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Sanità, la rivoluzione di Garattini: più prevenzione, meno classismo e stop all’intramoenia

INTERVISTA A SILVIO GARATTINI, fondatore e presidente dell’Istituto Mario Negri e farmacologo di fama internazionale – “Di fronte alla pandemia il sistema sanitario italiano ha retto ma ha rivelato le sue debolezze strutturali e il suo insopportabile classismo” – Ospedali da riorganizzare e Case della salute per la medicina di territorio – Perché “è importante abolire il servizio intramoenia” – “Le liste d’attesa sono uno scandalo non degno di un Paese civile” – A che punto è la lotta al Covid e quella ai tumori

Sanità, la rivoluzione di Garattini: più prevenzione, meno classismo e stop all’intramoenia

In passato la politica provò a sedurre il professor Silvio Garattini, farmacologo di fama internazionale e fondatore e presidente del glorioso Istituto Mario Negri, offrendogli la poltrona di ministro della Sanità ma – dice oggi sorridendo lo scienziato bergamasco – “è meglio che non se ne sia fatto niente, perché credo che se avessi provato a mettere in atto le idee che ho sul sistema sanitario italiano mi avrebbero cacciato dopo 15 giorni”. Quali fossero e quali sono ancora oggi le sue rivoluzionarie idee sulla sanità Garattini lo spiega ampiamente in questa intervista a FIRSTonline e le sue risposte, più che ragionevoli, fanno capire subito quanto la sua visione innovativa e profondamente democratica abbia il profumo dell’eresia. Qualche esempio: medici e infermieri? Bisogna assumerne molti di più e pagarli meglio. Le liste d’attesa? “Uno scandalo indegno di un Paese civile”. L’intramoenia? “Questa non è sanità ma classismo sanitario”. Ma ecco tutto il suo pensiero sul presente e sul futuro della sanità italiana.

Professor Garattini, dopo essere stati inondati di informazioni sul Covid nei mesi più drammatici della pandemia, oggi non si sa più molto di come sta andando il virus nel nostro Paese: la situazione reale qual è?

«Per fortuna le notizie sono buone: oggi in Italia c’è una significativa diminuzione della circolazione del virus grazie alle massicce vaccinazioni che sono state fatte finora e la mortalità da Covid colpisce quasi unicamente i non vaccinati. Ma nessuno può predire il futuro finché non vaccineremo tutto il mondo e il pericolo di nuove varianti che sfuggano ai vaccini già disponibili è sempre in agguato. Il virus che circola in Cina, che era ed è l’area continentale più a rischio, non è diverso da quello che è circolato e circola in Occidente e che i vaccini permettono di fronteggiare con successo. I vaccini però invecchiano e la scoperta di nuove varianti è sempre possibile: per questo la raccomandazione è sempre quella di vaccinarsi al più presto, se non lo si è ancora fatto o lo si è fatto in modo parziale, soprattutto per i soggetti fragili».

Non crede che, anche per effetto di un diverso approccio del nuovo Governo, ci sia il rischio di abbassare la guardia?

«Dobbiamo stare sempre in allarme perché non sappiamo cosa succederà nel prossimo futuro e come evolverà il virus. Ci vorrebbe un vero e proprio piano nazionale anti-virus, non solo anti-Covid. Come nel settore della difesa, ci dobbiamo attrezzare per difendere anche la salute degli italiani e non contrapporre la difesa dell’economia alla difesa della salute, perché se manca la salute, non c’è economia che tenga». 

Si sente spesso parlare sui giornali di nuove varianti in arrivo e Lei stesso ha avvertito che questo è un pericolo sempre in atto ma i vaccini di cui finora disponiamo sono in grado o no di fronteggiare la situazione?

«Il nuovo vaccino bivalente è adeguatamente in grado di affrontare le varianti di Omicron ma ovviamente la partita non è risolta una volta per tutte poiché la variante Kranken che circola negli Stati Uniti è molto contagiosa anche se da noi é molto limitata, almeno fino ad oggi».

