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Italiano e toscano, la lingua da ieri a oggi: dall’occitano e dalla scuola siciliana agli idiomi volgari della penisola

Il glottologo Daniele Vitali, in un libro per goWare, ripercorre la “questione della lingua”, spiegando come dalla Divina Commedia si sia arrivati all’Italiano di oggi

Italiano e toscano, la lingua da ieri a oggi: dall’occitano e dalla scuola siciliana agli idiomi volgari della penisola

Nell’ultimo intervento il glottologo Daniele Vitali, che sta preparando un libro per goWare, ha ripercorso la “questione della lingua” descrivendo come dalla Divina Commedia si sia arrivati all’italiano di oggi. Per capire meglio il periodo e il luogo di nascita della lingua nazionale occorre però volgere lo sguardo verso il De vulgari eloquentia e ancora a prima, alla situazione di fatto da cui Dante partì. È qui che Vitali ci porta al rapporto tra l’italiano e il toscano che è all’origine della nostra lingua.

Ecco che cosa scrive Vitali.

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La lingua d’oc e la lingua d’oïl

Quando a scuola studiamo il De vulgari eloquentia, ci viene spiegato che Dante si era accorto della comune discendenza fra lingua d’oc, lingua d’oïl e lingua del sì. Mentre a tutti gli scolari italiani appare evidente quale sarebbe la lingua del sì, gli insegnanti specificano che la lingua d’oïl corrisponde all’antico francese, la cui letteratura comincia con le chansons de geste nella seconda metà dell’XI secolo, mentre la lingua d’oc è il provenzale, la cui letteratura è ancora precedente: fiorita in particolar modo nell’XI secolo e poi nel XII, ci ha dato la tematica dell’amor cortese che presto avrebbe ispirato anche i poeti del nord della Penisola Iberica e dell’Italia. 

Da “lingua d’oc”, laddove “oc” è appunto la parola utilizzata per dire “sì”, viene il più corretto termine occitano. In effetti il provenzale sarebbe solo uno dei dialetti di questa lingua, oggi pressoché cancellata dal francese ma che un tempo si parlava, pur senza una forma unificata, in quasi tutta la Francia meridionale, ossia da una striscia alpina di territorio piemontese fino all’Oceano Atlantico, comprendendo Marsiglia, Tolosa e Bordeaux.

La funzione della poesia occitana

La funzione della poesia occitana con i suoi trovatori è stata fondamentale per la cultura europea: si tratta della prima volta in cui si fa letteratura in una lingua diversa dal latino, dando un esempio che sarebbe stato seguito col tempo dalle altre lingue romanze in via di formazione. Dopo la lingua d’oc, infatti, fu la volta della lingua d’oïl (parola antenata dell’odierno oui), e poi di quella del sì. 

Ma prima di passare all’Italia vorrei segnalare, per spirito di servizio, che oïl si pronuncia /’ɔj/, non /o’il/ come ci dicono a scuola, e tanto meno /’wal/ come ho sentito dire tempo fa: è vero che fois, moi, roi si pronunciano /’fwa, ‘mwa, ‘ʀwa/, ma il termine oïl ha avuto una storia diversa rispetto alla trafila fonetica che ha portato all’odierno /wa/, e infatti la dieresi sulla i (anch’essa successiva a Dante, che scriveva “oil”) serve proprio a indicare un valore diverso da quello del digramma oi.

La Scuola poetica siciliana

Siamo nella prima metà del Mille e Duecento, e a capo del Regno di Sicilia c’è Federico II di Svevia, che è anche alla testa del Sacro Romano Impero Germanico. Alla corte di Palermo fioriscono le arti: dobbiamo alla Scuola siciliana la prima produzione lirica in un volgare d’Italia, e si trattava di poesia d’amore, secondo l’esempio dei trovatori provenzali.

I poeti della corte siciliana erano in genere funzionari del Regno che si dilettavano nel poetare, e lo stesso Federico ci ha lasciato alcuni componimenti. Pur avendo preso dai trovatori la tematica dell’amor cortese, i poeti siciliani innovarono sotto vari aspetti: slegarono la recitazione delle loro poesie dall’accompagnamento musicale, inventarono il sonetto, e soprattutto scrissero in una lingua che gli storici della letteratura chiamano “siciliano illustre”.

Questo termine indica un idioma romanzo di base siciliana, dunque con 5 vocali accentate, ma aperto a influenze esterne: aldilà degli inevitabili latinismi, va notato l’apporto del provenzale e del francese, le grandi lingue di cultura dell’Europa cristiana dell’epoca, cui va aggiunta la capacità di coniare termini inediti. Si trattava insomma non di quella che oggi considereremmo poesia dialettale, ma della creazione di una lingua letteraria nuova.

Con questa esperienza, anche l’Italia vide così l’inizio della propria letteratura in volgare, il cui arrivo in Toscana avrebbe avuto importanti conseguenze.

La Toscana in età medievale

Nell’alto medioevo, la Toscana si era ritrovata nel Regno Longobardo con capitale a Pavia, dunque assieme al Nord Italia e politicamente separata da Roma e dall’Italia Centrale, che erano rimaste sotto i Bizantini. All’interno del Regno vi era un ducato di Tuscia con città principale Lucca, collegata a Pavia dalla Via Francigena (che, dal Centro Europa, portava a Roma). E Lucca rimase a lungo la città principale della regione.

Nel basso medioevo comincia però l’ascesa di Firenze, erettasi a Comune nel XII secolo. La città si fa prospera grazie all’artigianato, alle banche e al porto fluviale, che consente un crescente commercio col resto d’Europa. Viene assoggettato il contado, la superficie urbana si amplia e la popolazione aumenta, con la formazione di un ricco ceto mercantile di estrazione borghese le cui sorti s’intrecciano sempre di più a quelle dell’antica aristocrazia: nel XIII secolo, l’ascesa fiorentina si fa inarrestabile malgrado gli scontri tra fazioni (i guelfi e i ghibellini) e l’ostilità delle città vicine, come Siena e Pisa.

