Condividi

Conti pubblici: investimenti e riforme valgono più della flessibilità

Il Direttore della School of European Political Economy della Luiss mette a fuoco “Opportunità e rischi dell’economia italiana nel rinnovato quadro europeo”

Conti pubblici: investimenti e riforme valgono più della flessibilità

Il superamento delle tensioni politico-istituzionali che hanno caratterizzato l’Italia negli ultimi quattordici mesi apre nuove prospettive di crescita economica e di rapporti cooperativi con le autorità europee. Al riguardo, la recente attribuzione dell’Economia al membro italiano designato – Paolo Gentiloni – per la nuova Commissione europea è un segnale importante. Tuttavia, queste promettenti prospettive non si tradurranno automaticamente in progressi effettivi. Per esempio: il perimetro del portafoglio Economia assegnato a Gentiloni è diverso da quello per gli Affari economici detenuto nella vecchia (e ancora operativa) Commissione da Pierre Moscovici; soprattutto, le competenze di Gentiloni sono più limitate rispetto a quelle attribuite a Valdis Dombrovskis quale vicepresidente esecutivo designato con delega per una delle tre aree-guida (appunto l’Economia) che sono ritenute cruciali dalla nuova Commissione. Il fatto che Dombrovskis debba svolgere una funzione di coordinamento anche – ma non solo – nei confronti del perimetro di azione di Gentiloni mostra quanto sia importante che l’Italia non forzi i vincoli europei e che – al contempo – sappia sfruttare le molte opportunità aperte dagli orientamenti generali della nuova Commissione. Tali orientamenti sono, del resto, ben espressi nel programma redatto dal nuovo presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, in occasione della sua nomina da parte del Parlamento europeo.

Considerazioni analoghe e complementari valgono per l’azione del governo italiano. Per rafforzare l’effettiva crescita economica italiana, la nuova coalizione governativa fra Movimento Cinque Stelle (M5S) e Partito Democratico dovrà:

  • superare la latente conflittualità interna, evitando così di riprodurre in nuove forme il preesistente clima di incertezza politica;
  • varare un’efficace manovra economica che stimoli uno sviluppo sostenibile di breve e medio-lungo periodo e che sia, al contempo, compatibile con gli impegni europei e con una riacquisita centralità dell’Italia nell’Unione Europea (UE).

In questa Nota mi concentrerò sul secondo punto, tenendo distinti i problemi di breve termine da quelli di medio-lungo termine che pure, nella realtà, sono fortemente intrecciati.

COME ARRIVA L’ITALIA ALLA MANOVRA DI BILANCIO

Si parta dal breve termine, facendo riferimento alle prossime scadenze per il varo della Legge di bilancio per il 2020.

Gli aggiustamenti attuati nel luglio scorso dal governo M5S-Lega al fine di bloccare la procedura europea per squilibri eccessivi del bilancio italiano rispetto al debito pubblico (si veda la relativa legge di Assestamento di bilancio) avevano ripristinato le condizioni perché il rapporto deficit pubblico/PIL a fine 2019 si attestasse intorno alla soglia dell’1,9% (secondo la stima governativa) o del 2% (secondo quella della Commissione). Si trattava, comunque, di valori prossimi a quelli indicati nella Legge di bilancio per il 2019 (approvata a dicembre 2018). Il risultato appariva realizzabile anche in presenza di un tasso di crescita del PIL italiano inferiore allo 0,5%.

È molto probabile che, alla fine dell’anno in corso, tale previsione si riveli troppo prudente grazie a due fattori non includibili nella manovra di assestamento del bilancio: l’effettivo utilizzo dei due interventi-bandiera, varati dal precedente governo (“Reddito di cittadinanza” e “Quota 100”), si sta traducendo in spese inferiori agli stanziamenti per il 2019; le entrate derivanti da eventi irripetibili e – soprattutto – dalle imposte indirette (IVA) grazie all’introduzione della fatturazione elettronica, stanno segnando forti incrementi. A metà luglio 2019 l’Ufficio Parlamentare di Bilancio aveva stimato, sulla base di queste dinamiche e della tendenza al rallentamento nel tasso di crescita, che il rapporto deficit pubblico/PIL per il 2019 potesse subire ulteriori diminuzioni attestandosi allo 1,8% del PIL.