Professore, ma Lei si è fatto un’idea sulle vere origini del Covid? 

«È stato finora impossibile e credo che sarà così anche in futuro perché la Cina è una dittatura e non possiamo fidarci dei dati che diffonde». 

È impressione generale che il sistema sanitario italiano – a parte alcuni clamorosi casi come a Nembro e ad Alzano inspiegabilmente non dichiarate subito zona rossa – abbia retto discretamente all’emergenza pandemia, ma il Covid ha messo in evidenza anche tutte le debolezze croniche del nostro sistema sanitario: dalla fuga di vocazioni dei giovani e ai turni massacranti degli specializzandi e dei nuovi medici all’emergenza continua del Pronto soccorso e alle liste d’attesa disumane di molti ospedali, per non dire della bassa percentuale di spesa sanitaria sul Pil. Se Lei fosse il ministro della Sanità cosa farebbe in via prioritaria per migliorare la sanità italiana?

«Di fronte alla pandemia il sistema sanitario italiano ha retto ma ha rivelato le sue debolezze strutturali e il suo insopportabile classismo per cui, contrariamente a quanto prevede la Costituzione, solo chi ha soldi propri ha la garanzia di potersi curare mentre i meno abbienti possono aspettare anche mesi e anni prima di una visita ospedaliera. Le liste d’attesa, che durano un tempo indefinito ma di solito non breve, sono uno scandalo indegno di un Paese civile».

Quindi la lotta all’insostenibile lunghezza delle liste d’attesa sarebbe la sua priorità?

«La riduzione o l’esaurimento delle liste d’attesa è certamente molto importante e l’esempio virtuoso del Portogallo, dove gli ospedali vengono messi in competizione tra loro per accaparrarsi gli incentivi pubblici finalizzati proprio a visitare e curare i malati il prima possibile, ci dice che eliminare questa situazione scandalosa è possibile. Ma io farei un passo indietro e prima di tutto punterei sulla prevenzione. Ci vorrebbe una vera e propria rivoluzione culturale basata sulla prevenzione che parta dagli asili e dalle scuole e arrivi a tutte le strutture sanitarie, da quelle territoriali a quelle ospedaliere, per coinvolgere tutti gli italiani e dare loro una cultura della prevenzione che ancora non c’è. Le faccio due esempi per evidenziare l’urgenza e l’importanza della prevenzione».

Prego

«Limitiamoci al fumo e all’alcol. Dalle rilevazioni più aggiornate risulta che solo il 25% dei fumatori ha ricevuto la raccomandazione dei medici di base di cambiare stile di vita e di smettere di fumare o per lo meno di ridurre il fumo. Le sembra sufficiente? Ma ancora peggio sono finora andate le cose nella lotta all’uso eccessivo di alcol: qui soltanto il 6% degli alcolisti ha smesso sulla base di una preventiva raccomandazione dei medici. Troppo poco. Ma dopo una rivoluzione culturale nel segno della prevenzione bisogna aggredire tutte le debolezze della sanità pubblica, dall’incremento della spesa sanitaria alla semplificazione e sburocratizzazione delle procedure, dalla carenza di personale medico e paramedico al miglioramento dei loro stipendi, dalla medicina territoriale alla riorganizzazione delle rete ospedaliera e all’equo accesso alla salute».

“Vaste programme” avrebbe detto il Generale De Gaulle. Scendiamo nei dettagli.

