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Congiuntura REF: la crisi dell’industria italiana è a livelli molto gravi e l’export non basta più

CONGIUNTURA REF – Secondo un recente report del centro di ricerche milanese, la crisi dell’industria italiana va molto oltre il ciclo economico e raggiunge livelli che investono salari, occupazione, profitti, investimenti ma soprattutto allargano il differenziale competitivo con gli altri Paesi e rendono assai problematico il recupero

Congiuntura REF: la crisi dell’industria italiana è a livelli molto gravi e l’export non basta più

Per il settore industriale, nel corso dellaseconda metà del 2011, è arrivata un’altra recessione. L’insieme dell’industria in senso stretto ha resistito sino al terzo trimestre con una stagnazione del valore aggiunto a prezzi costanti (-0,1%), prima di subire un’ampia contrazione nel quarto (-2,2%). Di fatto, la recessione di fine anno è tutta industriale, considerando che i servizi nel complesso hanno ancora tenuto (-0,1% nel quarto trimestrerispetto al precedente). Considerando anche le tendenze decisamente sfavorevoli che si sono delineate nei primi mesi dell’anno, si può affermare che per l’industria nel secondo trimestre del 2012 si completa un intero anno di contrazione.

La vera peculiarità della crisi in corso sta per ora non tanto nella sua intensità in terminiassoluti, ma principalmente nel fatto che è iniziata con livelli della produzione ancora largamente inferiori ai massimi precedenti. Questa caratteristica conferma che le perdite di output degli anni scorsi sono in buona misura dicarattere “definitivo”, slegate dall’andamento del ciclo economico.

L’esiguità del recupero recente rispetto all’entità della precedente caduta è in buona misura un tratto peculiare del nostro Paese, che ha perso posizioni rispetto alle altre maggiori economie europee. Inoltre, il nostro gap rispetto agli altri paesi in termini di andamento dell’attività industriale non può che ampliarsi in una fase come quella attuale, considerando che l’economia italiana sta subendo, insieme alle altre economie dellaperiferia europea, uno shock specifico, che determina quindi un incremento delle distanze rispetto agli altri paesi.

Anche nel corso dei primi mesi dell’anno gli indicatori congiunturali confermano le nostre maggiori difficoltà. Secondo le indagini congiunturali, difatti, l’area euro nel complesso ha iniziato ad invertire la tendenza.

Le survey condotte dall’Istat hanno invece mostrato per l’Italia un assestamento del clima di fiducia dell’industria sui minimi a partire da dicembre sino al mese di marzo, con un leggero miglioramento delle aspettative sulle tendenzedegli ordini e della produzione. Di positivo si ravvisa il fatto che le imprese non segnalano un eccesso di scorte nei magazzini. Il fatto di avere un ciclo sfasatorispetto alle altre economie è una logica conseguenza delle caratteristiche della crisi che ha colpito la nostra economia, tradott esiessenzialmente in una fase di caduta della domanda interna.

Il fatto che il contesto internazionale stia iniziando a recuperare potrebbe aiutarci a limitare i danni della crisi, nella misura in cuile imprese riusciranno a fare espandere l’export nei prossimi mesi. Già nel corso del 2011 il net export ha giocato un ruolo determinante, considerando che le esportazioni a prezzi costanti di contabilità nazionale sono aumentaredel 6%, mentre le importazioni sono cresciute solamente dell’1%.

Nel 2011quindi il contributo contabile delle esportazioninette alla crescita è stato ampio, di quasi un punto e mezzo percentuale, ed ha compensat ogli effetti sulla crescita della caduta della domanda interna, soprattutto a seguito del contributo ampiamente negativo della variazione delle scorte alla crescita del Pil. E’ anche interessante osservare come nel corsodel biennio 2010-2011 l’Italia, per la prima volta dall’avvio dell’euro, abbia chiuso il divario di crescita delle proprie esportazioni rispetto alla media dell’area euro.

