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Il commercio promuove la pace e la libertà? Per Krugman può essere un’arma a doppio taglio

ll Premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, si è chiesto se il commercio porti davvero alla pace e alla libertà. “Non sempre, anzi è un principio che può essere un micidiale boomerang”

Il commercio promuove la pace e la libertà? Per Krugman può essere un’arma a doppio taglio

Dove vogliamo andare? Stiamo assistendo in questi giorni, tra Stati Uniti e alcuni paesi europei, a una percepibile divaricazione delle proposte sul che fare in Ucraina. È anche naturale che sia così, vista la natura di questi paesi con una lunga tradizione di dialettica democratica e considerate anche le poste in gioco differenti riguardo alle conseguenze del che fare nell’Est Europa.

La posizione americana va sempre più nettamente delineandosi. Per comprenderla, stiamo seguendo in modo particolare gli interventi, molto frequenti, di Paul Krugman. Il premio Nobel rispecchia in modo lucido e ragionato la posizione dell’area liberal moderata alla quale sembra fare riferimento anche l’amministrazione Biden, pur con qualche fuori copione del Presidente. E Krugman si sta innervosendo.

Il grande enigma: la Germania

E sta iniziando a perdere la pazienza con la Germania. Come sappiamo, la Germania è il paese che ha subito non uno shock, ma un doppio shock il 24 febbraio. Ed ha barcollato.

Può essere che di fronte a questo doppio formidabile colpo al modo di porsi della nazione nel mondo, l’opinione pubblica tedesca e la politica abbiano reagito con una certa emotività che non ti aspetteresti da una comunità solida e assertiva come quella tedesca. Una emotività che, peraltro, avevamo già visto, con sorpresa di molti, anche con il caso dei profughi siriani. Dunque, sul momento, aiuti militari agli ucraini, riarmo, cancellazione del gasdotto lungo il Baltico, sanzioni dure e, perché no?, anche il gas.

Poi succede che, raffreddati i sentimenti di furia e di sdegno, si inizia a pensare, a valutare, a soppesare e i tedeschi tornano ad essere tedeschi: “primum prosperitas, deinde…” (completate a piacere). Da qui il grande disappunto di Krugman e dei politici di formazione anglo-sassone.

Nell’intervento che vi proponiamo in versione italiana, Krugman fa a pezzi uno dei pilatri della concezione tedesca della pace e della guerra che è diventata un vangelo dopo il disastro delle due guerre mondiali. Cioè, la convinzione che i commerci e le relazioni economiche strette portino pace e fratellanza tra i popoli e scongiurino il ricorso alle armi per risolvere le controversie.

Un’idea questa che è stata anche del pensiero illuminista e che troviamo ampiamente espressa, per esempio, in Voltaire. Ma, come dice Krugman, non è sempre vera, anzi è un principio che può essere un micidiale boomerang.

Ma seguiamo adesso il ragionamento di Krugman.

Un precedente storico: la Guerra di Secessione americana

Il 12 aprile 1861 l’artiglieria confederata aprì il fuoco contro Fort Sumter, dando così avvio alla Guerra di secessione americana. Alla fine, la guerra si trasformò in una catastrofe per il Sud, che vide perire più di un quinto della sua gioventù. Ma perché i secessionisti ricorsero alla guerra?

Una ragione era la diffusa convinzione di possedere un’arma economica micidiale. L’economia dell’Inghilterra, all’epoca la principale potenza del mondo, era profondamente dipendente dal cotone prodotto nel Sud confederato.

Pertanto, i politici del Sud ritenevano che una penuria nell’offerta di cotone avrebbe costretto l’Inghilterra a intervenire a fianco della Confederazione. In effetti, all’inizio della guerra civile ci fu una “carestia del cotone” che gettò nella recessione l’industria cotoneria inglese con migliaia di posti di lavoro andati in fumo.

Alla fine, naturalmente, l’Inghilterra rimase neutrale – anche perché i lavoratori inglesi considerarono la guerra civile come una battaglia morale contro la schiavitù e appoggiarono la causa dell’Unione senza riguardo per le sofferenze apportate alla loro condizione dalla guerra.

La dipendenza economica come arma bellica

Perché racconto questa vecchia storia? Perché essa presenta un evidente analogia con l’invasione russa dell’Ucraina. Sembra abbastanza chiaro che Vladimir Putin abbia fatto conto sulla dipendenza dell’Europa, e della Germania in particolare, dal gas naturale russo così come i proprietari degli schiavi facevano conto su Re Cotone.

L’idea comune ai confederati e a Putin era ed è quella che una forte di dipendenza economica avrebbe costretto le nazioni ad acconsentire alle loro ambizioni militari.

