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Il Gish gallop e altre tecniche di argomentazione per vincere un dibattito senza avere ragione

In letteratura, le fallacie argomentative sono oggetto di indagine dai tempi di Aristotele. Esistono ragionamenti volutamente erronei e altri in cui è proprio l’oratore ad autoingannarsi, rimanendo vittima egli stesso della fallacia argomentativa. Il Gish gallop è una tecnica che si appropria degli aspetti peggiori di entrambi i tipi di (non) ragionamento

Il Gish gallop e altre tecniche di argomentazione per vincere un dibattito senza avere ragione

Uno dei maggiori commentatori aristotelici dell’antichità, Alessandro di Afrodisia, utilizzava il termine “Organon” (in greco antico: Ὄργανον”, strumento) per riferirsi all’insieme delle opere e degli appunti di logica del filosofo greco Aristotele. Uno di questi componenti dell’Organon, gli “Elenchi sofistici”, sono una testimonianza di quanto sia antica la riflessione sulle fallacie argomentative. Aristotele identificava due tipi di errore nella logica argomentativa: fallacie “in dictione” (cioè nella lingua) ed “extra dictione” (cioè al di fuori della lingua).

Considerando tutta la letteratura in materia, compresa quella più recente, il numero di classificazioni e schemi delle fallacie argomentative aumenta a dismisura. Non c’è accordo su come classificarle, ma il dubbio svanisce quando si tratta di elencarle. In totale si arriva a circa un centinaio di fallacie principali. Le più ricorrenti, da cui spesso derivano le altre, sono rintracciabili già nel citato trattato di Aristotele. Alcune delle scorrettezze commesse durante i dibattiti tra persone, in tv, sui giornali, sui social network o anche di persona, sono proprio il frutto dell’applicazione di una o più fallacie argomentative.

Uno degli autori al quale è d’obbligo tributare un elogio per la sua elencazione molto esaustiva, comprendente dettagliate spiegazioni ed esempi di ben 110 fallacie logiche è il Dottor Michael C. LaBossiere, professore di filosofia alla Florida Agricultural and Mechanical University. Il docente ha iniziato individuando 42 fallacie, arricchite poi da altre 30 scorrettezze argomentative, fino ad arrivare alla sua ultima opera, il compendio delle “110 Fallacies” (testo disponibile solo in lingua inglese).

Per capire che cos’è una fallacia argomentativa (fallacy), occorre avere chiari in mente i concetti di “logica“, “ragionamento” e “inferenza“. Partiamo da quest’ultima: l’inferenza (dal latino in-ferre, letteralmente portare dentro) è il processo attraverso il quale una conclusione viene derivata dalle premesse. Il ragionamento è l’insieme dei processi mentali con cui si ricavano queste inferenze, cioè l’elaborazione di nuove conoscenze (le conclusioni) a partire da quelle che sono disponibili (le premesse). La logica è la disciplina matematico-filosofica che si occupa di descrivere le norme del ragionamento corretto, ossia delle condizioni alle quali un ragionamento risulta corretto, qualunque sia l’universo del discorso.

Esistono due tipi principali di argomentazione legati al ragionamento: deduttiva e induttiva. Nel primo caso si fa derivare una certa conclusione da premesse più generiche, all’interno delle quali quella conclusione è implicita. Nel ragionamento deduttivo la conclusione non aggiunge ulteriori informazioni a quelle già contenute nelle premesse, ma le rende note. Nel secondo caso si parte da casi particolari per giungere ad una conclusione la cui portata è più ampia dei casi esaminati (generalizzazione). La conclusione induttiva amplia le informazioni contenute nelle premesse ed ha carattere probabilistico.

A ciascun tipo di ragionamento corrispondono più fallacie, classificabili come fallacie deduttive o induttive, ma è bene precisare che le fallacie argomentative non devono essere confuse con gli errori fattuali, cioè il semplice aver torto sui fatti. Il comun denominatore di tutte le fallacie è però il fatto che, attraverso di esse, è possibile avere la meglio su un interlocutore durante un dibattito, senza necessariamente aver ragione.

