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Globalizzazione, tecnologie, mercati, clima: per Friedman (3 premi Pulitzer) ce la faremo

Thomas Friedman, tre volte premio Pulitzer, parla del suo ultimo libro “Grazie del ritardo”, una guida ottimistica nell’età delle grandi accelerazioni (nelle tecnologie,nei mercati, nei cambiamenti climatici) nella quale emerge la convinzione che, malgrado le tante difficoltà, il mondo cela farà anche stavolta

Globalizzazione, tecnologie, mercati, clima: per Friedman (3 premi Pulitzer) ce la faremo

Chi è Thomas Friedman

Thomas Friedman è uno dei più ammirati e seguiti commentatori del giornalismo globale. Ha vinto tre premi Pulitzer, due come inviato in Medio Oriente – prima per il Washington Post e poi per il New York Times – e un terzo, nel 2002, per i suoi reportage dall’Italia. Originario di una famiglia ebraica di Minneapolis (dove è nato nel 1953), tra i maggiori esperti mondiali di politica mediorientale, negli ultimi dieci anni ha rivolto la sua attenzione ai temi della globalizzazione e della mutazione climatica. Sulla globalizzazione ha scritto tre libri tradotti in italiano da Mondadori. Uno di questi, Il mondo è piatto, ha ottenuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Steve Jobs, che aveva sviluppato una fortissima avversione nei confronti del giornalisti che soleva prendere a pesci in faccia, ricercava spesso l’opinione di Friedman su temi etici e di politica generale.

Nell’ultimo scorcio di 2016 è uscito l’ultimo libro di Friedman Thank you for being late: an optimist’s guide to thriving in the age of accelerations (grazie del ritardo: la guida di un ottimista per prosperare nell’era delle accelerazioni). La tesi del libro è questa: la nostra capacità di adattamento sarà messa a durissima prova dalle tre accelerazioni che stanno imponendosi con la logica delle legge di Moore: l’accelerazione della tecnologia, quella del mercato e quella del cambiamento climatico, ma, alla fine, ce la faremo ancora una volta. Un messaggio ottimistico elaborato prima dell’elezione di Donald Trump che è stata vissuta malissimo dal giornalista del New York Times. In questa intervista a Pamela Paul, editor del New York Times Book Review e conduttrice del relativo podcast, Friedman parla per la prima volta del suo libro dopo l’elezione di Trump. Chi ha la pazienza di seguirlo, in questa trascrizione/traduzione curata da Ilaria Amurri, uscirà arricchito dalla sua analisi a tutto tondo sullo stato del mondo in cui viviamo.

Il giornalismo esplicativo

D: Tom, grazie per essere qui. Dunque, innanzitutto dovrei chiederti di spiegare il titolo.
TF: Circa tre anni fa, non ricordo esattamente il giorno, dovevo vedere qualcuno a pranzo, ma è arrivato con 25 minuti di ritardo. Lui mi fa, scusa Tom, ma sai, il traffico. Era Peter Corselle, un investitore nel campo delle energie. Gli ho risposto del tutto spontaneamente “Nessun problema Peter, grazie del ritardo. A causa del tuo ritardo ho potuto orecchiare delle conversazioni molto interessanti! Ho osservato le persone all’ingresso, fantastico. E soprattutto ho potuto mettere insieme un paio di idee che mi ronzavano in testa da un mese. Quindi grazie per essere arrivato in ritardo”. Senza volerlo era stato costretto a fermarmi e pensare. Una pausa tanto involontaria quanto proficua. All’inizio del libro ho collocato la mia citazione preferita. È di Dov Seidman che ha detto “Sai, quando premi il tasto pausa di un computer questo si ferma, ma quando premi quello di un essere umano, questo si accende”. Questo si collega anche al tema del libro che è l’era delle accelerazioni. Un’era in cui tutto sta assumendo una nuova forma e se c’è un momento in cui abbiamo bisogno di fermarci, ripensare e reimmaginare è proprio questo.
D: Cominci il libro descrivendoti come un giornalista esplicativo. Per chi non sa che esistono diversi tipi di giornalisti, anzi molti li detestano e basta, potresti spiegare cosa si intende per giornalista esplicativo?
TF: Tutti entrano in questa professione con motivazioni diverse, alcuni desiderano indagare, altri scrivono di sport, letteratura, politica o scienza. Personalmente preferisco essere un traduttore dall’inglese all’inglese, prendere questioni molto complesse e analizzarle, innanzitutto per comprenderle in prima persona, in modo poi da farle capire agli altri. Oggi questo è un tipo di giornalismo più necessario che mai perché il mondo è sempre più veloce e complesso, la gente è molto impegnata e ha bisogno di essere orientata. È quello che sto cercando di fare.
D: Come sei diventato un giornalista esplicativo, visto che hai cominciato come corrispondente estero?
TF: Sono una persona molto curiosa. All’inizio del libro ho menzionato uno dei miei professori che ha detto “non puoi pensare all’interno di uno schema e non dovresti neppure pensare al di fuori di uno schema. Devi pensare senza uno schema”. Ed è proprio questo il mio modo di pensare, quindi se ad esempio vado in Siria per il New York Times, mi interesso a quello che succede dal punto di vista ambientale, nella comunità tecnologica, nel commercio, nella comunità islamica. Mi interessano tutte queste cose e questo è molto importante in questo momento, perché non si può comprendere una Siria in rivolta se non si capisce che c’è la siccità da quattro anni, da prima che cominciasse la rivolta, che milioni di persone hanno dovuto lasciare la loro terra, che non avevano i cellulari e via dicendo. Vedi, tutti questi fattori sono correlati, quindi penso che per spiegare in modo efficace sia necessario mettere insieme diverse situazioni.