Durante l’estate, le aspettative di una minore spesa pubblica e di maggiori entrate si sono rafforzate. Le stime più recenti prevedono una diminuzione della spesa per circa 5 miliardi di euro e un aumento delle entrate per circa 2,5-3 miliardi di euro. Si aggiunga che gli stessi aggiustamenti macroeconomici appena descritti, combinati con gli esiti delle elezioni europee di fine giugno e con l’atteso ritorno a politiche monetarie molto espansive da parte della Banca centrale europea (ECB), avevano già innescato riduzioni nella struttura dei tassi di interesse sui titoli italiani del debito pubblico nello scorso mese di luglio; tale tendenza ha subito un’ulteriore accelerazione con il varo del nuovo governo. È quindi ragionevole prevedere che, se la ECB ripristinerà le politiche monetarie non convenzionali nella misura attesa dagli operatori di mercato, alla fine del 2019 gli oneri finanziari sul servizio del debito pubblico italiano diminuiranno di circa 500 milioni di euro rispetto a quanto previsto dalla passata Legge di bilancio.

A meno di svolte clamorose da parte dell’amministrazione Trump in tema di commercio internazionale e del governo britannico in tema di Brexit, gli ultimi mesi del 2019 segneranno un rallentamento nelle economie dell’euro-area. Pur considerando che – anche in conseguenza di questo rallentamento – il tasso di crescita del PIL italiano per il 2019 sarà molto inferiore alle previsioni del passato governo (si attesterà, al più, intorno allo 0,1%), le precedenti considerazioni portano a sostenere che il rapporto deficit pubblico/PIL del nostro paese potrebbe raggiungere nell’anno in corso lo 1,6%.

Riguardo alla Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) che il nuovo governo italiano dovrà presentare alla Commissione europea entro la fine del corrente mese di settembre, questo rapporto dovrebbe essere sufficiente per ottemperare agli impegni assunti per il 2019 nei confronti della UE. Inoltre, se si potesse ragionare a legislazione invariata, i conseguenti “effetti trascinamento” dovrebbero anche garantire la realizzazione di quella riduzione dello 0,6% nel rapporto deficit strutturale/PIL per il 2020 che è stata richiesta dalla Commissione europea per il graduale avvicinamento dell’Italia al suo Obiettivo di medio termine (MTO) e che è parte degli impegni assunti dal passato governo nei confronti della UE a luglio scorso. Per di più, la plausibile previsione di un’ulteriore caduta dei tassi di interesse sui titoli italiani del debito pubblico di varia scadenza e di un positivo – anche se moderato – tasso di crescita del PIL per il nuovo anno (0,4% nelle previsioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio) dovrebbe consentire la fissazione in Italia di un rapporto deficit pubblico/PIL per il 2020 – a legislazione invariata – intorno allo 1,2%.

3. COME CAMBIERANNO I NUMERI

Tale quadro di apparente riequilibrio fiscale è, tuttavia, irrealistico. Innanzitutto, anche se fosse messo in atto nei termini sopra enunciati, esso sarebbe parziale perché ‘dimenticherebbe’ il problema del debito pubblico italiano. Inoltre, esso è di fatto inattuabile perché dovrebbe basarsi su politiche fiscali passive e restrittive (pieno aumento delle aliquote IVA senza stimoli per l’uscita dall’attuale situazione di stagnazione) che avrebbero un impatto recessivo di breve termine per l’economia italiana e che, comunque, non sarebbero compatibili con gli assetti del nuovo governo.