Insomma, le condizioni erano propizie perché succedesse qualcosa: come dimostra l’esperienza di Palermo, le arti e le lettere sbocciano laddove ci sono condizioni sociali ed economiche favorevoli, e certamente tali erano nella ricca Firenze. Così, qualcosa successe.

Il Dolce stil novo

La poesia siciliana arrivò nel resto d’Italia già ai tempi di Federico, e gli amanuensi settentrionali e toscani si misero al lavoro affinché potesse circolare.

Gran parte delle copie giunte sino a noi sono toscane, e hanno dunque subito adattamenti del sistema vocalico, portato a 7 vocali accentate: le poesie siciliane, in cui aviri rimava con serviri, cruci con luci e nui con lui, furono ritrascritte distinguendo fra “avere” e “servire”, “croce” e “luce”, “noi” e “lui”, il che creò rime imperfette.

L’esempio della poesia siciliana, pur così rimaneggiata foneticamente, contribuì alla nascita del Dolce stil novo, prima a Bologna con Guido Guinizelli (1235-1276), e poi in Toscana con Dante Alighieri (c. 1265-1321), Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e così via (vi ricordate “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”?). 

Lo stilnovismo era caratterizzato da un linguaggio ricercato e aulico e, dunque, continuò la costruzione di una nuova lingua letteraria iniziata dai poeti siciliani. Questa volta però, essendosi il nuovo stile sviluppato principalmente a Firenze, il modello linguistico di partenza era quello toscano.

L’eloquenza della lingua volgare

Tra il 1303 e i primi mesi del 1305, Dante scrisse il De vulgari eloquentia, che il luogo comune ritiene un testo di linguistica e dialettologia ed è invece un trattato di filosofia medievale relativo al linguaggio da utilizzare in un’Italia che l’autore concepiva come un paese distinto dagli altri e a cui serviva una guida politica (come sappiamo dal successivo De monarchia, nella sua concezione doveva trattarsi dell’autorità imperiale, dal momento che quella papale era meglio si occupasse soltanto di questioni spirituali).

Scritto in latino perché rivolto ai dotti del suo tempo, il De vulgari inizia parlando della nascita della lingua con Adamo, del suo frazionamento ai tempi della Torre di Babele e poi ulteriormente fino alle lingue parlate nell’Europa del suo tempo, ancora non tutte ben delineate e non sempre dotate di un nome definitivo, come mostra la sua stessa terminologia, con le già citate lingua d’oc, d’oïl e del sì.

I differenti volgari

Dante osserva che i volgari, ossia gli idiomi diversi dal latino, sono diversi fra loro non solo dalla Francia all’Italia, ma anche nella stessa Italia, e differenzia tra parte destra e sinistra degli Appennini: “infatti i Padovani parlano altrimenti che i Pisani”. Si meraviglia poi che siano “discordi nel parlare gente che abita più vicina, come Milanesi e Veronesi, Romani e Fiorentini” e persino “i Bolognesi di Borgo San Felice e i Bolognesi di Strada Maggiore”.

Aldilà delle stranezze classificatorie (destra e sinistra anziché Nord, Centro, Sud e Sud estremo come fa la linguistica moderna), Dante osserva correttamente che le differenze sono dovute, oltre alla distanza nello spazio, anche al passare del tempo, poiché soltanto “uomini che in quanto a capacità di giudizio sono poco lontani dalle bestie ritengono che la vita civile della stessa città si sia sempre svolta all’insegna di una lingua invariabile”.

La “grammatica” e i volgari

Per ovviare a tutte queste cause di mancata intercomprensibilità, afferma Dante, fu inventata “la grammatica” (cioè il latino), che lui dunque credeva successiva ai volgari. A quel punto ci dice che l’Italia ha “almeno quattordici volgari” ma che, a voler calcolare anche le varietà “secondarie e quelle ancora minori, accadrebbe di arrivare, perfino in questo piccolissimo angolo di mondo, non solo alle mille varietà, ma a un numero anche superiore”.

“In tanta dissonanza”, l’autore si mette “sulle tracce della lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre”, e lo fa per esclusione: “quello dei Romani – che non è neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo – è il più brutto di tutti i volgari italiani”, dopodiché vengono sonoramente bocciati “gli abitanti della Marca Anconitana” e “gli Spoletini”, poi “Milanesi e Bergamaschi”, “Aquileiesi e Istriani”, i “Casentinesi”, e ancora i “Sardi” che “sono i soli  a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la grammatica come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus”.

La rivendicazione del volgare illustre

Né si pensi che il suo giudizio fosse più tenero coi “Toscani i quali, rimbambiti per la loro follia, hanno l’aria di rivendicare in sé l’onore del volgare illustre”, ma Fiorentini, Pisani, Lucchesi, Senesi e Aretini sono “intronati da quel loro turpiloquio”, anche se “qualcuno a nostro avviso ha sperimentato l’eccellenza del volgare, voglio dire Guido, Lapo e un altro, tutti di Firenze”, cui aggiunge Cino Pistoiese. 

Il ragionamento di Dante insomma è che pochi “individui più onorati” hanno voltato le spalle alla loro parlata (compreso lui, da riconoscersi quando dice “Guido, Lapo e un altro”), mentre questa viene coltivata dagli altri autori toscani, i cui scritti sono “non di livello curiale, ma soltanto municipale”: proprio questo starebbe a dimostrare l’inadeguatezza del toscano a fare da lingua illustre.

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