Facciamo ora un esempio di una fallacia argomentativa, rimandando ad altre risorse sul web per conoscere la maggior parte delle fallacie possibili, per averne uno schema di classificazione o per leggerne a riguardo da altra fonte. Prendiamo un caso molto ricorrente: la fallacia dello spaventapasseri (straw man argument) o fallacia dell’argomento fantoccio. Si tratta di una strategia volta a rappresentare scorrettamente l’argomentazione dell’avversario, esagerandola, riportandola in modo caricaturale, ma – in ogni caso – spostando il punto della questione. In questo modo si mettono in bocca all’interlocutore parole e concetti non espressi o utilizzati con un altro significato, in un altro contesto. Lo scopo è quello di confutare una tesi più facile, magari dove esiste già più di un luogo comune. Il risultato è che, in questo modo, la teoria avversa viene distorta e appare errata finanche a chi l’ha esposta. A quel punto la disfatta dell’avversario è ad un passo poiché la propria teoria apparirà ora automaticamente più sensata e dunque quella corretta.

Esempio concreto di fallacia argomentativa

Scenario: “notizia sulla percentuale di giovani che scelgono di non frequentare l’ora di religione in una scuola pubblica”.

Interlocutore 1: “Sono contento che i giovani non siano costretti, nella scelta a non frequentare l’ora di religione, da nessuna legge progressista, ma agiscano di loro spontanea volontà”

Interlocutore 2: “Costretto? Ma se puoi scrivere tutto quello che vuoi? Mica ti costringono a credere?”

In questo caso è chiaro che il riferimento alla costrizione del primo interlocutore è relativo all’ipotesi – non auspicata – di una legge progressista che elimini totalmente l’ora di religione, obbligando i ragazzi ad una diversa organizzazione didattica, eppure l’interlocutore 2 sposta l’oggetto della costrizione proprio all’interlocutore 1, come se questi avesse sostenuto di non essere libero di esprimere quello che pensa oppure, in seconda battuta, la costrizione diventa quella della confessione religiosa.

Aristotele utilizzava due termini distinti per questi ragionamenti scorretti: chiamava “paralogismo” quella fallacia argomentativa in cui l’errore era involontario e “sofisma” quella in cui invece era possibile distinguere la volontà di ingannare l’interlocutore allo scopo di farlo aderire alla propria posizione. In entrambi i casi, le argomentazioni sono valide solo formalmente, ma sono fondate su errori logici (non sequitur), ambiguità e scarsa attinenza alla questione centrale.

Esiste poi una fallacia argomentativa che più di tutte è efficacie, quand’anche tutte le altre non si siano rivelate utili a portare al successo nel dibattito chi non è interessato ad una disamina costruttiva quanto piuttosto ad aver ragione. In questo caso si fa molta fatica a stabilire se si tratti di un paralogismo o di un sofisma, perché evidentemente, chi ne fa uso, è interessato solamente ad ottenere un beneficio in termini di “ultima parola” e quindi preleva a mani basse ogni difetto dall’uno e dall’altro modus operandi. Stiamo parlando del cosiddetto “galoppo alla Gish” o “Gish gallop”, ovvero di una tecnica di argomentazione che si basa sul sovrastare i propri interlocutori con il maggior numero possibile di domande lasciate senza una risposta, ma anche di affermazioni apodittiche, senza riguardo per l’accuratezza o l’attinenza delle singole questioni, spesso solamente accessorie. Il termine è stato coniato dall’antropologa Eugenie Scott e prende il nome dal biochimico statunitense Duane Gish, uno dei membri più in vista del movimento creazionista (dottrina che nega l’evoluzione delle specie viventi), che usava frequentemente questa tecnica nei suoi dibattiti. Ancora una volta, tale tecnica è facilmente rintracciabile nell’Organon di Aristotele, si va dal “per riuscire a confutare, una condizione è indubbiamente la lunghezza del discorso; è infatti difficile dominare con un unico sguardo molti oggetti” al “un’altra condizione è la velocità nel discutere“, per finire nel “un’ulteriore condizione sta nel presentare alternativamente le domande, sia che per uno stesso oggetto uno disponga di parecchie argomentazioni, sia che uno voglia provare una certa cosa ed altresì la cosa contraria“. Il Gish gallop lascia gli interlocutori senza parole, o meglio: senza sapere da che parte iniziare. Gli argomenti tirati in ballo sono talmente tanti e senza riscontri che viene naturale gettare la spugna. E il proprio avversario, nel dibattito, avrà avuto l’ultima parola. Chi osserva, noterà una maggiore sicurezza nell’utilizzatore del Gish gallop, una maggiore rapidità nell’esposizione e un continuo ricorso alle domande retoriche, lasciate appunto senza una risposta, come a dire: “la risposta è scontata ed è quella che ho in tasca io”.