Si tratta, quindi, di ridefinire il quadro delineato introducendo almeno tre ulteriori fattori:

  • La diminuzione del rapporto deficit pubblico/PIL nel 2019 non comporterà una corrispondente caduta nel rapporto italiano debito pubblico/PIL, dal momento che mancheranno all’appello i 18 miliardi di euro previsti nella Legge di bilancio per il 2019 quale esito della cessione di quote pubbliche di proprietà mobiliare (17 miliardi) e immobiliare (1 miliardo); avendo subito per ben due volte l’avvio di una procedura di infrazione per debito pubblico eccessivo (novembre 2018 e giugno 2019), l’Italia sarà costretta a disegnare una strategia credibile di graduale riduzione del rapporto debito pubblico/PIL nella propria Legge di bilancio per il 2020, senza ricorrere a espedienti distorsivi (trasferimenti di quote proprietarie delle società pubbliche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – MEF – alla Cassa Depositi e Prestiti, che è controllata dal MEF).
  • Fin dal NADEF e, a maggior ragione, nella Bozza della Legge di bilancio per il 2020 (da presentare alla Commissione europea entro la metà di ottobre 2019), il nuovo governo italiano dovrà specificare la copertura alternativa all’utilizzo delle clausole di salvaguardia che, per il 2020, prevedono aumenti delle aliquote IVA e di alcune accise per più di 23 miliardi di euro; uno dei punti qualificanti del programma economico sia del vecchio che del nuovo governo esclude, infatti (a nostro avviso, in modo troppo stringente), l’attivazione anche parziale di queste clausole.
  • Pur se ancora generici, gli altri punti qualificanti del programma economico del nuovo governo italiano disegnano interventi per il sostegno della crescita economica (riduzione del ‘cuneo fiscale’, rilancio degli investimenti pubblici, più robusti incentivi all’innovazione e all’istruzione) e della coesione sociale (salario minimo, riduzione della povertà) che comporteranno, nel 2020, diminuzioni delle entrate e aumenti delle spese pubbliche per un ammontare stimabile in almeno 15 miliardi di euro; si noti, al riguardo, che gran parte delle coperture per investimenti pubblici ha trovato altri utilizzi nei passati esercizi di bilancio e andrebbe, quindi, ripristinata.

A fronte di una tendenziale riduzione del rapporto deficit pubblico/PIL intorno allo 1,2% per il2020 (si veda sopra), l’Italia rischia quindi di dover fronteggiare un aggravio complessivo nei saldi del proprio bilancio superiore ai due punti percentuali di PIL. Nel 2020, così come negli anni successivi, un innalzamento del rapporto deficit pubblico/PIL che superi (o anche si attesti intorno al) la soglia del 3% risulterebbe, però, incompatibile con gli accordi assunti nei confronti della UE. Soprattutto, tale innalzamento avrebbe effetti ancora più rilevanti per il rapporto debito pubblico/PIL: data la mancata riduzione del rapporto detto nel 2019, in assenza di aggiustamenti ad hoc, la sua dinamica crescente verrebbe confermata e aggravata anche negli anni successivi ed esporrebbe l’Italia a nuove tensioni per eccesso di debito pubblico (con il concreto rischio di vanificare la riduzione degli oneri finanziari su questo stesso debito). Il che porrebbe in discussione la sostenibilità di medio periodo del bilancio pubblico italiano.

4. INVESTIRE IN INNOVAZIONE E NELLO STATO SOCIALE

Il quadro realistico di breve termine è, dunque, assai più problematico di quanto non lasciasse presumere l’ipotetica analisi a legislazione invariata. È perciò inevitabile che, pur senza cadere nel vizio di azzerare indiscriminatamente quanto fatto dal precedente governo, la nuova coalizione riduca gli squilibri del bilancio pubblico per il 2020 e per gli anni successivi ridimensionando, per quanto possibile, i più inefficienti incrementi di spesa o tagli di tasse attuati nel 2019 (“Quota 100”; aliquota ‘piatta’ per una parte dei lavoratori indipendenti al di sotto di date soglie di reddito; e così via).

I problemi da affrontare assumono però uno spessore ancora maggiore se si collega il quadro di breve periodo, appena delineato e incentrato sulla presentazione della Legge di bilancio per il 2020 e sulle sue tappe preparatorie, alle prospettive di medio-lungo periodo.

