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Congresso Pd al bivio: rinnovarsi o perire, più riformismo o populismo. Due cordate in campo

Malgrado una sconfitta storica alle ultime elezioni politiche, dal Pd non emerge nessuna autocritica di fondo e nessuno slancio verso una svolta che possa ridare un futuro al partito – Eppure il congresso è l’ultima occasione per una chiara scelta riformista e socialdemocratica: in caso contrario l’abbraccio fatale con i Cinque Stelle rischia di portare alla reale sparizione del primo partito della sinistra – Troppe assenze nel Pantheon dei progressisti

Congresso Pd al bivio: rinnovarsi o perire, più riformismo o populismo. Due cordate in campo

Su di una cosa Enrico Letta ha ragione e cioè sul fatto che il Partito Democratico, dopo la sconfitta elettorale, soffre di una grave crisi di identità. Fatica, cioè, a dire al paese, con semplicità e chiarezza, che cosa intende fare e con chi pensa di farlo. Ma, soprattutto, fatica a dire che cosa esattamente è il PD. Della DC, del PCI e del PSI gli Italiani sapevano tutto: ne conoscevano l’identità e i programmi. Persino dei 5 Stelle si sa chi sono (dei populisti) e cosa vogliono (sussidi, sussidi e ancora sussidi). Del PD invece no. Si sa solo che sono democratici di sinistra. Troppo poco per definire un Partito. Come ha argutamente osservato Paolo Cirino Pomicino, “democratici di sinistra” è poco più di una indicazione stradale che non dice nulla sulla sua cultura politica (socialista? liberale? popolare?) né sulla sua Constituency (classi lavoratrici? Ceti medi produttivi? Quelli intermedi? Gli emarginati?) È talmente indefinito il PD di oggi che potrebbe essere tutto e il contrario di tutto, a seconda delle circostanze e di chi lo governa pro tempore. In queste condizioni il PD può essere oggetto di scalata da parte di chiunque, persino da chi, come Elly Schlein, non è neppure iscritto.

Partito Democratico e il rischio di affidare il destino della sinistra ai 5 Stelle

Ad oggi sono due le potenziali cordate in lizza per conquistarlo: c’è quella dei 5 Stelle, sponsorizzata all’esterno da D’Alema e da Bersani e sostenuta all’interno da Bettini, Orlando, Boccia e tanti altri. E c’è quella dei sindaci, degli amministratori e dei riformisti capitanata (se scioglierà la riserva) dal Governatore dell’Emilia, Stefano Bonaccini. Se a prevalere fosse la prima di queste due cordate in un breve lasso di tempo si creerebbe anche in Italia un raggruppamento simile a quello creato in Francia da Mélenchon (la France insoumise) all’interno del quale il PD farebbe la fine del PS francese, cioè scomparirebbe. Se, invece, a prevalere fosse la cordata degli amministratori e dei riformisti allora, forse, il PD potrebbe riprendere il dialogo con le forze liberali e riformiste di centro per dare vita ad un credibile schieramento di centro sinistra.

Il PD potrebbe imparare dall’SPD

In questo caso il PD potrebbe legittimamente aspirare al ruolo che, nella coalizione che governa oggi la Germania, svolge la SPD la quale, sia detto a beneficio degli smemorati del PD, per governare non si è alleata con l’estrema sinistra della Linke (l’omologo tedesco di Fratoianni) ma con i liberali e con i verdi tedeschi che nulla hanno a che spartire con i verdi di Bonelli. Sarebbero due esiti antitetici che avrebbero però una cosa in comune: quella di chiarire una volta per tutte la collocazione politica del PD. Nel campo dei populisti e degli antagonisti la prima, in quello dei riformisti la seconda. Fine dell’ambiguità.

La lunga eclissi della sinistra: Occhetto preferì avventurarsi verso il nulla

L’ambiguità, oltre ad essere una delle forme peggiori della disonestà intellettuale, in politica è stata sempre foriera di sconfitte. Ne sa qualcosa Achille Occhetto che nel lontano 1989, all’indomani della caduta del muro di Berlino e del crollo del comunismo, non sapendo (e non volendo) scegliere fra la via socialdemocratica, che era la più consona per il PCI, e quella antagonistica, che era la più lontana dalla vera natura del PCI, scelse di non scegliere. E, anziché affrontare i difficili problemi che quegli eventi epocali ponevano a tutta la sinistra, preferì alzare le vele e navigare verso lidi sconosciuti, oltre la socialdemocrazia e oltre il capitalismo, nella vana ricerca di una inesistente terza via. Lo psicodramma (in realtà una vera tragedia storica) del lungo e surreale dibattito sul nome della nuova “cosa” che avrebbe dovuto sostituire il PCI sfociò, infine, nella creazione di un ibrido, il “Partito Democratico della sinistra”, il cui nome, volutamente, non faceva alcun riferimento né alla tradizione del socialismo italiano ed europeo né al mondo del lavoro. Un partito né socialdemocratico né laburista che venne poi sonoramente sconfitto da Berlusconi nelle elezioni del ‘94.

L’odio per la socialdemocrazia (e per Craxi) era tale nel PCI che il gruppo dirigente di Occhetto, piuttosto che definirsi socialdemocratico per potere in tal modo contribuire alla riunificazione delle forze del socialismo italiano, riunificazione che proprio il crollo del comunismo rendeva possibile, preferì avventurarsi verso il nulla, adottando un nome che, come già ricordato, Pomicino più tardi dirà che più che una identità politica gli ricordava una indicazione stradale.

La crisi della sinistra ha radici profonde

A questo errore capitale, che è una delle cause della mancata creazione in Italia di una grande forza socialdemocratica, non pose rimedio neppure Veltroni con il suo PD. L’ambiguità circa l’identità politica e culturale del partito se possibile si aggravò. Nel suo Pantheon pur così affollato, non trovarono posto i grandi del riformismo socialista italiano quali Turati, Nenni o Saragat, né quei comunisti che più si impegnarono per l’unità socialista come Di Vittorio e Giorgio Amendola e neppure i riformisti cattolici come Don Sturzo e De Gasperi. Le due grandi figure di riferimento del PD erano Enrico Berlinguer e Dossetti, un comunista e un democristiano, due grandi e carismatiche figure nessuna delle quali, però, ad onor del vero, avrebbe accettato di essere definita riformista. L’amara verità è che la cultura riformista di matrice socialista, liberale e cattolica non è mai stata maggioritaria nella sinistra italiana e men che meno lo è stata nel PD. E questa è la vera ragione per la quale il PD nei momenti di crisi quale quello che stiamo attraversando è così pericolosamente esposto alle suggestioni del populismo, dell’antagonismo e dell’ambientalismo fanatico.

Il PD scelga un’identità o è destinato a consumarsi

Se davvero Letta e i riformisti non vogliono che il PD venga travolto da questa ondata allora devono contrastarla con voce forte e chiara. Devono difendere il radicamento del PD nel mondo del lavoro e il suo legame con la grande tradizione emancipatrice del socialismo e del cattolicesimo popolare e tanto più efficace e chiarificatrice sarebbe questa battaglia se al congresso si decidesse di affiancare nella denominazione del partito all’aggettivo “democratico” il termine “sociale”: socialdemocratico. Non sarebbe l’ultima di tante metamorfosi ma il definitivo chiarimento della sua vera natura, la fine di un equivoco.

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