E non avevano del tutto torto. La scorsa settimana ho rimproverato la Germania per la sua scarsa disponibilità a fare sacrifici economici nell’interesse della libertà ucraina. Non si deve, però, dimenticare che anche alla vigilia della guerra la risposta della Germania ai reiterati appelli dell’Ucraina di aiuto militare era stata patetica.

Il Regno Unito e gli Stati Uniti si erano affrettati a fornire armamenti letali, inclusi centinaia di missili anti carro che sono stati così fondamentali nel respingere l’attacco della Russia su Kiev. La Germania offrì, tirando per le lunghe la consegna … 5.000 elmetti.

E non è difficile immaginare, ad esempio, che, se in America ci fosse ancora Presidente Donald Trump, la scommessa di Putin di usare l’arma del commercio internazionale come fattore di coercizione e non di unione, avrebbe avuto buone possibilità di riuscire.

Il commercio è commercio

Se voi pensate che stia cercando di spronare la Germania affinché si vergogni e divenga un miglior difensore della democrazia, non vi sbagliate affatto. Ma sto anche cercando di dimostrare un punto più generale sulla relazione tra la globalizzazione e la guerra, che non è così semplice come molti hanno detto.

Da lunga data c’è il convincimento nelle élite occidentali che il commercio sostenga la pace, e viceversa. La tradizionale spinta dell’America per la liberalizzazione degli scambi, che era iniziata anche prima della Seconda guerra mondiale, in parte era un progetto politico: Cordell Hull, Segretario di Stato di Franklin Roosevelt, credeva fermamente che tariffe più basse e un accresciuto commercio internazionale avrebbero aiutato a gettare le basi di una pace stabile.

Anche l’Unione Europea è un progetto allo stesso tempo economico e politico. Le sue origini affondano nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, istituita nel 1952 con l’esplicito obiettivo di rendere le industrie francese e tedesca così interdipendenti dal rendere impossibile un’altra guerra europea.

Le radici dell’attuale vulnerabilità della Germania risalgono agli anni ’60, quando il Governo della Germania occidentale cominciò a perseguire la Ostpolitik– la “politica orientale” – cercando di normalizzare le relazioni, comprese quelle economiche, con l’Unione Sovietica, nella speranza che una crescente integrazione della Russia con l’Occidente avrebbe rafforzato la società civile e introdotto la democrazia in Oriente. E così il gas russo nel 1973 cominciò a fluire verso la Germania. 

Commercio e regimi autoritari

È dunque vero che il commercio promuove la pace e la libertà? Certamente, succede in molti casi. In altri, tuttavia, i governi autoritari più preoccupati del potere che della prosperità possono iniziare a considerare l’integrazione economica con altre nazioni come una leva per cattive azioni, ipotizzando che le democrazie con un forte interesse economico nei loro regimi chiuderanno un occhio sulle loro reiterate malefatte.

Non sto parlando solo della Russia. L’Unione Europea per molti anni ha tollerato l’ungherese Viktor Orban che smantellava in modo sistematico la democrazia liberale. Quanta di questa debolezza verso Orban può essere imputata agli investimenti delle grandi imprese europee, specialmente tedesche, per realizzare esternalizzazioni con economie di costi?

E poi c’è la questione realmente grande: la Cina. Xi Jinping considera la stretta integrazione della Cina con l’economia mondiale come un mezzo per scongiurare politiche avventurose – come un’invasione di Taiwan – oppure per assicurarsi una debole risposta dell’Occidente a tali politiche? Nessuno lo sa.

La priorità della sicurezza nazionale

Ora, non sto suggerendo un ritorno al protezionismo. Sto suggerendo che le preoccupazioni di sicurezza nazionale in relazione al commercio – le vere preoccupazioni, non le versioni farsesche come il richiamo alla sicurezza nazionale di Trump per imporre tariffe sull’alluminio canadese – devono essere considerate più seriamente di quanto io, assieme ad altri, ero solito reputare.

Nell’immediato, tuttavia, le nazioni rispettose della legge devono dimostrare di non poter essere, con l’argomento del commercio, dissuase dal difendere la libertà. Gli autocrati possono credere che l’esposizione economica nei confronti dei loro regimi autoritari renderà le democrazie titubanti nel difendere i loro valori. Dobbiamo dimostragli che sbagliano.

E ciò in pratica significa che l’Europa deve muoversi rapidamente per tagliare le importazioni del petrolio e del gas russo e che l’Occidente ha bisogno d’offrire all’Ucraina le armi di cui ha bisogno, non solo per tenere Putin alla larga, ma per ottenere una vittoria chiara.

La posta in gioco è molto più grande della sola Ucraina.

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Da Paul Krugman, Trade and Peace: The Great Illusion, The New York Times, 11 aprile 2022

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