Analisi recenti ribadiscono che l’economia italiana e, in particolare, il settore manifatturiero possono contare su imprese di eccellenza che si collocano sulle frontiere internazionali dell’innovazione e che difendono e irrobustiscono le nostre quote nel commercio mondiale. Tali imprese hanno, però, troppi pochi imitatori nazionali. La maggioranza delle imprese italiane resta, così, poco competitiva anche perché schiacciata sulle piccolissime dimensioni, che mal si adattano alla combinazione fra innovazione tecnica e innovazione organizzativa imposta dalle nuove traiettorie tecnologiche. Ciò spiega perché la nostra economia costituisca un caso estremo dei ritardi innovativi, accusati dall’intera UE e dall’area dell’euro nei confronti di Cina e Stati Uniti riguardo all’intelligenza artificiale e al digitale. Questo duplice ritardo italiano (nei confronti delle aree internazionali extra-europee e della stessa UE) rappresenta la causa principale della dinamica stagnante nella nostra produttività media del lavoro e in altre forme di produttività, che dura ormai da più di venti anni e che crea una crescente frattura fra il limitato sottoinsieme delle imprese italiane internazionalizzate e il corpo maggioritario e arretrato delle imprese nazionali. Sommandosi a una dinamica demografica negativa (forte invecchiamento della popolazione), la stagnante produttività media del lavoro implica che la mancata capacità di crescita economica dell’Italia è un fattore strutturale e non accidentale.

È perciò essenziale che il nuovo governo italiano vari, al più presto, un insieme sistematico e ben disegnato di incentivi all’innovazione. Al riguardo, la raccomandazione al nuovo governo è di allocare in modo efficiente le risorse disponibili, istituendo – per esempio – stretti legami fra la composizione dei nuovi investimenti pubblici e gli stimoli alla crescita dimensionale delle piccolissime e piccole imprese private con potenziale innovativo.

L’apertura dell’economia italiana all’innovazione, che è condizione essenziale per il riavvio di una crescita di medio-lungo periodo, ha però l’effetto di accentuare – nel breve e nel medio periodo – le gravi vulnerabilità sociali del nostro paese. Già oggi il tasso di attività, ossia la presenza attiva nel mercato del lavoro della (calante) quota della popolazione italiana in età lavorativa, è uno dei più bassi fra i paesi economicamente avanzati. Nonostante ciò il tasso italiano di disoccupazione, ossia la percentuale di quanti sono attivi nel mercato del lavoro ma non trovano occupazione, è strutturalmente al di sopra della media europea (specie per le fasce deboli di lavoratori e, in particolare, per i giovani; e per le aree più marginali, quali il Mezzogiorno). Per di più, gli occupati italiani hanno competenze che mal si adattano alle produzioni innovative perché vantano livelli di istruzione e di qualificazione inferiori alla media europea e, a parità di istruzione, hanno specializzazioni più lontane dalle competenze tecniche di frontiera. Il risultato è che le imprese italiane tentano di compensare la bassa qualità della loro domanda di lavoro e della relativa offerta, comprimendo i salari monetari, che – per di più – sono gravati da un elevato ‘cuneo fiscale’, oppure ricorrendo a soluzioni di breve periodo che accentuano le inefficienze strutturali della nostra economia (lavori temporanei e privi di tutele). Non è sorprendente che, in tale situazione, l’Italia non abbia corretto le aumentate diseguaglianze nella distribuzione del reddito verificatesi negli anni, in cui i paesi centrali della UE e dell’euro-area hanno incominciato ad adottare le nuove tecnologie innovative (primi anni novanta); e abbia visto crescere, nell’ultimo ventennio, il fenomeno degli occupati ‘poveri’ e l’incidenza della povertà assoluta e relativa quale effetto dell’ulteriore polarizzazione fra le classi di reddito più elevate e quelle più basse.