Le tre forze di accelerazione

D: In questo libro presenti tre forze molto diverse, le forze di accelerazione del mondo, e ne mostri l’interconnessione. Quali sono queste forze?
TF: Dunque, personalmente penso che siano il mercato, Madre Natura e la legge di Moore. Dunque, la legge di Moore, postulata circa 52 anni fa da Gordon Moore (il cofondatore di Intel), dice che la velocità e la potenza dei microchip raddoppia all’incirca ogni 24 mesi e sorprendentemente è andata più o meno così e questo fenomeno sta davvero trascinando tutto il resto. Andrew McAfee ed Eric Brynjolfsson nel loro libro hanno usato l’immagine dell’uomo che ha inventato gli scacchi per spiegare la crescita esponenziale. Quest’uomo diede il gioco al re, il quale disse “come posso ricompensarti buon uomo?” e lui disse “vorrei sfamare la mia famiglia, quindi dovresti prendere un chicco di riso e metterlo sul primo quadrato della scacchiera, due sul secondo, otto sul terzo, sedici sul quarto e così via; in questo modo la mia famiglia sarebbe a posto”. Il re disse “così sia”, senza accorgersi che raddoppiando qualcosa per 63 volte il numero che si ottiene è circa 8 quintilioni. Quindi quello che dicono Andy ed Eric ha un fondamento e mi piace molto questa immagine della scacchiera. Il problema è che adesso siamo nella seconda metà della scacchiera, quando il raddoppiamento comincia a diventare incredibilmente potente e si cominciano a vedere cose molto strane come auto che si guidano da sole, macchine con tutti i cinque sensi ed è questo il punto a cui siamo arrivati come aveva previsto la legge di Moore.
Il mercato per me corrisponde alla globalizzazione, ma non quella dei nostri nonni, non i container sulle navi, quel tipo di roba in realtà sta diminuendo, ma una globalizzazione digitale. È Facebook, è Twitter, è Instagram, è PayPal; tutti questi flussi digitali che stanno diventando il centro della nostra vita, del nostro commercio, della nostra educazione, dei nostri mezzi di comunicazione, sono esplosi.
Infine Madre Natura. È il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’aumento demografico nei Paesi in via di sviluppo e anche questi fattori sono in forte accelerazione.
Dunque io penso che queste tre accelerazioni siano correlate perché la legge di Moore guida la globalizzazione, che a sua volta determina il cambiamento climatico. Si tratta di processi che sono completamente interconnessi e non stanno solo cambiando il mondo, gli stanno dando una nuova forma.
D: Facci un esempio di come sono collegate queste tre forze, ad esempio mi ha colpito in particolare il discorso sul cambiamento climatico in Niger.
TF: Esatto. Una parte delle ricerche, condotte durante la realizzazione di un documentario, sono cominciate nel nord del Senegal dove abbiamo iniziato a seguire i migranti, i migranti climatici. In questi villaggi del Senegal, oggi, non c’è più nessuno in età compresa fra il 18 e i 60 anni. C’erano troppe persone in una terra che, a causa del cambiamento climatico, non può più contenerle. Quindi si sono spostati dal Senegal fino al Niger, diventando vittime di una tratta di uomini. Un commercio orrendo coordinato via WhatsApp dai trafficanti di persone. Questi migranti sono stati indirizzati verso la Libia per poi essere avviati verso l’Europa. Alla radice questo enorme fenomeno di immigrazione c’è una causa climatica, una componente tecnologico; queste tre cose, immigrazione, clima e tecnologia, interagiscono strettamente. Per questo non si può capire bene che cosa sta succedendo se non si prendono in considerazione tutti e tre i fattori. Il presidente Trump ha iniziato il suo mandato schierandosi contro l’immigrazione, ma contemporaneamente non si è dimostrato favorevole a un intervento per far fronte al cambiamento climatico. Se si vuole ridurre l’immigrazione bisogna affrontare le forze climatiche che spingono quelle persone a migrare verso altri luoghi, perché di fatto ne arriveranno sempre di più, non di meno.

