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Albrecht Dürer, la sua storia e il suo “leprotto”

Albrecht Dürer, la sua storia e il suo “leprotto”

I critici hanno sempre rimproverato qualcosa a questa lepre. Le orecchie troppo lunghe, però bisogna riconoscere che quei centimetri di troppo concedono al leprotto un’aria di simpatia, e lo fanno apparire vivo, vero e vivace al punto che sembra ascoltarci. Erano gli anni ’60 quando due piccoli ritratti, provenienti da una casa di New York, furono acquistati per sole 300 mila lire, ma solo dopo si accorsero che erano opere di Dürer, la notizia fece subito il giro del mondo ma in Germania, come potete immaginare, fece ancora più scalpore. Si può dire che per un tedesco medio l’arte di Dürer è molto familiare: pochi sono i salotti in cui non ci sia una riproduzione della sua giovane lepre. Inoltre, molti ritratti da lui dipinti hanno adornato per anni le vecchie banconote tedesche. Non è un caso che Dürer sia uno dei grandi maestri del Rinascimento riconosciuto tra i grandi pittori europei.

Il giovane Durer nacque nel maggio del 1471, terzo di 18 figli, di un padre che esercitava la professione di orafo. Studiò qualche anno nella scuola parrocchiale, e di seguito entrò nella bottega paterna, ma il suo straordinario talento artistico convinse il padre a consegnarlo come allievo al migliore pittore della città. A 18 anni Durer si mise un sacco in spalla e partì prima per la Renania e poi per ogni dove. Finite le poche monete d’argento che aveva in tasca, per vivere iniziò a disegnare per editori e stampatori… era sempre alla ricerca della perfezione, tanto è vero che il segno rappresentava la forza e anche l’impegno verso qualcosa di superlativo che andava ben oltre l’immaginario.
Mentre Norimberga era una città colta, ricca e piena di vita, ma dove i pittori tedeschi dell’epoca insistevano nel dipingere con uno stile medievale, Dürer decise di partire per l’Italia a caccia del Rinascimento. E come Colombo due anni prima, Dürer scoprì un nuovo mondo. Con gli occhi scintillanti, il giovane tedesco, camminava per le vie marmoree di Venezia bagnata dal mare sempre con l’albo degli schizzi in mano. I colori ricchi e brillanti che vide nelle botteghe dei pittori veneziani lo sbalordirono, gli sembrava di essere circondato da figure umane che si muovevano in uno spazio avvolto da una corrente d’aria.
Ed è così che, Dürer, si impossessò del modo rivoluzionario di dipingere degli artisti italiani, questo modificò la sua arte per sempre sublimandone ogni significato. Una volta fece a cavallo tutta la strada da Venezia a Bologna solo perché aveva sentito dire che, nella città della torre degli asinelli, c’era chi poteva insegnare l’arte segreta della prospettiva.

Un’altra volta insisté con un pittore e incisore italiano, tale Jacopo de’ Barbari, perché gli dicesse come costruire geometricamente una perfetta figura umana. Ma questo non volle rivelargli nessuna nozione, magari solo perché non la sapeva, Dürer, però, continuò per conto suo la ricerca misurando gli arti di 250 uomini, finché riuscì a disegnare un corpo umano fatto di sole linee rette e curve, con riga e compasso.
Tornato nella sua città natale, Dürer, fu conquistato dalle nuove tecniche dell’incisione su legno e metallo… grazie alla sua esperienza di orafo e con il suo genio, divenne il primo incisore del mondo. Il suo monogramma AD, fu una delle sigle più celebri nella storia dell’arte. I soggetti del Dürer spaziava- no dal ridicolo alla nobiltà del tratto, sempre incantevoli per la precisione dei particolari. I suoi studi di fiori di campo, di steli d’erba, soggetti che nessun pittore occidentale prima di lui aveva ritenuto de- gni di essere riprodotti per se stessi, dimostrarono la semplice religiosità con cui egli vedeva queste cose che riteneva parte del creato.
Divenne corteggiato dall’imperatore Massimiliano I, il quale gli passava una pensione annua per una serie di lavori, come illustrare un libro di preghiere piuttosto che disegnare armature… fino a decorare un arco di trionfo. Una febbre malarica pose fine alla sua storia e alla sua ricerca della perfezione.

Il racconto è pubblicato nel volume Le farfalle di Antilia

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