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Computer vince, uomo perde: elementare, Watson

Watson è un progetto Ibm che deve il proprio nome al mitico primo presidente dell’azienda e che ha realizzato un supercomputer che supera l’uomo: ecco come

Computer vince, uomo perde: elementare, Watson

La “question answering machine”

Watson è un progetto IBM che deve il proprio nome a Thomas J. Watson, mitico primo presidente dell’azienda. La sua esistenza è indissolubilmente legata, invero, ad un gioco. Un quiz televisivo estremamente popolare negli Stati Uniti: Jeopardy!.

La leggenda vuole che Charles Lickel, responsabile della ricerca presso IBM, una sera, mentre cenava in un ristorante, notò che improvvisamente, alle 19 in punto, molti dei suoi commensali si alzavano e lasciavano il locale. Incuriosito da questo bizzarro comportamento, Lickel li seguì per scoprire che si recavano in un bar adiacente. Qui li trovò tutti raccolti davanti alla TV, intenti a guardare Ken Jennings impegnato ad estendere la sua striscia di affermazioni consecutive nel seguitissimo Jeopardy!. Lickel comprese subito quale potesse essere il potenziale, quanto a cassa di risonanza e popolarità, dell’opporre un concorrente computerizzato ai campioni umani nonché, d’altro canto, la complessità dell’impresa e il suo valore intrinseco per la ricerca. Tutto ciò accadeva nell’autunno del 2004. Lickel successivamente espose la sua intuizione in azienda e Paul Horn, responsabile esecutivo della ricerca in IBM, accolse il suo suggerimento e lo propose ai membri del suo dipartimento. David Ferrucci, infine, raccolse la sfida. Era il 2005: nasceva Watson.

Quando il progetto partì, l’obiettivo era creare quella che verrà poi definita una “question answering machine”. Le difficoltà da superare non erano affatto banali. Jeopardy presenta una struttura semplice: il conduttore (Alex Trebek) fornisce delle risposte (indizi) e i concorrenti devono formulare la domanda corretta. Per poterlo fare devono prenotarsi. Colui il quale acquisisce la precedenza sugli avversari, ottiene il diritto a rispondere. Si guadagnano dei soldi (tanti più soldi quanto più risulta difficile il quesito) in caso di risposta esatta, se ne perdono in caso di errore. Le domande sono le più varie ed i partecipanti non ne conoscono in anticipo gli argomenti. Gli indizi non sono sempre lineari, possono contenere acronimi, versi, giochi di parole. Essi richiedono oltre ad una padronanza della materia, anche una capacità di discernimento difficile da acquisire per una macchina. Come sottolineano McAfee e Brinjolfsson (The Second Machine Age, 2014), «i giocatori inoltre devono essere allo stesso tempo veloci, audaci e precisi».

Watson, un gran secchione

Le prime versioni di Watson lasciavano alquanto a desiderare. Ai programmatori si presentava una scelta importante: preferire un approccio più prudente (a vantaggio di una migliore accuratezza nelle risposte), o adottare un atteggiamento più aggressivo (che implicava la possibilità di prenotarsi e rispondere per primo, ma anche incorrere più facilmente nell’errore)? Nei test iniziali, effettuati verso la fine del 2006, si optò per una linea di condotta moderatamente aggressiva: Watson doveva cercare di rispondere per primo nel 70% dei casi. Gli esordi tuttavia non furono incoraggianti, le prestazioni della macchina erano ben lontane dal renderla competitiva. Watson, infatti, fu in grado di rispondere correttamente solo al 15% dei quesiti. Di contro, Ken Jennings, futuro sfidante di Watson, raggiungeva approssimativamente il 90% di risposte esatte, date le stesse condizioni.

C’era evidentemente molto lavoro da fare, ma Watson dimostrò di essere uno studente che impara in fretta. Nel 2010 il supercomputer appariva finalmente pronto a competere contro degli antagonisti umani. Fermo restando i presupposti precedenti, Watson era ora capace di rispondere correttamente all’85% delle domande. Un’ottima performance, tuttavia non ancora sufficiente per sfidare i migliori giocatori in carne e ossa.

Perché ciò fosse possibile si dovette attendere gli inizi del 2011, allorquando fu fissata la sfida tra Watson e due avversari davvero temibili: Ken Jennings e Brad Rutter. Jennings è il giocatore con la striscia di vittorie consecutive più lunga nella storia dello show, ben 74 partite. Rutter, invece, è il concorrente che ha guadagnato la cifra più alta di sempre, ben 3.400.000$, oltre che vincitore nel 2005 del Jeopardy! Ultimate Tournament of Champions (dove ha sconfitto lo stesso Jennings). In tre serate, tra il 14 e il 16 febbraio 2011, Watson ha superato nettamente i propri rivali. Quantunque non disponesse di alcun accesso ad internet, lo sfidante elettronico poteva invero avvalersi di 200 milioni di pagine di contenuti, compresa l’intera Wkipedia. Nondimeno la performance del supercomputer IBM non è stata esente da pecche, in particolare con le categorie di quesiti contenenti poche parole e minimi indizi. Nonostante ciò il calcolatore non ha lasciato scampo ai concorrenti umani. Il risultato finale ha visto Watson mettere insieme una vincita totale di 77.147$ contro i 24.000$ di Jennings ed i 21.600$ di Rutter.

Game over. Computer vince, uomo perde!