La crisi della classe media: l’esempio del Minnesota

D: Nel libro parli anche di come questi fattori di accelerazione stanno influenzando la classe media bianca del Minnesota, lo Stato dove tu sei cresciuto.
TF: Beh, pensa come queste accelerazioni stanno influenzando i lavoratori bianchi che hanno studiato alle superiori o al college! Siccome io vengo da una cittadina alla periferia di Minneapolis, ho visto questo fenomeno dispiegarsi nel Minnesota: nei supermercati si parla in spagnolo e alla cassa c’è un somalo. La gente non si si sente più a casa porpria. Io stesso, che pur amo questa grande diversità, capisco che è stato un grande cambiamento per le persone. Poi vanno nel bagno degli uomini e vedono a loro fianco qualcuno che sembra una donna, ma che in realtà è un uomo. Poi vanno al lavoro, dove c’è un robot piazzato vicino a loro che sembra studiare il modo di portargli via il posto. Quindi se pensiamo alle due cose che ci tengono ancorati al mondo, il luogo in cui viviamo, cioè la nostra comunità e dunque la casa, e il lavoro svolgiamo che definisce la nostra identità, succede che queste tre accelerazioni stanno sgretolando queste certezze e quindi la gente percepisce una grande instabilità.
D: Fai qualche esempio di come queste forze fanno sentire la classe media del Minnesota come se non fosse a casa propria. Anche tu nei fai parte, visto che la tua casa è l’America. Anche tu non ti senti più a casa, ma per motivi molto diversi. Per via di Donald Trump, vero?
TF: Io sto con coloro che abbracciano il pluralismo, che abbracciano la diversità di genere e quella etnica e questo mi crea una grande tensione con quello che sta succedendo. Il mio libro ha una canzone di sottofondo; si può aprire il libro e ascoltarla.
D: Possiamo ascoltarla? Che canzone è?
TF: È una canzone di Brandi Carlile che si chiama Eye e il ritornello dice “ho avvolto il tuo amore intorno a me come una catena, ma non ho mai avuto paura che morisse, puoi ballare dentro un uragano, ma solo stando nell’occhio del ciclone”. Penso che oggi queste accelerazioni stiano costringendo tutti a ballare in un uragano. Donald Trump è arrivato e ha detto “io sarò il muro che combatterà l’uragano, fermerò queste forze”. Il mio libro parla proprio dell’occhio del ciclone, che sarebbe la comunità, una comunità sana che può muoversi con la tempesta, trarne energia e creare una piattaforma di stabilità dinamica al suo interno.