Negli ambienti della divulgazione scientifica, il Gish gallop è ritenuto la leva principale della cosiddetta teoria della “montagna di merda”, un nome goliardico dato ad una situazione immaginaria di fronte al quale si verrebbe a trovare proprio chi tenta di arginare il fenomeno del Gish gallop. La paternità del nome, dato a questa teoria nei primi anni del 2000, è di un brillante blogger, Uriel Fanelli che, in un momento di frustrazione, elaborò questa teoria per spiegare il motivo per cui il debunking, la nobile attività dello smascherare notizie false o tendenziose, sia destinata inevitabilmente a fallire.

I concetti chiave di questa teoria sono:

– chi diffonde sciocchezze oralmente, su carta stampata oppure online, ha bisogno di pochi strumenti (a volte, nessuno). I costi, in termini di tempo e di denaro sono relativamente bassi (a volte, nulli)

– le verità più semplici sono più complesse da dimostrare

– si può sicuramente smascherare un tesi infondata se si hanno le competenze per farlo, ma la verità apparirà soltanto davanti a chi ha altrettante competenze per comprenderla

– spalare il “letame dialettico” prodotto da un falso sapiente richiede sempre molto, ma molto più tempo, energia e denaro di quanto ne occorra per generare quel letame.

Nel 2013, alcuni di questi concetti sono stati ripresi da un programmatore informatico di Faenza, Alberto Brandolini che, ispirato dalla lettura di “Pensieri lenti e veloci”, del premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, li ha resi popolari in tutto il mondo, nella sua personale formulazione sintetica, nota a tutti come “Brandolini’s law” (legge di Brandolini) o “bullshit asymmetry principle” (principio dell’asimmetria delle str****te): “l’energia necessaria a confutare una sciocchezza è un ordine di grandezza superiore a quella necessaria a produrla”. I prodromi di questa arrendevole constatazione si possono reperire già negli scritti di un economista francese, Frédéric Bastiat che, nel 1845 – nella sua raccolta “Sofismi Economici” – affermava: “i nostri avversari hanno un importante vantaggio su di noi: possono, in poche parole, esporre una verità incompleta; mentre a noi, per mostrare ch’è incompleta, occorrono lunghe ed aride dissertazioni”. E forse, ancor prima (1786), l’ecclesiastico inglese George Horne aveva fatto riflessioni dello stesso tenore nelle sue “lettere sulla mancanza di fede”: “L’impertinenza e l’ignoranza possono porre una domanda in tre righe, alla quale la risposta costerà trenta pagine di apprendimento e ingegnosità. Fatto ciò, l’anno prossimo la stessa domanda verrà posta trionfalmente di nuovo, come se non fosse mai stato scritto nulla sull’argomento. […] le persone in generale, per una ragione o per l’altra, preferiscono le obiezioni brevi alle risposte lunghe”.

Uno degli ambiti dove è più facile avere un riscontro della validità della teoria della montagna di merda è quello dei classici complotti dell’era di Internet: le scie chimiche, l’11 settembre, lo sbarco sulla Luna, la Terra piatta, i vaccini dannosi, le false cure per il cancro (solo per citarne alcuni). In genere, chi propaganda queste teorie del complotto, anche quando si trova di fronte esperti con una solida formazione accademica, richiede sempre l’intervento di ulteriori spiegazioni e, con la tecnica del Gish gallop, coinvolge altre discipline, altre situazioni, altri concetti (nemmeno tutti sbagliati) per cui occorre investire – proprio dal punto di vista economico – una quantità di risorse tali che nessuno riterrà mai opportuno investire, per dipanare la matassa.

La domanda ora sorge spontanea: esiste un modo per difendersi dalla tecnica del Gish gallop? Non proprio, però si può rendere la vita difficile a chi intenda utilizzarla o predisporre un ambito entro il quale non sia possibile ricorrere a questo stratagemma. A spiegare la strategia migliore è proprio la stessa Eugenie Scott, la prima che utilizzò il termine “Gish gallop”. L’antropologa, ex direttrice del National Center for Science Education sostiene infatti che, in generale, è molto più facile usare il Gish gallop in un dibattito libero, rispetto a quanto invece succede nel contesto di una discussione in forma strutturata (tempi da rispettare, temi da non trattare, persone da non coinvolgere, regole di condotta da osservare). Quindi quest’ultima forma di organizzazione del confronto è sempre da preferire in presenza di persone che non sono interessate ad una dibattito costruttivo, quanto invece ad un prevalere sulle ragioni dell’altro. Un’altra strategia è quella di confutare in anticipo gli argomenti comunemente usati da chi fa uso di questa tecnica scorretta, prima che l’avversario abbia l’opportunità di “lanciarsi al galoppo”.

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