altre piazze finanziarie europee, Milano presenta una volatilità ridotta

Mercati, la stagione della volatilità: in quali listini e settori si fa sentire di più

Il termine “volatilità” gode fortuna nelle analisi e nei commenti circa l’andamento dei mercati finanziari e merita perciò qualche attenzione, in modo che il concetto ne rimanga invece adeguatamente “stabile”. Chiaramente il termine è stato preso a prestito dalla fisica, dove sta ad indicare la proprietà di un liquido a passare allo stato di vapore, ed è pervenuto alla lingua italiana come traduzione di volatility dalla vasta letteratura finanziaria anglosassone degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.

Il potenziale investitore di una somma di denaro ha di norma la scelta tra investimenti alternativi, da ciascuno dei quali si attende un certo lucro, diciamo un certo “rendimento”, riferendo come di consueto il lucro alla somma di 100 unità monetarie investite. Ma poi, se si comporta razionalmente, deve contestualmente fare la sua scelta considerando anche il secondo corno del dilemma, il rischio che può prevedere di correre in conseguenza di quell’investimento. Rendimento e rischio vanno infatti soppesati insieme, come elementi posti ciascuno su uno dei piatti della bilancia in modo che questa resti in equilibrio.

Con il termine “volatilità” si intende appunto un indicatore fornito dallo strumentario tecnico-statistico, quello più usato per misurare questo rischio. Sia il rendimento atteso, sia il rischio a quello connesso sono variabili viste nel futuro orizzonte dell’investimento di cui non si ha ancora esperienza e, quindi, anche il rischio deve coprire quell’orizzonte temporale. Ma la “volatilità” di cui qui ci occuperemo è invece una misura statistica del rischio riguardante un’esperienza passata, la serie di prezzi osservati, e pertanto si qualifica come “storica”.

Questa sottolineatura sembra opportuna perché si tende a considerare la rischiosità dell’investimento nel futuro come una caratteristica connessa stabilmente a quel certo tipo di investimento di cui si ha esperienza perché riscontrata e misurata invece nel passato. La collocazione dei titoli oggetto dell’investimento in fasce diverse di volatilità risponde sì ad un’osservazione comunemente avvalorata; tuttavia non va affermata così incondizionatamente, perché situazioni diverse di mercato possono mostrare sensibili modificazioni nel posizionamento reciproco delle fasce di rischio. Scopo della presente nota è di fornire un’idea precisa del concetto di volatilità dei prezzi e dei diversi livelli di rischio in cui tipicamente si pongono le principali categorie di attività finanziarie aventi prezzi pubblici.

Volatilità e variabilità

Stiamo considerado quantità variabili specialmente nel tempo. La loro variabilità nello spazio geografico è un fatto ormai molto limitato, vista la rapidità delle comunicazioni che contribuisce al pressochè istantaneo livellamento dei prezzi nelle varie piazze finanziarie. La “volatilità dei prezzi” come misura del rischio dell’investimento va inquadrata nel più ampio concetto della “variabilità” statistica. Precisamente, l’aspetto più noto è quello della “dispersione”, ossia della differenza tra i singoli dati ed un “polo” centrale. Questo concetto, elaborato originariamente in altri campi, è stato molto utile nell’ambito più recente dell’analisi dei prezzi delle attività finanziarie che qui ci interessano. Notoriamente questi prezzi sono infatti tipicamente variabili ed esigono perciò idonei metodi di misura di questa loro caratteristica. Il termine volatilità si riferisce ad una specifica forma di variabilità dei prezzi, quella dei “rendimenti”, calcolati come differenze relative – in pratica, percentuali – tra i prezzi di un titolo nei periodi successivi. Più precisamente, con il termine volatilità s’intende la misura statistica della variabilità dei rendimenti calcolata come scarto quadratico medio (in inglese, standard deviation) degli stessi. La volatilità, generalmente espressa in forma percentuale, è calcolata quindi su puri numeri ed è pertanto indifferente sia all’unità di misura dei prezzi (euro, dollari…), sia alla loro scala (piccoli prezzi, grandi prezzi)

Questo rende tale misura particolarmente utile per qualunque tipo di investimento finanziario che si voglia porre a confronto con altri. Non è difficile calcolare la volatilità secondo la pratica dell’analisi finanziaria corrente. La procedura è questa:

