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La rivoluzione del lavoro: dalla Fiat al Jobs Act

Paolo Rebaudengo, già responsabile delle relazioni industriali di Fiat, racconta in “Nuove regole in fabbrica” (edizioni Il Mulino, 14 euro) la rivoluzione del mondo del lavoro avviata nel 2010 da Marchionne alla Fiat di Pomigliano, con l’incomprensione di Confindustria e l’opposizione di Fiom, e destinata ad estendersi ora a tutto il sistema con il Jobs Act

La rivoluzione del lavoro: dalla Fiat al Jobs Act

Quella avviata nel 2010 dalla Fiat a Pomigliano è stata una vera e propria rivoluzione del mondo del lavoro di fabbrica destinata ad estendersi a tutto il sistema con il Jobs act. Una rivoluzione che non implica la scomparsa del sindacato ma che spinge le rappresentanze dei lavoratori a modificare il proprio atteggiamento passando dalla pura rivendicazione alla condivisione di obiettivi aziendali che riguardano l’intera collettività dei lavoratori. Insomma il sindacato deve passare ( ed in gran parte è passato ) da un puro antagonismo ideologico ad una posizione di maggiore responsabilità sul destino dell’azienda, esercitando il proprio ruolo in campi e con modalità diverse rispetto al passato.

Paolo Rebaudengo, per lunghi anni responsabile delle relazioni industriali di Fiat ha vissuto in prima persona tutta la vicenda che portato la Fiat fuori dalla Confindustria per potersi dotare di un contratto autonomo di primo livello improntato ai nuovi principi della partnership tra azienda e lavoratori.  A fronte delle esigenze poste dalla competitività globale, è necessario che i singoli e le rappresentanze sindacali assumano responsabilmente degli impegni a fronte ovviamente di altri impegni da parte dell’azienda. Insomma uno scambio basato sulla fiducia reciproca e sulla cooperazione.

Rebaudengo racconta in un agile volume che sta arrivando in libreria, la storia che ha condotto alle” Nuove regole in fabbrica” ( Ed Il Mulino Euro 14) ricostruendo i fatti sulla base di documenti non contestabili , senza lenti ideologiche. Da essi fa discendere giudizi sul comportamento dei vari protagonisti della vicenda che appaiono sgorgare con naturalezza dalle vicende raccontate. La prefazione di Giuseppe Berta è poi una mirabile sintesi del significato profondo, economico, politico e sociale, della rivoluzione avviata da Marchionne cinque anni fa e che ora sta portando ad un nuovo paradigma del lavoro. Dalla lettura di queste pagine risalta con grande evidenza la grave sottovalutazione che molti economisti e politici fanno delle nuove regole del mercato del lavoro appena varate dal governo Renzi dopo una battaglia furibonda contro la Cgil  trascinata dalla Fiom su posizioni ultra-conservatrici.

Il contratto Fiat e le nuove regole sul mercato del lavoro, che devono essere completate da una legge sulla rappresentanza e sulla contrattazione aziendale, stanno portando ad un cambiamento radicale del modo di concepire il lavoro. Ormai non c’è più l’operaio massa, quello che vende solo la sua forza fisica e che quindi è totalmente intercambiabile, ma i nuovi sistemi produttivi richiedono un lavoratore responsabile, capace di partecipare attivamente alla regolarità del flusso produttivo, ed impegnato anche a migliorarsi costantemente attraverso periodi aggiornamento formativo. L’esatto contrario di quanto sostenuto dalla Fiom  nel 2008 quando la Fiat varò per Pomigliano un piano complessivo di formazione di tutto il personale con fermo degli impianti per ben due mesi, e cioè che si trattava di “corsi di rieducazione ” inconsapevolmente echeggiando ciò che avveniva in Unione Sovietica  o nella Cina di Mao.

Diventa quindi fondamentale un rapporto fiduciario tra azienda e singoli lavoratori e tra azienda e rappresentanza sindacale. Da quindi nasce uno degli aspetti fondamentali di tutta la vicenda della Fiat (anche se in un paese normale sembrerebbe una stramberia) : quello della “esigibilità del contratto”, cioè della sicurezza del rispetto degli impegni liberamente sottoscritti dalle parti.

