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Recovery Plan, le 10 priorità degli ambientalisti

Legambiente spinge per sbloccare cantieri simbolo come segnale per la svolta ecologica – I dubbi sui tempi per le nuove opere

Recovery Plan, le 10 priorità degli ambientalisti

Se l’Italia sblocca le opere avrà imboccato sul serio la strada della transizione ecologica. Mentre il ministro Roberto Cingolani in un incontro sull’idrogeno spiegava la sua idea di futuro green, Legambiente in un altro dibattito indicava dieci opere cui destinare i soldi del Recovery plan per intraprendere concretamente la via verde del futuro. Idea originale e intricata al tempo stesso, perché sul documento da portare a Bruxelles il mese prossimo ormai non si contano più proposte, dossier, sollecitazioni, piani di lavoro. E non che il governo non fosse presente – lo stesso Cingolani insieme a Di Maio, Giovannini, Carfagna, Amendola, Patuanelli – all’iniziativa di Legambiente. Ma bisogna capire fino in fondo dove effettivamente si andrà a parare con le decisioni future.

La prima cosa da fare per Legambiente è la riconversione verde del distretto industriale di Taranto e Brindisi. Un progetto su cui la politica non riesce a dire no per l’annosa stratificazione intorno alla sorte dell’ex Ilva. Stupisce come non si abbia chiaro che se quella riconversione viene inserita nel Recovery bisogna chiuderla entro il 2026. Parliamo di miliardi di euro e di una fila di soggetti interessati alla vicenda, oltre a tutte le ricadute sul tessuto industriale.

Poi, dicono gli ambientalisti, dobbiamo andare ad emissioni zero in pianura Padana e nei Comuni tossici del Centro-Sud. Dobbiamo bonificare le tante Terre dei fuochi e le aree petrolifere di Basilicata e Sicilia. La lista include anche parchi eolici offshore in Sardegna, nel Canale Sicilia e nell’Adriatico, il risanamento delle aree a rischio idrogeologico, i digestori anaerobici per i rifiuti organici, gli impianti per il biometano, fino ai percorsi cicloturistici lungo l’Appennino. Non c’è che dire, una pianificazione studiata in base a storture storiche del Belpaese che gli ambientalisti conoscono bene. L’elenco ha come contrappeso il no all’idrogeno da fonti fossili, lo stop all’impianto di cattura e stoccaggio di CO2 a Ravenna dell’Eni e – dulcis in fondo – il no al Ponte sullo stretto. Nel governo c’è chi la pensa diversamente. Legambiente in sostanza ha scritto un PNRR proprio «come se dovessimo spedirlo in Europa», ha detto il Presidente Stefano Ciafani.

La partita è apertissima, con i protagonisti che – come nel rugby – corrono tutti alla meta. Ma il consenso (totale?) intorno alle proposte fatte ad un parterre assai qualificato fa i conti con la previsione di spesa green di Cingolani di 80 miliardi? L’Italia ha bisogno di svoltare e non si comprenderebbero ragioni contrarie. I dossier che il governo sta esaminando, però, in che considerazione tengono la burocrazia che sottende a qualsiasi investimento? Per anni le migliori idee ecologiste sono morte davanti a ricorsi, sentenze, opposizioni di ogni tipo e di qualsiasi paternità.

Il rischio che il PNRR 2021 alla fine possa contenere indicazioni strategiche e non operative è ciò che bisogna evitare. I soldi che l’Europa accorderà all’Italia avranno una struttura contabile analitica, precisa, con scadenze periodiche per l’accredito delle somme. Non rispettare il planning vorrà dire riduzione delle somme e conseguenze immaginabili sulle imprese, sui posti di lavoro, sulla modernizzazione del Paese. Vale la pena, allora, riflettere bene e coordinare gli attori pubblici e privati affinché i cantieri non si trasformino in fenomeni illusivi da presentare all’Europa. Senza dimenticare che su alcuni capitoli – da lungo tempo no green – l’Ue ha imposto sanzioni pesantissime.

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