Il caso del Midwest

D: Sembra davvero allettante! Hai sottotitolato il libro “La guida di un ottimista per prosperare nell’era delle accelerazioni. Mi piacerebbe sapere un po’ meglio come tu possa essere così ottimista, perché quando sento parlare di questi cambiamenti sempre più veloci divento incredibilmente ansiosa al loro solo pensiero.
TF: Anch’io a volte mi sento sopraffatto. Sono cresciuto in questa strana cittadina vicino a Minneapolis. La storia è questa, gli ebrei di Minneapolis negli anni ’40 e ’50 occupavano la zona nord insieme alla comunità afroamericana. Gli ebrei se ne andarono a metà degli anni ’50, compresi i miei genitori, e si spostarono in un’unica zona periferica, St. Louis Park. Fra la metà e la fine degli anni ’50, da un momento all’altro, il centro passò dall’essere al 100% protestante, cattolico e scandinavo ad essere ebreo per il 20% e per l’80% protestante, cattolico e scandinavo. Quindi se la Finlandia e Israele facessero un figlio, quel figlio sarebbe St. Louis Park. In questa incredibile esplosione e interazione di gruppi, ci sono stati giorni belli e giorni brutti, ma abbiamo imparato a convivere. C’è stata un’incredibile esplosione di creatività. Sono cresciuto nello stesso quartiere dei fratelli Coen, Al Frenken, Norman Ornstein, Michael Sandel, Peggy Orenstein, Alan Wiseman. Frequentavamo tutti la stessa scuola e nel mio libro racconto la storia di come è stata costruita questa comunità e di come abbiamo imparato a convivere. Poi sono ci sono tornato anni dopo. Oggi la mia scuola è frequentata per il 50% da bianchi, protestanti e cattolici, per il 10% da ebrei, per un altro 10% da ispanici e per il 30% da somali afroamericani. Oggi la sfida è l’integrazione, così come nel resto degli Stati Uniti e dell’Occidente. Le stesse etiche di integrazione del Midwest, che hanno funzionato per questa popolazione bianca giudaico-cristiana, ora devono funzionare anche con queste nuove comunità. Nel libro spiego che vedo segnali molto positivi, ma non sono ancora in grado di pronunciarmi a questo proposito, ma questa è la sfida e questa è l’America di oggi, questo è il mondo di oggi. A chiunque voglia costruire muri e tutto il resto non posso che augurare buona fortuna, perché significa disconnettere un mondo che si sta connettendo.
D: Pensi che chi ha votato Trump (ovviamente stiamo cedendo a un’ampia generalizzazione) si renda conto che quel concetto di comunità è diverso da quello di Hillary Clinton, che ha una visione più riconducibile al concetto di villaggio?
TF: Prendiamo gli estremi di entrambi, l’estrema destra e l’estrema sinistra. Io penso che l’America si trovi fra il centro destra e il centro sinistra. Il fatto è che alcuni fra questi cambiamenti avvengono troppo velocemente. Il mio amico Dov Seidman dice che non c’è nessuna legge di Moore per l’adeguamento morale. Ci vuole molto tempo. Non dobbiamo solo creare una nuova visione morale del mondo, dell’Altro e dell’Estraneo;  la questione è: come si trova un equilibrio? Ma io rispetto il fatto che la gente senta di non avere più un lavoro sicuro e senta anche di avere una casa piena stranieri che sono arrivati tutti insieme, non uno alla volta, ma tutti contemporaneamente. Voglio lavorare con quelle persone, coinvolgerle, ragionare su queste cose. Forse in effetti abbiamo bisogno di rallentare sotto alcuni punti di vista, per rimetterci al passo con noi stessi, ma c’è un elemento di base che non riesco a inquadrare e che mi preoccupa. Un deputato del Minnesota ha detto che chi è cresciuto in Minnesota negli anni ’60 e ’70 avrebbe avuto bisogno di un piano per fallire. Tutte le condizioni erano favorevoli: c’era un enorme potere industriale, c’erano molti posti di lavoro nelle fabbriche, in continuo aumento. Le cose non potevano che andare a gonfie vele. Oggi invece ci vuole un piano per sopravvivere. Nel 1992 Bill Clinton ha detto a un convegno che se si lavora duramente e si gioca secondo le regole si può entrare a far parte alla classe media. Questo non è più vero, ora bisogna lavorare di più e più velocemente e ciò che mi preoccupa è cosa sarà considerato umano in un’epoca in cui le macchine hanno tutti e cinque i sensi.