«Sulla insufficienza dell’attuale spesa sanitaria sono i numeri a parlare: per la sanità l’Italia spende il 7% del Pil contro oltre l’8% dei maggiori Paesi europei. Non sorprende allora che in Italia manchino 30 mila medici e addirittura 80 mila infermieri e già questi dati di base rendono l’idea del deficit strutturale della sanità italiana. Poi naturalmente c’è da fare un discorso di qualità e di riorganizzazione dell’intero sistema sanitario. Ma per farlo bisogna liberare il Servizio Sanitario Nazionale dalle regole della Pubblica amministrazione e del pubblico impiego: non è concepibile che per ottenere un nuovo apparecchio sanitario in una Asl o in un ospedale occorra aspettare due anni e anche più. Ecco perché sburocratizzare, semplificare e velocizzare gli interventi del sistema sanitario diventa essenziale».

Poi c’è l’emergenza medici e infermieri, che sono troppo pochi e guadagnano poco.

«Esattamente. Siamo al punto, come hanno scritto i giornali, che la Regione Calabria ha importato medici cubani. Sta aumentando il numero di cooperative che offrono alle strutture sanitarie medici a notte o a ore che costano molto di più di quanto guadagnino i medici che appartengono al Servizio Sanitario Nazionale e tra l’altro si tratta di medici che spesso non hanno le necessarie qualifiche per i pronto soccorso e per determinati interventi specialistici. Inoltre è molto importante abolire il servizio intramoenia, vale a dire la libera professione esercitata dai medici negli ospedali. Non è accettabile che, per guadagnare di più, i medici degli ospedali o dei presidi sanitari lavorino per sé stessi a pagamento anziché per la struttura pubblica e che solo chi ha più soldi possa dribblare le lunghe file d’attesa e farsi curare subito. Questa non è sanità ma classismo sanitario».

Ma abolire l’intramoenia non rischia di diventare un boomerang? Capisco il sacrosanto principio della parità del diritto alla salute a prescindere dal censo ma abolire l’intramoenia senza riorganizzare tutta la struttura sanitaria non fa correre il pericolo di ingrossare anziché ridurre le liste d’attesa che, oltre ai cittadini meno abbienti, finirebbero per aumentare inglobando chi non può più ricorrere all’intramoenia?

«Intanto è un diritto sancito dalla Costituzione e dalla Legge 833 la equa accessibilità di tutti i cittadini al Servizio Sanitario Nazionale. E quindi dobbiamo abolire un fattore che è contro l’equità. Poi ho già detto che occorre aumentare gli stipendi dei medici e dei sanitari che sono inferiori alla media europea a parità di potere di acquisto. Infine se si danno degli incentivi alle regioni che riducono le liste d’attesa sarà possibile differenziare chi può attendere, rispetto a chi ha necessità più urgenti».

Non pensa che l’abolizione dell’intramoenia, pur giusta in sé, finirebbe – se sganciata da una generale politica di riduzione delle diseguaglianze sociali – per alimentare il ricorso dei più abbienti agli ospedali e ai laboratori privati diventando così una scorciatoia che non raggiunge l’obiettivo di garantire una reale parità di diritti per tutti gli utenti della sanità pubblica? 

«Coloro che hanno risorse economiche possono utilizzare anche oggi gli ospedali e i laboratori privati».

Questi discorsi ne sollevano un altro cruciale: pubblico e privato nella sanità possono coesistere o sono destinati a farsi la guerra? Ci sono esempi di collaborazione virtuosa? Lei stesso è il Presidente e il fondatore di un benemerito istituto privato di ricerca farmacologica come il Mario Negri di Milano e di Bergamo. 

«Il Servizio Sanitario Nazionale è per definizione pubblico. Il privato dovrebbe essere integrativo quando il servizio pubblico non riesce ad esaurire i suoi compiti. Fra le organizzazioni private occorre distinguere le fondazioni come il Mario Negri che sono no-profit dagli ospedali privati che hanno invece scopi di profitto».

Professore, lei prima accennava anche alla necessità di riorganizzare la rete ospedaliera e la medicina territoriale: in che senso?

«Penso che andrebbe evitata l’attuale proliferazione di piccoli ospedali, che spesso registrano una bassa produttività dei medici perché i pazienti sono troppo scarsi. E penso invece che le attività sanitarie e le competenze mediche più complesse andrebbero concentrate in pochi grandi ospedali».