– per ogni giornata si calcola il rendimento giornaliero, di solito sui prezzi di chiusura, determinando la variazione percentuale tra un giorno e il successivo; in pratica, si divide il prezzo per il precedente, si toglie 1 e il risultato si moltiplica per 100;

– per i dati di rendimento di un certo periodo trascorso, per esempio 15 o 45 giorni, si calcola lo scarto quadratico medio, e questo si può ripetere per ogni giorno, a scorrere in avanti. Abbiamo così la volatilità giornaliera, espressa come detto in percentuale e, se l’ultimo dato è quello odierno, la volatilità si qualifica anche con l’aggettivo “corrente”. A questo punto è già disponibile un’utile misura della volatilità giornaliera. Ecco un esempio nel grafico relativo al titolo azionario Generali per i giorni del mese di gennaio 2010.

Si noti che la volatilità è maggiore se calcolata sul dati di fine giornata, i prezzi di riferimento, rispetto al dato del prezzo medio ufficiale: infatti in quest’ultimo caso la media dei prezzi della giornata ha l’effetto di appiattire sensibilmente le differenze risultanti tra un giorno ed il successivo. Tuttavia la pratica usa poi “normalizzare” tale misura riportandola all’equivalenza annua mediante un idoneo coefficiente. Questo coefficiente, che si calcola come radice quadrata del rapporto 252/1, assumendo che 252 siano appunto i giorni di Borsa aperta dell’anno, nella pratica è pari a 16 4 . Così, se un titolo ha la volatilità storica corrente (ultimo dato quello di oggi) pari a 1%, si dichiara che la sua volatilità ad un anno è appunto pari al 16%. Nel caso della trasformazione applicata ai dati del grafico precedente si vede che profilo del grafico resta identico e che l’unico effetto è di alterare la scala verticale di rappresentazione.

Ovviamente per il calcolo del rendimento avrebbe senso assumere periodi magari diversi dal giorno, come la settimana o il mese, ma questa non è la pratica corrente.

Attività finanziarie diverse a confronto per grado di volatilità

E’ importante mostrare come alcune categorie attività finanziarie si differenzino più o meno in termini di volatilità dei prezzi. Lo faremo con l’ausilio di alcuni grafici relativi sia ai prezzi di alcuni singoli titoli azionari, sia a numeri indici sintetici, quelli rappresentativi del listino di Borsa, quello azionario e quello obbligazionario. Si considerano anche due valute e alcune importanti beni o merci aventi mercato internazionale. Il grafico 1 mostra appunto, ancora per il periodo dicembre 2009–gennaio 2010, l’andamento dei dati di base, prezzi o indici, rilevati giornalmente alla Borsa italiana o negli altri mercati ufficiali. Il calcolo della volatilità come scarto quadratico medio di 21 giorni naturalmente ridurrà di altrettanto il periodo di effettiva disponibilità dei risultati.

All’evidenza, il movimento dei titoli e degli indici azionari è decisamente più marcato di quello dei titoli obbligazionari; però il diverso livello dei valori impedisce una visione chiara del fenomeno. Meglio perciò guardare ai rendimenti.

Il grafico successivo espone l’andamento dei rendimenti giornalieri percentuali, che si ottengono per ciascuna serie dai precedenti. In particolare, si evidenziano i maggiori movimenti dell’azione Fiat rispetto a quelli dell’azione Generali. Inoltre, tra gli indici riportati, quelli calcolati in continuo mostrano con i dati di chiusura rendimenti maggiori, in più o in meno, rispetto a quelli dell’unico indice di seduta, il Mib storico, che notoriamente è calcolato invece una sola volta al giorno sulla base dei prezzi medi ufficiali. Ma i confronti risaltano meglio calcolando, per ciascuna serie, la sua volatilità. I risultati sono evidenziati dai grafici successivi.

Abbiamo suddiviso le varie attività finanziarie in due gruppi, per maggiore chiarezza.

Per il primo gruppo la volatilità maggiore si registra ancora per il comparto delle azioni: nell’ordine, Fiat prezzo rif., Fiat PMU, Generali prezzo rif., Generali PMU, FTSE It. All Share e Mib storico.

Per il secondo gruppo brillano per volatilità il prezzo del petrolio e quello dell’oro. Seguono gli indici Nikkei di Tokyo, CAC di Parigi, DAX di Francoforte e FTSE 100 di Londra. L’indice in continuo di chiusura della Borsa italiana in questo periodo appare il meno volatile. Delle due valute, lo Yen risulta sensibilmente più volatile del dollaro USA. Caratterizzato dalla volatilità minore è ovviamente il comparto obbligazionario, che qui è rappresentato unicamente dall’indice MTS.