La politica

D: E se le cose cambiassero ancora?
TF: La mia posizione politica è molto eclettica. Nel mio libro spiego che, in parte, appoggio la sinistra di Bernie Sanders. Penso che l’assistenza sanitaria dovrebbe essere finanziata dallo Stato. Allo stesso tempo sono d’accordo con gli editoriali del Wall Street Journal, perché penso che dovremmo abolire tutte le tasse sulle imprese e sostituirle con una tassa sulle emissioni di CO2, una tassa sulle armi, una tassa sullo zucchero e una piccola tassa sulle transazioni finanziarie. Cosa significa questo? Significa che dobbiamo diventare radicalmente imprenditoriali al fine di pagare le reti di sicurezza di cui avremo bisogno e penso che questa debba essere la sfida per i liberali, capire che abbiamo bisogno di queste reti di sicurezza. Allo stesso tempo, però, bisogna essere in grado di generare le risorse di cui la gente ha bisogno e penso che questa sia la direzione in cui sta andando la politica. La mia idea politica, di cui parlo ampiamente nel libro, è che tutti i partiti stiano saltando in aria, perché sono progettati far fronte alle questioni come la rivoluzione industriale, il New Deal, l’inizio della rivoluzione dei computer e i diritti civili, quelli di genere e quelli razziali. Oggi le tre questioni da gestire sono queste tre accelerazioni e come trarne vantaggio il più possibile.
D: Questo mi riporta alle 18 idee di cui parli nel libro riguardo a ciò che dovrebbe fare il governo americano. Una di queste è la copertura sanitaria statale?
TF: Sì, un’altra è l’eliminazione della tassa sulle imprese. Poi raddoppierei o triplicherei anche il credito d’imposta sul reddito (EITC). Voglio un lavoro che sia ricompensato. Molti parlano di reddito di cittadinanza (Universal Basic Income), ma a me non sembra giusto sul piano della dignità; piuttosto vorrei trovare dei modi per incrementare i posti di lavoro, come misura integrante della rete di sicurezza, in modo che più persone entrino a far parte di questo mondo. Io insisterei, ma questa è solo una fantasia, per avere università di primo livello che durino tre anni. Oxford ha un’università di primo livello: riescono a insegnare alle persone in tre anni. Quindi perché non far risparmiare a tutti il 25% dei costi?
D: E migliorare la scuola superiore.
TF: Esattamente, questa è la nostra sfida, ma allo stesso tempo se diciamo alla gente che il nuovo contratto sociale prevede che se vuoi lavorare per tutta la vita devi anche studiare per tutta la vita. Allora penso che non bisognerebbe pagare nessuna tassa per l’istruzione superiore.
D: Quali sono altri fra i 18 punti?
TF: La tassa sulle emissioni di anidride carbonica. Dobbiamo affrontare questa questione ambientale. Ci vorrebbe una commissione per la regolamentazione, che si ispiri alle altre regolamentazioni. Guarderei di nuovo al Dodd-Frank Act. C’è una linea molto sottile che divide la prevenzione dell’incoscienza e quella dell’assunzione di rischi. A volte mi sembra che abbiamo oltrepassato questo limite, quindi mi piacerebbe prevenire l’incoscienza, ma abbiamo davvero bisogno di liberare l’energia imprenditoriale di questa economia per prenderci cura delle persone. Penso che sempre più persone saranno lasciate indietro, il mondo è davvero troppo veloce.

L’ottimismo

D: Dunque, vorrei chiudere con una nota positiva. Visto che il tuo libro si chiama appunto “Grazie per il ritardo: la guida di un ottimista per crescere nell’era delle accelerazioni”, dicci qualcosa di ottimista da tenere a mente visto il risultato delle elezioni di quest’anno.
TF: Beh, avendo scritto questo libro posso solo dire che è fantastico come quante persone oggi siano in grado di partecipare, e intendo partecipare in senso molto ampio, alla politica, all’economia, ma anche allo sviluppo. Questo è davvero un libro su come noi abbiamo arruolato altri popoli, tutto il mondo si è connesso e noi abbiamo messo insieme tutti questi cervelli, ad esempio in India, affinché possano aiutarci a risolvere i nostri problemi, era il periodo del Millennium Bug, se ricordi. Quello che sta succedendo oggi è che adesso risolvono gli stessi problemi attraverso la tecnologia e con modalità, costi e piattaforme molto più economici dei nostri. Penso che stiamo entrando in un mondo in cui così tante persone saranno in grado di partecipare e fare cose, cose buone. Ci saranno anche delle ondate e dovremo gestirle, ma sono davvero felice di vedere un mondo in cui così tante persone possono partecipare e penso che il risultato finale di questo sarà molto positivo, purché troviamo il modo di unire tutti all’interno di una comunità, perché non c’è niente di più importante di un posto chiamato casa.
D: Va bene, diffondiamo un po’ di gioia e di ottimismo. Grazie infinite Tom.
TF: È stato un piacere, grazie di tutto.

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