A sfavore dell’attività industriale giocano peròa ltri aspetti, che caratterizzano la composizionedella domanda. In particolare, va segnalato il crollo degli investimenti in macchinari, con una contrazione di quasi il 5% a fine anno, e la flessione dei consumi interni, risultata decisamente più pronunciata per i beni (-0,7% nel terzo, -2% nel quartotrimestre) rispetto ai servizi, in leggero aumentoin entrambi i trimestri (dello 0,1 e dello 0,3% rispettivamente).

Vi è il rischio che le impresesi riorganizzino adattandosi a nuovi livelliproduttivi permanentemente più bassi, attraverso ristrutturazioni o anche vere e propriechiusure di stabilimenti. Le perdite di outputd iventerebbero così di natura permanente.

Secondo i dati di contabilitànazionale la crisi degli ultimi due anni avrebbedeterminato un crollo dei margini delle imprese, che non sono riuscite a trasferire interamente sui prezzi dei prodotti gli aumenti dei costi unitari, sostenuti soprattutto dai rincari dei prezzi dellematerie prime. Le difficoltà delle imprese ad aumentare i prezzi sono un esito della fase di bassa domanda finale oltre che delle pressioni competitive provenienti dall’esterno. Il peggioramento della redditività dell’industriaè un chiaro segnale di difficoltà.

In questa fase le politiche delle banche sono diventate necessariamente più selettive. Vi è quindi in questa fase un’esigenza pressante sul sistema delle imprese di minimizzare il fabbisogno di liquidità. Se a questo si aggiungono gli spazi di capacità inutilizzata che si stanno nuovamente formando per effetto della recessione, si comprende ilcrollo degli investimenti osservato nel quartotrimestre del 2011. D’altronde, poiché in molti casi gli impianti sono ampiamente sottoutilizzati, questo non può a sua volta che influire negativamente sulla produttività.

L’industria ha registratoperdite occupazionali importanti fra il 2008 eil 2009, circa 700mila ragionando in terminidi unità di lavoro, con un crollo dell’incidenzadell’occupazione industriale sul totaledell’occupazione italiana. Le perdite sono state inferiori guardando alle “teste”, circa 400mila occupati in meno nell’industria in senso stretto, ma solo perché si sono ridotte le ore lavorate per occupato, sia per l’aumento dell’incidenza del part-time, cheper effetto dei lavoratori in Cassa integrazione guadagni. Questo vuol dire che gli spazi di assorbimento di una nuova crisi attraverso la riduzione delle ore lavorate per occupato sono oggi limitati.

L’inizio di una nuova fase di riduzionedell’occupazione aprirebbe la strada ad unavera e propria deindustrializzazione del paese, con effetti anche sul potenziale produttivo di lungo periodo. La formazione di uno stockdi disoccupati di lungo periodo è difatti la probabile conseguenza di un periodo di espulsione di massa di occupati dal circuito produttivo. Le conseguenze di questo scenario paiono potere condizionare l’andamento della dinamica salariale. Una prima decelerazione è emersa nel 2011 e probabilmente una fase di moderazione salariale potrebbe prodursi anche nel biennio 2012-2013.

La decelerazionedei salari in corso in Italia si sovrappone ad una tendenza di segno opposto nei paesi più dinamici dell’area euro. L’apertura di un differenziale nella crescita dei salari asseconda da un canto la divergenza nelle dinamiche della domanda interna fra i paesidell’area euro, con conseguenze positive per ipaesi più deboli che devono cercare di esportare verso le economie attraversate da una faseciclica migliore. L’apertura di un differenziale dicrescita fra le retribuzioni italiane e quelle tedesche potrebbe però non essere sufficiente per modificare in maniera sostanziale la competitività dal lato dei costi del sistema industriale, sino a quando la nostra produttività continuerà a ristagnare, a fronte dell’andamento decisamente più dinamico riscontrato presso l’industria tedesca. La recessione non fa altro che aggravare la situazione in quanto determina, come abbiamo visto, un andamento divaricato degli investimenti. Gli investimentidell’industria italiana stanno cadendo, segnando la formazione di un ritardo nella fase di upgrading tecnologico del nostro apparato produttivo, e questo non potrà che ampliare le distanze rispetto alle economie dove le imprese stanno investendo.

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