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Pil a confronto: Usa batte Europa con un margine dell’80%. Nel 2008 eravamo quasi pari

Un’inchiesta del Wall Street Journal mette a nudo l’enorme gap di ricchezza tra i due blocchi. E rilancia le considerazioni di Mario Draghi sulla necessità di una strategia federale per l’Europa. Borse in rosso

Pil a confronto: Usa batte Europa con un margine dell’80%. Nel 2008 eravamo quasi pari

L’Europa delle Borse si avvia a chiudere stancamente una settimana di ribassi, in vista di una riunione della Bce che si annuncia incerta e combattuta, al pari delle prossime scadenze di Bruxelles, in primis la trattativa dul nuovo patto di stabilità. Il disincanto dei mercati, preoccupati dal calo della crescita più che dall’ascesa dei prezzi, va del resto al di là di una frenata temporanea, come ha sottolineato un’inchiesta estiva del Wall Street Journal. “Gli europei – ha scritto la testata Usa – si stanno confrontando con una realtà economica che non vivevano da decenni: stanno diventando ogni anno più poveri”.

I numeri giustificano questo giudizio spietato: nel 2008 il prodotto interno lordo dell’Eurozona aveva dimensioni simili a quello degli Usa: 13.082 di miliardi di euro contro 13.635 (in dollari 14.200 miliardi contro 14.800). Quindici anni dopo il Pil è volato a 26.900 dollari oltre Oceano. Ma l’Europa viaggia poco sopra i 15 mila miliardi di euro. Tra le due rive dell’Atlantico si è creato un divario nell’ordine dell’80%, una forbice, commenta Le Monde, che spiega i flussi crescenti di turisti Usa nel Vecchio Continente, ormai alla portata delle tasche del ceto medio grazie anche alla forza del dollaro.

Usa batte Europa in economia

Il divario è ancora più sensibile, infatti, i termini di pil pro-capite. Con i suoi 32.900 dollari per abitante, secondo i conti di un think tank di Bruxelles, lo European Center for International Political Economy. L’Italia supera di un soffio il Mississippi, cioè il più povero tra i cinquanta Stati Usa. Non va molto meglio alla Francia che si piazza tra l’Idaho e l’Arkansas (rispettivamente al posto 48 e 49 della classifica). La Germania, campione economico d’Europa, si piazza tra l’Oklahoma e il Maine (38° e 39° posto in Usa). E le prospettive per Berlino (così come per l’Italia) non sono rosee vista la frenata della produzione industriale, forse qualcosa di più di uno stop temporaneo come sostiene la Bundesbank. Certo, la Germania ha la forza per affrontare i problemi posti dalla transizione energetica e dal passaggio all’auto elettrica ma l’industria tedesca (e quindi europea) si avvia a restringere il suo perimetro. Continua insomma a eccellere nei suoi settori strategici, ma perde ogni volta un pezzo (questa volta l’industria energivora) e non riesce a entrare in settori nuovi. E così, alla vigilia di una stagione contrattuale che si annuncia assai battagliera in America, i lavoratori europei guardano con crescente invidia alla busta paga media dei loro colleghi Usa: 77.800 dollari all’anno, quasi un miraggio per l’Italia, fanalino di coda della classifica europea che pure sfigura di questi numeri.

I costi dell’incertezza Ue

I limiti della politica comunitaria si riflettono insomma sulle tasche degli europei mettendo a rischio il benessere conquistato dal dopoguerra in poi. “La qualità della vita europea a lungo invidiata – rincara la dose il Wall Street Journal – rischia di svanire a mano a mano che decade la ricchezza dei portafogli”. Altra musica negli States dove, ha sottolineato nel suo recente intervento Mario Draghi “per raggiungere gli obiettivi nazionali l’amministrazione di Joe Biden sta allineando spesa federale, cambiamenti normativi e incentivi fiscali”. Il contrario di quanto rischia di fare la Ue, frenata dall’assenza di una strategia federale che permetta all’Europa “di affrontare una molteplicità di sfide sovranazionali che richiederanno in un arco di tempo limitato investimenti considerevoli, tra cui quelli per la difesa, la transizione verde e la transizione digitale”.

Certo, la crescita Usa è finanziata in buona parte da debito pubblico. Se si guardano ad esempio gli investimenti industriali, sono stagnanti in molti settori ma sono esplosi, come nei semiconduttori, dove i sussidi pubblici sono massicci. La politica fiscale ultra-espansiva e le massicce emissioni necessarie per finanziarla fanno salire i tassi reali. Ma l’Europa rischia di assorbire gli effetti negativi del rialzo dei rendimenti senza trarne, per l’eccessiva sua frammentazione. I possibili benefici. Come capita da troppi anni. Da quando, ad esempio, è andato in frantumi l’obiettivo dichiarato a Lisbona ad inizio millennio, di assumere la leadership mondiale dell’economia della conoscenza entro il 2010. “Obiettivo nobile – ironizza Le Monde – ma realizzato dagli Americani grazie a Google, Apple, Facebook, Amazon ed oggi rinnovato dal boom dell’Intelligenza Artificiale”. Di qui un gap che si riflette sui valori di Borsa, premessa necessaria per fare gli investimenti necessari a reggere la sfida planetaria.

La strada obbligata di un’Europa integrata

In sintesi, l’Ue può stare al passo e fare onore alla sua dimensione di primo mercato mondiale solo mettendo assieme le risorse finanziarie e le politiche per indirizzarle. Insomma, l’integrazione non è un sogno politico ma una strada obbligata se si vuole restare agli attuali livelli di importanza nell’economia mondiale. Altrimenti senza una force de frappe finanziaria all’altezza si rischia di finire fuori gioco. 

Ci vorrebbe “un momento Hamilton” come suggerì alla nomina il cancelliere tedesco Olaf Scholz in riferimento alla decisione del segretario di Stato Usa che, dopo la guerra di Indipendenza Americana, cancellò i debiti dei singoli Stati trasferendoli alla Federazione. Peccato che i buoni propositi del Cancelliere siano svaniti dal Covid in poi.

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