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ACCADDE OGGI – 20 maggio 1970, nasce lo Statuto dei lavoratori

Sotto la spinta dell’autunno calco, nella primavera di 51 anni fa il Parlamento approvava la famosa legge 300, più nota come Statuto dei lavoratori, una vera e propria svolta nelle relazioni industriali

ACCADDE OGGI – 20 maggio 1970, nasce lo Statuto dei lavoratori

Il 20 maggio 1970, il Parlamento della Repubblica approvava la legge n. 300 definita lo Statuto dei diritti dei lavoratori: una vera e propria svolta nell’ambito delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro, sotto la spinta del cosiddetto autunno caldo del 1969.

Il voto finale ebbe luogo  alla Camera  – l’iter legislativo era iniziato al Senato – con 217 voti favorevoli della maggioranza di centro-sinistra a cui si aggiunsero i liberali; mentre il Pci e gli alleati di sinistra si astennero (non  fu una grande prova di acume politico). 

Ministro del Lavoro era il democristiano Carlo Donat Cattin che aveva sostituito nella titolarità del Dicastero, il socialista Giacomo Brodolini, deceduto l’11 luglio del 1969, al quale va riconosciuto il merito di aver promosso l’iniziativa che portò l’anno successivo al varo della legge n.300. Ma Gino Giugni è universalmente riconosciuto come ‘’il padre dello Statuto’’ perché il suo contributo, con ambedue i ministri come capo dell’Ufficio legislativo, fu fondamentale. Non si toglie nulla, pertanto, al merito di due importanti personalità politiche della Prima Repubblica, ad attribuire a Gino Giugni quella imponente svolta nel campo delle relazioni industriali, perché l’impostazione culturale prima ancora che giuridica dello Statuto diede corso alle innovazioni che Gino, come giurista, aveva impresso nel diritto sindacale.

Parlare allora di ‘’legislazione di sostegno’’ sollevava parecchie riserve e perplessità (con riscontro nel voto in Parlamento) anche tra i giuslavoristi orientati a sinistra, vicini al Pci e alla Cgil, allievi di Ugo Natoli, il fondatore della storica Rivista giuridica del lavoro.

Quella di Giugni, era una visione moderna, influenzata dall’esperienza americana (la Legge Wagner del 1935, punta di lancia dell’età di F.D. Roosevelt) ed era rivolta a riconoscere le libertà sindacali nei posti di lavoro attraverso la loro attribuzione al sindacato esterno (che può convocare l’assemblea durante l’orario di lavoro, raccogliere i contributi associativi, nominare i rappresentanti aziendali, garantire dei permessi retribuiti ai propri dirigenti in produzione, diffondere materiale di propaganda, ecc.).

Ma la novità più importante stava nell’articolo 28, (che si ispirava alla injunction dei tribunali americani),  che ammetteva un’azione giudiziaria urgente, promossa dai sindacati, per rimuovere un comportamento antisindacale, la cui sussistenza rientrava nella valutazione discrezionale del giudice. 

Da allora lo Statuto ha avuto delle modifiche legislative; alcune norme di rilievo sono state sottoposte a referendum abrogativo; si è attesa invano la sua ‘’rifondazione’’ nel contesto di uno Statuto dei lavori, auspicato da tanti (anche in queste ore) ma rimasto nel novero delle ‘’speranze deluse’’. 

Cominciando dalle modifiche più attempate è modificata la disciplina del collocamento, che, negli articoli 33 e 34 (Titolo V), riconosceva lo Stato come unico intermediario tra domanda e offerta di lavoro  che operava secondo le graduatorie incluse in liste numeriche, mentre la chiamata nominativa era ammessa in pochi e limitati casi. Un’impostazione statalista barocca, inapplicata ed inefficiente, per fortuna travolta dalle direttive europee. 

È toccato poi al jobs act di cambiare alcune disposizioni divenute superate nel tempo: l’articolo 4 (Impianti audiovisivi) riferito ai controlli a distanza, messo in crisi dalle moderne tecnologie; l’articolo 13 (Mansioni del lavoratore) rendendo più flessibile lo ius variandi del datore di lavoro onde consentire una  maggiore mobilità del personale nell’azienda che cambia. Infine, è mutato l’articolo 18 (Reintegrazione nel posto di lavoro) in tema di disciplina dei licenziamenti ingiustificati. Si potrebbe dire che tale modifica ha comportato un’altra guerra dei trent’anni (caratterizzata da scioperi, manifestazioni, referendum e anche da qualche sacrificio di vite innocenti).

Oggi l’articolo 18, nella sua applicazione generale, è stato ampiamente novellato dalla legge n.92/2012. A latere, il dgls n.23 del 2015 ha introdotto una differente disciplina del licenziamento individuale (con alcuni riferimenti ai licenziamenti collettivi) a valere per i lavoratori dipendenti assunti dal 7 marzo di quell’anno con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

La giurisprudenza costituzionale ha già modificato una norma importante quale era la prevedibilità dei costi nel caso di in licenziamento ritenuto ingiustificato. Ma le modifiche più destabilizzanti della legge n.300 sono derivate dall’esito dei referendum abrogativi del 1995 riguardanti l’articolo 19 (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali) e l’articolo 36 (contributi sindacali). Dopo l’abrogazione per via referendaria, il sistema di raccolta dei contributi associativi è rimasto intatto nella contrattazione collettiva (peraltro mediante accordi con gli enti previdenziali, ora incorporati nell’Inps, è stato esteso anche  alle ritenute associative sulle pensioni).

Le modifiche apportate all’articolo 19, tramite la medesima iniziativa referendaria, restano una ferita non sanata e costituiscono, ad avviso di chi scrive, una vera e propria destabilizzazione del sistema istituzionale previsto dallo Statuto. Il comma abrogato faceva riferimento alle ‘’associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale’’: con questa norma  il ‘’diritto vivente’’ era approdato ad vero e proprio ordinamento giuridico basato sul criterio della maggiore rappresentatività, come dato emergente dalla realtà effettiva, a prescindere dai requisiti e dalle procedure previste dall’articolo 39 Cost., una norma divenuta obsoleta, per il semplice fatto che l’ordinamento sindacale ha preso una strada diversa da quella che vi era prevista. 

La mutilazione dell’articolo 19 ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha prodotto la moltiplicazione del numero dei contratti collettivi, definiti ‘’pirati’’, ma applicati a livello aziendale. A questa situazione si sta cercando un rimedio, ma è difficile trovarlo senza dare applicazione all’articolo 39 Cost. considerato tuttavia inapplicabile all’ ordinamento intersindacale costituito nel dopoguerra.

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