Senza ripercorrere tutte le tappe dell’incredibile battaglia sindacale e dei suoi curiosi aspetti giudiziari (che stanno lì a testimoniare la ragione per la quale gli investitori si tengono alla larga dall’Italia), vale la pena metterne in evidenza tre aspetti rilevanti: il clamore mediatico, l’atteggiamento della Confindustria, il ruolo della Fiom di Landini.

La gran parte dei media, spinti da ripetute prese di posizione di studiosi e politici, si schierò dalla parte dei lavoratori, ed in particolare della Fiom ritenuta la vera rappresentanza dei lavoratori, trascurando non solo gli esiti dei referendum nelle varie fabbriche ,ma anche gli esiti delle elezioni per  le rappresentanze aziendali dove le altre sigle sindacali conquistavano quasi sempre la maggioranza.

Rebaudengo critica un po’ la Fiat stessa per non aver saputo replicare alle valanghe di accuse denigratorie che venivano lanciate alla Fiat dalle colonne dei giornali e dagli schermi televisivi. Ma c’è da chiedersi perché Marchionne che è un uomo straordinariamente acuto, non abbia sentito il bisogno di organizzare una comunicazione per replicare all’assalto di Landini e dei pensatori di estrema sinistra. La risposta logica potrebbe stare nella necessità di non accettare da parte Fiat il dibattito corrente italiano, più volte ritenuto solo ideologico o chiacchierologico, e quindi marcare la propria diversità rispetto a questo stile di confronto, che poi è tra i responsabili della paralisi decisionale del Paese.

Alla Confindustria Rebaudengo non risparmia critiche anche aspre. ” E’ davvero paradossale – scrive – che un sistema che deve rappresentare e tutelare gli interessi degli imprenditori, a fronte di norme che danno loro più spazio e più autonomia, appaia timoroso e se ne ritragga.”  Assurdo è poi l’atteggiamento confindustriale a proposito della legge Sacconi che assegnava validità erga omnes ai contratti aziendali, dato che l’associazione si impegnò con i sindacati a non utilizzare quella legge.

E veniamo alla Fiom. Non c’è dubbio che il suo segretario generale Landini appena insediato al vertice, approfittò della vertenza di Pomigliano per farsi un nome. Come spesso è accaduto in passato il sindacato usa la Fiat come simbolo del proprio potere ingaggiando nelle fabbriche automobilistiche battaglie che mai si sognerebbe di fare in altre aziende italiane. Spesso il sindacato ne è uscito sconfitto, ma si trattava di una sconfitta tattica, che non modificava le regole di fondo delle relazioni industriali, mentre questa volta c’è stata una sconfitta strategica che sta portando ad un profondo cambiamento del ruolo del sindacato, rendendolo più simile ai maggiori sindacati dell’Occidente. La linea partecipativa comporta un incentrarsi dell’attività del sindacato sulla fabbrica e sugli interessi concreti dei lavoratori, mentre la Fiom rimane ancorata ad un ruolo del sindacato come collettore della protesta sociale (e quindi soggetto politico) e come rappresentante di un pensiero generale sul lavoro.

Landini sta portando la Fiom fuori dalle fabbriche (ed infatti in Fiat i suoi iscritti sono ridotti al lumicino) per farne la forza trainante di un nuovo soggetto di protesta sociale e quindi di influenza politica.  In realtà la Fiom sta accelerando il processo di disintermediazione dei grandi soggetti confederali che con la fine della concertazione con il Governo e con l’affermarsi dei contratti aziendali non hanno più un ruolo determinante nell’indirizzare la politica economica del Paese.

Landini è insomma il classico “perdente di successo” che si basa sulla finzione mediatica della sua supremazia nella rappresentanza dei lavoratori; leadership che nell’immagginario  collettivo reste anche quando nei fatti la Fiom non viene più votata dagli operai delle fabbriche, cioè dagli operai in carne ed ossa non da quelli rappresentati nei dibattiti TV. Il problema è che la straripante presenza di Landini porta a lui il successo,( almeno mediatico) e lascia le perdite all’intero paese che a seguire le sue idee, rimarrebbe inchiodato a livelli competitivi incompatibili con il recupero di decenti tassi di crescita nel mercato globale.

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