In presenza di simili vulnerabilità, una pervasiva introduzione di processi innovativi senza interventi correttivi di politica sociale avrebbe l’effetto di rendere ancora più inefficiente o inutilizzabile una parte significativa degli attuali occupati e di aggravare sia la polarizzazione del reddito che l’emarginazione e la caduta in una qualche forma di povertà di quote ancora più consistenti della popolazione in età lavorativa e attiva. È quindi essenziale che il nuovo governo italiano aumenti gli investimenti nell’istruzione e nella formazione, riduca il ‘cuneo fiscale’, rafforzi la lotta alla povertà, preveda nuove tutele per il reddito e l’inserimento dei disoccupati. Semmai, la raccomandazione da avanzare è che il nuovo governo non si limiti a interventi sporadici ma finanzi un disegno sistematico di riforma dello stato sociale. Va infatti superata l’idea tradizionale, in base alla quale lo stato sociale dovrebbe intervenire solo ex post per tutelare e reinserire le fasce di popolazione più colpite dai cambiamenti economici; si tratta invece di intervenire anche e soprattutto ex ante così da preparare e/o adattare la popolazione, specie ma non solo giovanile, alle trasformazioni in atto nei processi innovativi.

5. LA FLESSIBILITÀ NON BASTA

Queste considerazioni hanno almeno due implicazioni. Primo: esse mostrano che, nel lungo periodo, la gestione del bilancio pubblico italiano non potrà essere di semplice manutenzione o di ordinaria amministrazione. Se si persegue l’obiettivo di rendere l’Italia un paese competitivo e capace di una crescita sostenibile nell’ambito di una delle aree più avanzate dell’economia internazionale (la UE), è necessario prevedere una modifica radicale della composizione della spesa e delle entrate pubbliche ed essere pronti a gestirne gli impatti rispetto a interessi consolidati. Solo così diventa possibile costruire una società aperta alle innovazioni economiche e incentrata sull’equità (eguaglianza delle opportunità in senso sostanziale). Secondo: le stesse considerazioni mostrano che, nel breve termine, non si possono affrontare efficacemente i problemi del bilancio italiano se la già difficile combinazione fra stimoli alla crescita e aggiustamenti dei saldi viene separata dagli obiettivi e dai connessi interventi di medio-lungo periodo. Gli aumenti della spesa pubblica e/o le riduzioni della tassazione devono diventare tasselli di un disegno di ampio respiro, che trovano il loro complemento in ‘tagli’ nelle spese pubbliche socialmente inefficaci ed economicamente inefficienti rispetto alla società più innovativa e più equa che si intende costruire nel medio-lungo periodo.

Le due implicazioni dette possono apparire visionarie. Esse hanno, tuttavia, almeno tre conseguenze molto concrete sia a livello nazionale che a livello europeo.

A livello nazionale, ne deriva che il declino economico e sociale italiano può essere arrestato solo se si ammette che, durante lo straordinario periodo di rapido sviluppo economico del secondo dopoguerra (1952-1979) e – soprattutto – nel decennio successivo, si sono accumulate e cristallizzate posizioni protette di rendita oggi non più sostenibili in termini di livello e composizione del debito pubblico e di coesione sociale. La gestione non ordinaria del bilancio pubblico deve ridimensionare tali rendite mediante l’attuazione di interventi puntuali e concreti, che sappiano incidere sulle tante inefficienze sia pubbliche che private.

Le due conseguenze a livello europeo riguardano, invece, il rischio di utilizzare una forma facile ma distorta per collegare i problemi di breve e di lungo periodo: la ricerca di ‘flessibilità’ fiscale anziché di accordi stringenti rispetto alle regole europee.

La precedente analisi chiarisce che, per il nuovo governo italiano, sarebbe pressoché impossibile contemperare il rilancio di una crescita sostenibile di medio-lungo periodo e i graduali aggiustamenti del nostro debito pubblico senza una cooperazione europea che permetta di gestire, nel breve termine, una parte degli oneri finanziari derivanti da efficienti programmi di investimenti pubblici per la riforma – per esempio – dei nostri sistemi educativi o per la realizzazione – per esempio – di infrastrutture immateriali per l’innovazione delle nostre imprese.

