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Clima: un accordo che parla ai mercati

Alla Conferenza sul clima di Parigi è passato il primo accordo universale sulla riduzione delle emissioni Co2. Il segretario di Stato americano John Kerry sottolinea che ora la finanza dovrà dare ritmo e misura alla trasformazione in corso, ribaltando l’equazione che vede i settori legati ai combustibili fossili predominare sull’economia rinnovabile

Clima: un accordo che parla ai mercati

Siamo venuti a Parigi per inviare un chiaro segnale ai mercati”. John Kerry è raggiante: le Nazioni Unite hanno appena approvato l’Accordo di Parigi, di fatto la prima carta universale per la riduzione delle emissioni-serra che riscaldano il pianeta. Eppure, durante la conferenza stampa in piena notte, il segretario di Stato americano non parla di cambiamenti climatici, di desertificazione, o di ghiacciai che si sciolgono. Parla di mercati. Il segnale spedito da Parigi ai mercati, “è che arrivata l’ora di cambiare direzione, per quanto riguarda la nostra collettiva dipendenza dai combustibili fossili”, sottolinea Kerry. Anzi, fra le righe dell’accordo è previsto che saranno proprio i mercati, a dare il ritmo e la misura alla trasformazione in corso.

Prendendo l’impegno di ridurre volontariamente le emissioni di anidride carbonica generate dalla combustione di carbone, petrolio e gas, i 195 Paesi che hanno sottoscritto l’accordo hanno bisogno che il mercato dell’energia, il mercato della tecnologia e il mercato della finanza mantengano il passo di una rivoluzione che promette di essere senza precedenti.

Mentre il petrolio è ai minimi e il carbone è addirittura messo in questione (società come Peabody Energy o Arch Coal nell’ultimo anno hanno perso a Wall Street oltre il 90% del loro valore), è impossibile prevedere cosa accadrà nel lungo periodo con un’adozione ancora più massiccia di energie rinnovabili. Il mercato europeo delle emissioni, il cosiddetto Ets, è anch’esso sui minimi, più che altro per colpa dei troppi certificati emessi nel passato dall’Unione Europea. Ma la Cina si appresta a dotarsi di un analogo meccanismo entro due anni, come fanno già alcuni Stati americani e alcune province canadesi: nel lungo periodo è assai plausibile che il costo di un certificato per emettere una tonnellata di anidride carbonica salirà, contribuendo a rendere ancora più convenienti gli investimenti nel solare e nell’eolico. Il presidente francese François Hollande, nel benedire il capolavoro della sua diplomazia, ha detto che la Francia mette allo studio la possibile adozione di una carbon tax. È facile immaginare che altri lo faranno, se vogliono disincentivare i combustibili fossili come promesso nella “storica” conferenza climatica di Parigi.

Tanto per dare un’idea, la società londinese Carbon Tracker ha calcolato che numerose società petrolifere si trovano già a fare i conti con i loro “stranded asset”: investimenti di lungo periodo in energie fossili che – in questo nuovo contesto politico – potrebbero finire col non produrre i ritorni desiderati. Poi c’è la tecnologia, che è un mercato anche quello. La competizione sui pannelli fotovoltaici, ad esempio, ha già prodotto negli ultimi cinque anni un aumento dell’efficienza e quindi un calo dei prezzi del 60%, con installazioni in crescita nell’ordine del 700%. Se le multinazionali petrolifere si trovano di fronte a una strada incerta e pure in salita, le società grandi e piccole che operano nelle rinnovabili e nell’efficienza energetica hanno davanti a loro un’autostrada di opportunità.

Per non parlare di quelle che sono al lavoro sulle batterie del futuro, il vero anello mancante: non abbiamo ancora una tecnologia veramente efficiente, per usare la notte l’energia generata da solare ed eolico durante il giorno.

Il che, ci porta alla finanza. Oggi le società quotate del mondo fossile – secondo le stime di Bloomberg New Energy Finance – capitalizzano nel complesso 5mila miliardi di dollari, contro i 300 miliardi di quelle delle energie pulite. Quanto tempo di vorrà per ribaltare questi pesi sulla bilancia? Forse non i cinque anni che mancano alla formale entrata in vigore dell’Accordo. Ma in dieci o quindici questa rivoluzione nella rivoluzione – certo impensabile fino a ieri – accadrà. “Il messaggio è: hey, fareste bene a tenerne conto”, ha detto il solito Kerry durante un’altra conferenza. “Qui a Parigi sono venute aziende come Walmart, Ge, Apple e Google e molte altre: vogliono tutte fare in modo che i loro prodotti vengano da un ciclo energetico virtuoso. Tutto questo, avrà un impatto sul mercato. Gli analisti di Wall Street cominceranno a distinguere fra chi seguirà questi standard o no”.

Secondo le stime del Dipartimento di Stato, le banche, non solo americane, hanno già stanziato 650 miliardi di dollari da investire nelle energie pulite. La transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è iniziata ben prima dell’Accordo di Parigi, ma si tratta ovviamente di un obiettivo a lungo termine. Secondo i calcoli degli scienziati, il picco massimo delle emissioni dovrebbe arrivare entro il 2020. È facile che ci vorrà qualche anno di più. Ma entro il 2050, dice sempre la scienza, carbone, petrolio e gas dovranno restare sottoterra, se vogliamo centrare l’obiettivo ideale del nuovo trattato internazionale: mantenere l’aumento della temperatura media planetaria «ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali e perseguire gli sforzi per limitarla a 1,5», (per chi non lo sapesse, abbiamo da poco superato la soglia di un grado). Però, c’è poco da fare: questa rivoluzione energetica, largamente basata sulla “mano invisibile” dei mercati, è ufficialmente cominciata.

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