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Le riforme istituzionali e le troppe amnesie dei dissidenti

In vista della stretta sulla riforma del Senato cresce la fronda in Forza Italia e nel Pd ma i dissidenti, al di là dei problemi di coerenza politica, sembrano dimenticare che c’è una bella differenza tra chiacchiere da bar e politica e che la riforma migliore non è quella costruita in solitudine ma quella che può raccogliere la maggioranza in Parlamento.

Le riforme istituzionali e le troppe amnesie dei dissidenti

E’ del tutto comprensibile che alla vigilia della stretta sulla riforma del Senato, che potrebbe finalmente arrivare all’esame dell’aula di Palazzo Madama a metà settimana, crescano fibrillazioni, fronde e dissidenze sia nel centrodestra che nel centrosinistra, sia in Forza Italia che nel Pd. Dopo anni di chiacchiere inconcludenti è evidente che ci troviamo di fronte a un passaggio cruciale che, a seconda dei risultati che verranno raggiunti, può chiudere o no l’infausto ventennio della Seconda Repubblica.

Si vedrà presto se la scommessa di Matteo Renzi di aprire la strada a riforme istituzionali che, pur nella loro inevitabile imperfezione e transitorietà dovute a un Parlamento bislacco come quello prodotto dal Porcellum, possono segnare una svolta, riuscirà a diventare realtà o se gli interessi particolaristici che si annidano in entrambi gli schieramenti finiranno per prevalere sugli interessi generali di cambiamento.

Il balletto che si apre ogniqualvolta sembra che si arrivi al dunque delle riforme istituzionali ed elettorali è come quello che si ripete durante i Mondiali di calcio: ognuno è convinto di essere il miglior Ct della terra e ognuno pensa che il proprio modellino di riforme sia il migliore possibile. Ma questo va bene se ci si accontenta di discutere al bar. 

La politica è un’altra cosa e la più elementare verità che non bisognerebbe mai dimenticare è che la differenza tra predicazione e politica è che la prima può permettersi di promettere la luna non essendo chiamata ad alcuna verifica mentre la politica è tenuta a produrre risultati tangibili e su questo viene giudicata. Ecco perché, soprattutto in un campo molto complicato come quello riforme istituzionali, il meglio è spesso nemico del bene, perché ciò che davvero conta non è mettere in campo la proposta di riforma teoricamente migliore ma quella condivisa dalla maggioranza. Se un’idea di riforma, anche la più suggestiva, non è in grado raccogliere il consenso della maggioranza del Parlamento non vale nulla e resta aria fritta.

Fanno sorridere quei capitani di lungo corso del Pd, nel cui medagliere c’è un numero infinito di sconfitte, che rimproverano al Premier di aver aperto il dialogo con Silvio Berlusconi (che è certamente un pluricondannato ma che resta il leader di Forza Italia votato da circa un terzo degli elettori) dimenticando che senza un accordo tra Pd e Forza Italia – salvo reali ripensamenti del M5S – le riforme istituzionali ed elettorali non hanno alcuna possibilità di essere approvate.

Per una semplice ragione: perché il Pd, grazie all’insuccesso elettorale della sua vecchia guardia, non ha il 51% e non ha la maggioranza assoluta e deve dunque acconciarsi a trovare un accordo in Parlamento con altre forze politiche se non vuole condannarsi all’immobilismo. Anche perché pensare di lanciare riforme elettorali a colpi di maggioranza senza dialogare con tutte le forze politiche – come fece Berlusconi con il Porcellum per boicottare la seconda vittoria di Romano Prodi – sarebbe solo suicida.

Ben vengano dunque tutte le proposte migliorative del Patto del Nazareno, della riforma del Senato e dell’Italicum, ma la prova al tornasole della loro bontà è tanto chiara quanto ineludibile: quelle proposte sono condivise o no da una maggioranza possibile? Se non lo sono, possono rappresentare una legittima testimonianza per i posteri ma non certamente un contributo alle riforme. Su questo sia i dissidenti del Pd che la fronda antiberlusconiana soffrono di troppe amnesie e finora non hanno saputo offrire risposte convincenti alimentando il dubbio che le loro iniziative finiscano obiettivamente e al di là delle intenzioni personali per ostacolare se non sabotare le riforme.