Questa cooperazione può, tuttavia, sfociare in due strategie alternative:

  • le istituzioni europee concedono al nostro paese margini di flessibilità fiscale, ossia allentano i vincoli rispetto ad aumenti temporanei del suo rapporto deficit pubblico/PIL al di sopra della traiettoria di convergenza verso l’Obiettivo di medio termine (MTO), senza alcuna valutazione e alcun controllo centralizzato in merito all’allocazione delle spese eccedenti o alla riduzione delle entrate ma anche senza l’assunzione di alcun impegno di futuri sostegni nel caso di situazioni di emergenza nel nostro bilancio pubblico;
  • l’Italia concorda con le istituzioni europee un programma pluriennale di riforme e di investimenti e accetta controlli periodici centralizzati sulla graduale realizzazione di tale programma, ottenendo in cambio finanziamenti centralizzati che non pesano per intero sul suo bilancio purché il programma venga attuato secondo gli accordi presi e in forme coerenti con un condiviso ed esplicito disegno di medio-lungo periodo.

La prima strategia, che tende a essere preferita da qualsiasi coalizione politica nazionale perché non pone restrizioni alle sue scelte fiscali, è molto pericolosa. Essa si traduce in un uso della flessibilità per impegni pubblici di breve termine che, come è accaduto in Italia negli anni passati, possono disattendere senza immediate sanzioni la realizzazione degli investimenti e delle riforme richieste dal disegno di medio-lungo termine. Il risultato è che, una volta esauriti i margini concessi dalle istituzioni europee, il paese (nel caso l’Italia) si troverebbe con squilibri aggravati nel proprio bilancio pubblico e – quindi – con vincoli ancora più stringenti per il rilancio di una crescita sostenibile di lungo termine. La strategia (ii), che nel breve termine appare politicamente più costosa perché comporta una cessione (anche se condivisa e temporanea) di sovranità nazionale, rappresenta viceversa un’opportunità per tradurre la gestione del bilancio pubblico in un insieme di tasselli coerenti con un disegno di lungo termine almeno parzialmente sostenuto dalle istituzioni europee.

L’obiezione, che può essere avanzata rispetto alla conclusione appena suggerita e che ci porta alla seconda conseguenza a livello europeo, è che la prima strategia finisce per indebolire le vigenti e distorsive regole fiscali della UE e dell’euro-area mentre la seconda strategia accetta e legittima pienamente queste regole. Pertanto, la ‘flessibilità’ fiscale avrebbe un impatto positivo non tanto per i suoi effetti di breve termine sui bilanci pubblici nazionali quanto perché fungerebbe da grimaldello per allentare le regole e rafforzare la cooperazione fra paesi nel lungo termine.

Tale obiezione rischia di produrre effetti negativi inintenzionali ma gravi. È vero che le regole fiscali europee palesano rilevanti problemi e possono essere molto migliorate; ed è anzi urgente avviare una riflessione in questa direzione. La vigenza di quelle regole rappresenta, tuttavia, il collante che assicura la coesistenza fra una politica monetaria accentrata e una qualche forma di coordinamento istituzionale fra politiche fiscali decentrate, ossia nazionali. Un puro e sistematico allentamento delle regole fiscali porterebbe alla deresponsabilizzazione delle istituzioni europee rispetto agli squilibri fiscali accumulati a livello nazionale, nel senso che i paesi ad alto debito pubblico si troverebbero esposti alla volatile valutazione e alla sanzione degli investitori di mercato senza alcuna protezione istituzionale europea.

Tale minacciosa prospettiva non è teorica ma si è già palesata nella recente riforma del Meccanismo europeo di stabilità (ESM). Dopo aver favorito a lungo regole fiscali europee severe (con l’irrigidimento del Patto di stabilità e crescita), i paesi più rigoristi dell’euro-area si stanno oggi orientando verso la concessione di margini crescenti di flessibilità fiscale a favore dei paesi più fragili. Come è emerso nelle riunioni di dicembre 2018 e di giugno 2019 dell’Eurogruppo e dello Eurosummit, questi paesi esigono però in cambio una regola di ristrutturazione quasi-automatica dei debiti sovrani per gli stati membri che siano poi costretti ad attivare programmi di aiuto europeo presso l’ESM. La nuova strategia consiste, così, nell’addossare al singolo stato-membro in difficoltà la piena responsabilità e tutti gli oneri derivanti dai suoi persistenti squilibri fiscali.

Commenta