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Commissione europea, le difficili scelte dell’era Juncker

Il lussemburghese ha ottenuto il sostegno degli altri due gruppi parlamentari più numerosi, i socialisti & democratici e i liberaldemocratici – Pittella (S&D): “Appoggio leale ma controllo del rispetto degli impegni” – Verhofstadt (Alde): “La Commissione recuperi il diritto di iniziativa e lasci perdere le cancellerie”.

Commissione europea, le difficili scelte dell’era Juncker

Determinato quanto basta, accattivante quando serve, dialogante quasi sempre. In due sole parole: politico abilissimo. Il cristiano-democratico Jean-Claude Juncker ha centrato l’obiettivo della presidenza della Commissione europea con il supporto di una maggioranza parlamentare abbastanza ampia (422 sì su 729 votanti, più di di quelli ottenuti da Barroso nel 2004 e nel 2009), e comunque superiore alle previsioni della vigilia. Senza aver raggiunto però la “mission impossible” di un numero di “sì” pari alla somma di tutti gli eurodeputati (479) dei tre gruppi politici – popolare, socialista & democratico, liberaldemocratico – che hanno sostenuto ufficialmente la sua candidatura.

Al di là dei numeri, che com’è noto in democrazia sono determinanti, l’elezione dell’ex-premier lussemburghese ed ex-presidente dell’Eurogruppo segna comunque una svolta nel cammino ultracinquantennale dell’integrazione europea. Una svolta che il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz ha insistentemente definito storica e che ha indotto lo stesso Juncker a esclamare, subito dopo la proclamazione del risultato, che “nel Parlamento europeo suona la musica della democrazia!”. Definizioni, queste, che certamente riflettono l’emozione del momento. Ma che comunque poggiano su un serio fondamento politico: l’innalzamento del livello di partecipazione, sia pure indiretta, dei cittadini alla scelta dei governanti.

E in effetti il complicato meccanismo procedurale inaugurato in questa occasione per la scelta del vertice dell’Esecutivo europeo – a) designazione del candidato da parte di ciascun partito europeo (definizione che non trova ancora riscontri diffusi e consolidati nelle realtà politiche nazionali), b) scelta del candidato da parte del Consiglio europeo (quindi dai governi) “tenuto conto del risultato delle elezioni europee”, c) voto dell’Europarlamento a maggioranza qualificata (la metà più uno del totale dei suoi componenti) – al momento quel meccanismo può essere considerato soltanto un abbozzo di strumento di democrazia rappresentativa.

Non è molto, si potrebbe obiettare. Ma si può tranquillamente affermare che si tratta comunque di un non indifferente passo avanti rispetto agli accordi fra i governi della Stati membri, che hanno costituito la regola non scritta seguita fino a cinque anni fa nella procedura di scelta del presidente della Commissione. Un passo avanti nella misura in cui – sembra opportuno sottolinearlo – sarà confermato dalla forma e dalla sostanza della gestione dell’Esecutivo europeo da parte di Juncker e dei commissari che da qui a poco saranno chiamati ad affiancarlo.

Su questo aspetto il neo-presidente – al quale va riconosciuto l’innegabile merito di aver pubblicato nel suo sito internet, in tutte le lingue dell’Ue, un mese prima delle elezioni europee (alle quali non si era candidato) le priorità del suo programma di governo in caso di elezione – ha lasciato aperta, nelle sue dichiarazioni immediatamente prima e dopo il voto, più di una strada. “As is usual” per un politico di lungo corso come lui.

Così che Juncker in aula, prima del voto, ha imboccato l’autostrada verso il rilancio della crescita economica e la lotta alla disoccupazione soprattutto giovanile. Indicando però gli strumenti, le tappe, gli obiettivi. E dunque stimoli finanziari (“fiscal capacity”, ha detto: forse la creazione di un fondo) per gli Stati membri che hanno intrapreso un proficuo cammino di riforme; un corposo programma di investimenti pubblici e privati da 300 miliardi nei prossimi tre anni, la cui roadmap “dovrà essere pronta per febbraio”; la concreta attuazione e l’ampliamento della garanzia giovani lanciata dall’Ue (innalzando l’età massima dei beneficiari da 25 a 30 anni) ma che non ha ancora completato il rodaggio; il rafforzamento dell’impegno sia per sostenere le piccole e medie imprese (già avviato con il programma COSME) sia per imprimere una spinta forte a ricerca e innovazione (ci sono gli 80 miliardi di Orizzonte 2020).

E ancora. Recupero del ruolo-guida dell’industria nell’economia (confermato l’obiettivo, difficile da raggiungere, di riportare il peso del prodotto del settore al 20% del Pil nazionale entro il 2020). Sviluppo più accelerato del mercato digitale. Forte orientamento verso gli obiettivi di efficienza energetica per ridurre il tasso di dipendenza energetica. Con due sottolineature: creazione di un’Unione europea dell’energia che diventi il numero uno al mondo nel settore delle rinnovabili; mantenimento dell’apertura del mercato energetico Ue verso i nostri “vicini” dell’Est (leggi soprattutto Russia) ma a condizione che il suo prezzo, commerciale o politico, non diventi troppo alto. “Nel qual caso l’Europa dovrà essere in grado di passare rapidamente ad altri canali di approvvigionamento”, è l’alternativa che suggerisce un presidente super-ottimista. E fermamente orientato a “ripristinare nelle scelte il metodo comunitario”.

Impegni, questi, che sembrano avvalorare il profilo di un presidente schierato dichiaratamente dalla parte dei sostenitori della crescita in alternativa alla linea dell’austerità. Juncker ribadisce infatti di credere nell’economia sociale di mercato, di ritenere che il ruolo della “troika” a sostegno dei Paesi più indebitati (“che in realtà ha provocato soprattutto danni”) sia da rivedere radicalmente, di essere convinto che il rigore finanziario ha fatto più male che bene all’Europa.

E però, al tempo stesso, il neo-presidente ha detto chiaro e tondo che “il patto di stabilità e crescita non va modificato” e che l’Europa “non deve violare la premesse della stabilità”. Affermazione rafforzata da un secco “Io non le violerò!”. Riservandosi così, anche in vista della conclusione delle trattative con gli Stati membri per la scelta dei commissari (“Ci sarà un portafoglio nuovo, per l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali”, ha annunciato), un ampio margine di manovra negoziale.

Su questi punti Juncker ha raggiunto l’accordo con gli altri due gruppi parlamentari più numerosi. Lo ha confermato Gianni Pittella, presidente S&D, con una postilla certo non secondaria. “Il nostro appoggio è convinto e leale – ha precisato – ma non è un assegno in bianco. Verificheremo le realizzazioni e saremo intransigenti riguardo al rispetto degli impegni”. E anche Guy Verhofstadt, presidente Alde, ha ribadito il sostegno del gruppo che guida. Affermando di aver apprezzato gli impegni assunti da Juncker per ripristinare il metodo comunitario. “La Commissione deve recuperare il proprio diritto di iniziativa abbandonando la prassi di telefonare alle cancellerie delle maggiori capitali europee prima di assumere qualsiasi iniziativa”, ha detto.

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