Un grande padre della Patria come Bruno Visentini soleva ricordare che un buon politico deve avere tre caratteristiche: 1) conoscere tecnicamente i problemi di cui si sta occupando; 2) avere molto chiare le priorità della sua azione; 3) saper valutare in anticipo gli effetti della propria politica. Parole sante: se la chiara identificazione delle priorità e degli effetti di ogni mossa non sono la bussola di chi si occupa di riforme istituzionali ed elettorale il rischio di finire fuori strada diventa ogni giorno più elevato.

Venendo al merito delle questioni e cominciando il discorso alla riforma del Senato, che è la vicina in agenda, è più importante insistere sull’elettività dei senatori o compiere il primo passo per ridimensionare il Senato e superare il nefasto e costoso bicameralismo perfetto che negli ultimi vent’anni ha solo ostacolato il cammino delle leggi e delle riforme? Questo è il punto centrale a cui tutto il resto, per importante che sia, va subordinato. E non si venga a raccontare la favoletta che, ridimensionando il Senato ed evitando l’ elezione diretta dei suoi membri, si intaccherebbero gli equilibri democratici. 

Quanto all’Italicum e alla riforma della legge elettorale si possono, anche in questo caso, suggerire tanti miglioramenti ma a condizione che siano condivisi da una larga maggioranza e che siano coerenti con l’obiettivo di consolidare il bipolarismo, di assicurare che chi vince le elezioni governa e di evitare il ricorso alle larghe intese che, salvo situazioni eccezionali, offuscano la chiarezza dell’azione di governo. Se non si considerano questi tre punti determinanti, come sembrano fare i grillini, si possono anche mostrare i muscoli ma si fa solo confusione.

Ma c’è infine una questione di metodo che riguarda sia i frondisti di Forza Italia che i dissidenti del Pd. A chi non piacerebbe che i futuri parlamentari non fossero più nominati dalle segreterie di partito ma scelti dai cittadini elettori? Suona però grottesco che ad alzare la bandiera delle preferenze, fino a poco tempo fa considerate demoniache, siano esponenti politici che non sono stati scelti dal popolo ma dai listini bloccati e dalle liste stilate da Silvio Berlusconi e dall’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani. Tutto ciò solleva un inedito problema di coerenza politico. 

Ogni parlamentare ha tutto il diritto di fare le sue battaglie, ma fino a che punto? Quando si arriva al dunque, conta di più l’idea di un singolo parlamentare, anche se non ha il conforto dell’elettorato che non lo ha scelto ma l’ha subito, o il rispetto della maggioranza del partito al quale fa riferimento e con cui sembra ovvio dover trovare una sintesi? Messa in altri termini: Renzi, che ha stravinto le primarie del suo partito prima ancora delle elezioni europee, ha diritto o no di esprimere la linea politica sostenuta da tanti militanti e cittadini che gli chiedono le riforme oppure no? E in democrazia conta di più la volontà rinnovatrice di milioni di cittadini o le bizzarrie di un Corradino Mineo o di un Augusto Minzolini?

Basterebbe un briciolo di saggezza per rispondere, sapendo che il pluralismo, anche all’interno di un partito, è sacrosanto purché non sconfini in una sconclusionata anarchia o nella dittatura delle minoranze che sono sempre l’anticamera dell’immobilismo e dell’inconcludenza. Una cosa è certa: se Renzi non vincerà sulle riforme, che è la ragione sociale del suo Governo, sarà inevitabile che il Paese finisca sul piano inclinato delle elezioni anticipate, perché il confronto delle idee è sempre utile ma alla fine bisogna decidere e oggi rivoluzionare l’Italia è un obbligo che non può più essere rimandato.

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