Oltre alla necessità di riorganizzare la rete ospedaliera, la pandemia ha messo in evidenza anche quella di rafforzare e ridisegnare la medicina territoriale: secondo Lei cosa bisognerebbe fare?

«Bisognerebbe aumentare il numero dei medici che oggi è troppo basso e che diventa la causa prima dell’intasamento dei Pronto soccorso. Vanno istituite le Case della salute della Comunità che già sono state frutto di sperimentazione. Si tratta di mettere insieme più medici per una determinata area geografica assumendo in pianta stabile gli attuali medici di famiglia in modo che tengano aperti gli ambulatori per 7 giorni alla settimana e 8 ore al giorno. I medici vanno integrati con infermieri, pediatri di famiglia, psicoterapeuti, avendo a disposizione una segreteria con un buon sistema informatico. Nelle Case della salute si possono eseguire le analisi di routine attraverso apparecchiature automatiche e deve essere a disposizione la telemedicina per comunicare con i pazienti e con gli specialisti ospedalieri. Deve essere integrata con i servizi sociali in modo da occuparsi delle necessità degli ammalati o degli anziani a domicilio. Va raccolto intorno alle Case della salute il volontariato del terzo settore in modo da creare una struttura che sia veramente al servizio dei cittadini. Come vede, se c’è la volontà, le idee per riorganizzare e potenziare la medicina di territorio non mancano».  

Torniamo all’Iistituto Mario Negri: oggi che realtà è, che attività svolge, come si finanzia, quanta gente ci lavora?

«Il Mario Negri svolge essenzialmente tre attività: la ricerca con particolare riferimento al meccanismo d’azione, all’efficacia e alla tossicità dei farmaci; la formazione di ricercatori attraverso dottorati di ricerca e PhD; l’informazione rivolta ai cittadini, ai medici e alle autorità sanitarie. È localizzato a Milano e a Bergamo. Vi operano 700 persone. Si finanzia attraverso fondi pubblici essendo Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), partecipando a bandi di concorso nazionali ed internazionali, ricevendo lasciti e donazioni e collaborando con industrie sulla base di regole ben definite. Il bilancio totale è di circa 32 milioni di euro all’anno. L’Istituto è indipendente dalla politica, dalla finanza, dall’industria e non brevetta ma pubblica i risultati ottenuti».

La pandemia ha cambiato e come i vostri programmi di ricerca?

«Nella sede dell’Istituto Mario Negri di Bergamo abbiamo, ad esempio, avviato un grande studio sull’influenza genetica del Covid: i risultati arriveranno fra anni ma è un lavoro di grande interesse. Nella sede di Milano abbiamo invece cominciato a studiare le conseguenze del Covid sulla salute mentale delle persone con una ricerca che ha coinvolto 45 mila soggetti. In collaborazione con altre istituzioni, stiamo studiando farmaci anti-Covid».

Un’ultima domanda sulla malattia del secolo, sul cancro. Lei è stato anche Presidente dell’Organizzazione Europea di Ricerche sul Trattamento del Cancro (EORTC) che resta il grande spauracchio anche ai nostri tempi malgrado i passi avanti compiuti dalla medicina: realisticamente, che speranze abbiamo oggi di vincere definitivamente la lotta contro il cancro e in che tempi?

«Sì, il cancro si potrà debellare ma solo se cambiamo mentalità e stile di vita e soprattutto facendo leva, come ho già detto, sulla prevenzione. Basti pensare che il 70% dei tumori è evitabile, ma in Italia ben 180 mila persone muoiono ogni anno di cancro. Che significa fare prevenzione anti-cancro? Significa intervenire sull’inquinamento, sul fumo, sull’obesità, sull’alimentazione, sull’alcol e fare ricorso sistematico allo screening. In altre parole: sconfiggere il cancro si potrà ma dipenderà anche da noi».

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