The day after

«Io, per primo, do il benvenuto ai nostri nuovi padroni i computer». Jennings ha aggiunto questa frase alla sua ultima risposta nella partita finale. Un riconoscimento della vittoria di Watson, con una citazione ripresa dai Simpson ma forse, ancor più, la consapevolezza della sconfitta, delle sue implicazioni, dell’abdicazione dell’uomo di fronte alla macchina. Jennings successivamente ha infatti dichiarato: «Mi sono divertito e lo rifarei di nuovo in un attimo … Non riguarda i risultati; si tratta di essere parte del futuro». E che quella sera si sia scritta la storia è fuor di dubbio. Come ha sottolineato Edward Feigenbaum, docente presso la Stanford University ed uno dei pionieri nel campo dell’intelligenza artificiale: «Tornate con la mente indietro di 20 anni e chi avrebbe mai pensato che ciò sarebbe stato possibile?».

Tuttavia che l’impresa riuscisse non era affatto scontato. Per l’IBM Watson ha rappresentato una scommessa. Un scommessa alla quale originariamente ben pochi credevano. Sulle prime il progetto era guardato con perplessità o, peggio, indifferenza. Uno scetticismo con cui Paul Horn ha dovuto confrontarsi persino all’interno del suo stesso team: «Inizialmente hanno detto di no, è un progetto ridicolo su cui lavorare, è troppo fumoso, non è un vero test di informatica, e probabilmente non saremo in grado di farlo comunque».

L’avvio è stato lento, difficoltà e sfiducia andavano di pari passo. Ricorda ancora Horn: «Quando ho lasciato IBM alla fine del 2007, Watson era un progetto embrionale … Aveva tre persone dell’area di Charles Lickel che avevano ottenuto i dati dai vecchi programmi Jeopardy e stavano cominciando ad addestrare la macchina. A quel tempo poteva a malapena a battere un bambino di cinque anni. La previsione era “Dio sa quanto tempo ci sarebbe voluto per battere un adulto, figuriamoci un campionissimo”».

Ma alla fine Watson ce l’ha fatta. John Kelly, responsabile della ricerca presso IBM e uno dei padrini di Watson, in un’intervista con Charlie Rose, qualche anno dopo, rivela l’apprensione che circondava quei momenti: «In realtà, in quella partita a “Jeopardy!” cinque anni fa, quando abbiamo mandato quel sistema computerizzato in televisione, lo abbiamo lasciato andare. E spesso mi sento come se stessi mettendo il mio bambino su uno scuolabus e non avrei avuto più alcun controllo su di esso». Un ragazzo che ormai doveva dimostrare di saper camminare sulle sue gambe e fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Prosegue Kelly: «Non aveva idea di quali domande stesse per ricevere. Era completamente autonomo. Io non potevo più toccarlo».

Il modello ragionativo

Il successo di Watson ha riscosso una notevole eco. Ha riportato l’IBM nuovamente sotto i riflettori, rappresentando nondimeno una riuscita operazione commerciale. L’evento ha lasciato dietro di sé un misto di stupore, sconcerto e, come sempre avviene quando si va incontro all’ignoto, paura. «La gente mi chiede se questo sia HAL [HAL9000 di 2001 Odissea nello spazio]», osservava Ferrucci, «è solo fantascienza … non siamo nemmeno lontanamente vicini a quel punto».

Dunque, cosa distingueva Watson dagli altri calcolatori? Com’è riuscito il supercomputer IBM a prevalere sui suoi sfidanti umani?

Prosegue ancora Ferrucci: «… HAL non è il focus. Il focus va posto sul computer di “Star Trek”, laddove la ricerca delle informazioni avviene attraverso un dialogo intelligente, dove è possibile porre domande ulteriori e il computer è in grado di considerare tutte le prove e cerca di porre ulteriori domande». Proprio questa capacità di interpretare la complessità del linguaggio umano, coglierne sfaccettature, sottigliezze e sfumature, è ciò che rende singolare Watson e lo distingue dal suo predecessore, Deep Blue. Rileva Ferrucci, «Quando si pensa agli scacchi, li si può assegnare all’ambito di un problema matematico ben definito. Qualsivoglia pezzo sulla scacchiera, ogni regola, ciascuna mossa è perfettamente definita. È inequivocabile. Non vi è spazio alcuno per l’interpretazione o incertezza riguardo quale sia la reale natura del problema e come funzioni. Deep Blue naturalmente aveva bisogno di essere un computer abbastanza potente da ricercare in anticipo un numero sufficiente di mosse per riuscire a comprendere quale fosse la mossa migliore da fare per vincere la partita. Ma non vi era ambiguità o contesto esterno o incertezza di cui tenere conto. Il problema era circoscritto e ben definito. Il linguaggio umano è completamente un’altra storia. Per essere precisi nel rispondere alle domande si deve fare un lavoro più appropriato di comprensione della lingua, che è piena di ambiguità e sfumature».

Questa qualità avvicina invero Watson molto più ad AlphaGo, con il quale condivide anche un altro attributo: è una macchina in grado di imparare. John Kelly così ne descrive l’intelligenza: «Dunque non ha un’intelligenza intrinseca all’inizio. È fondamentalmente un bambino. Ma, appena gli vengono concessi dei dati e forniti dei risultati, apprende, la qual cosa è totalmente differente rispetto a tutti i sistemi di elaborazione del passato, che di fatto non imparavano nulla. E allorquando interagisce con gli esseri umani, diventa ancora più intelligente. E non dimentica mai».

Proprio tale prerogativa ha concesso al supercomputer IBM una seconda opportunità, ha permesso infatti all’azienda di sfruttarne le doti anche commercialmente. In definitiva ha regalato a Watson, diversamente da quanto accaduto a Deep Blue, una seconda vita. Una seconda vita che prosegue tuttora con successo.

Ma questa è un’altra storia …

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