Questo risulta da una media degli indici di prezzo di un notevole numero di titoli obbligazionari; per cui, ovviamente, la volatilità di tale indice è una media delle volatilità dei singoli titoli. Notare poi che MTS non rileva soltanto i prezzi, ma anche l’accumulo degli interessi, essendo un indice di capitalizzazione, e che, pertanto, mostra necessariamente una lieve tendenza di fondo crescente, che si riflette in rendimenti tendenzialmente positivi. Questa volatilità “storica” dei titoli obbligazionari dipende ovviamente dall’andamento effettivo dei prezzi e non va confusa con quella “ex ante”, che pure è calcolabile. Infatti, per il caso specifico dei titoli obbligazionari è definita da precise formule matematiche una volatilità ex ante, parente stretta della “durata finanziaria del titolo” (duration) e del suo rendimento effettivo ex ante; miure finanziarie tutte, queste, in cui si confluiscono vari elementi certi, come durata, flussi cedolari e tassi di mercato. Anche la volatilità è variabile Da quanto ora evidenziato risulta che la volatilità di ciascun titolo o anche di ciascuna classe di investimento può mutare in dipendenza di alcuni fattori, che si riassumono nello spostamento dell’interesse del mercato da una classe di investimenti all’altra.

Tipica è la reazione del mercato alle mutate attese dei livelli dei tassi d’interesse che prevarranno nel prossimo futuro in conseguenza di mutamenti delle politiche monetarie e creditizie attuate dalle banche centrali. Tali mutamenti sono capaci di pesare di più o di meno sulle diverse categorie di titoli, sia quelli azionari, sia quelli obbligazionari. Ecco un confronto della volatilità dei tipi di investimento già considerati in due periodi diversi, novembre 2007 e gennaio 2010. Nel grafico a barre seguente si osserva che la volatilità risulta generalmente diminuita più o meno per tutti i titoli azionari, ma è invece aumentata per le due valute e per l’oro e per il petrolio greggio; nel frattempo, i tassi d’interesse hanno subìto forti variazioni: il tasso ufficiale BCE è sceso dal 4% all’1%.

   

L’indicatore di volatilità

La volatilità è uno strumento ampiamente impiegato come indicatore nell’Analisi tecnica di Borsa, utile per segnalare particolari situazioni di incertezza del mercato. In particolare, l’indicatore di volatilità trova stimatori per individuare i punti di svolta del mercato, dal rialzo al ribasso o viceversa, sulla base dell’assunto che, in prossimità dei punti di svolta, anche la volatilità assuma valori particolari. Ma non è un assioma.

Ad esempio, secondo Gabriele Belleli “non esiste una regola fissa per affermare che i picchi massimi della volatilità corrispondano ai top (massimi) del mercato e i picchi minimi dell’indicatore corrispondano ad un bottom (minimo) dei prezzi.” Dopo avere escluso anche la validità dell’affermazione “che un aumento della volatilità, protratto per un breve periodo di tempo, segnali sempre un minimo o che un basso livello dell’indicatore individui un massimo”, lo stesso Autore afferma poi che l’indicazione più affidabile resta, appunto, che i picchi dell’indicatore, massimi o minimi, valgono a segnalare punti di possibile inversione del mercato.

Qui è opportuno aggiungere che alla “volatilità storica”, di cui si è detto, si contrappone una “volatilità implicita”. Specificamente per il caso dei titoli azionari, si tratta di una misura ricavabile mediante formule matematico-statistiche dai prezzi di contratti derivati, in particolare le “option”, di cui l’azione costituisce il titolo sottostante. Naturalmente, come dai prezzi delle azioni si può passare al calcolo di numeri-indici composti dei prezzi azionari, così mediante misure della volatilità implicita calcolata su un gruppo di titoli azionari su cui avvengono contratti di option è possibile comporre indici sintetici della volatilità implicita dei prezzi delle azioni. Questi indicatori hanno ovviamente una maggiore validità – rispetto ai dati corrispondenti di volatilità di tipo storico – nel senso di segnalare l’atteggiamento previsionale del mercato, in un preciso momento incorporato nel prezzo di quei contratti. Lo sguardo al futuro non deve però ingannare: rimane pacifico che si tratta pur sempre di giudizi correnti su andamenti futuri.

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