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Petrolio, il potere dell’Opec traballa

Secondo un rapporto pubblicato da Bloomberg, c’è il rischio che il cartello abbia le ore contate e faccia la stessa fine di altri patti sulle commodities, travolti dalle forze del mercato e dalle innovazioni tecnologiche – Le nuove tecniche, i nuovi produttori e i carburanti alternativi hanno incrinato il ruolo dell’Opec nella stabilizzazione del mercato.

Petrolio, il potere dell’Opec traballa

Secondo un rapporto pubblicato dall’agenzia Bloomberg, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio potrebbe avere i giorni contati. La rinuncia a tagliare la produzione, lasciando quindi scivolare le quotazioni del greggio verso i minimi degli ultimi sei anni, rischierebbe di accelerare la caduta dell’Opec, anche se la decisione assunta a fine novembre puntava soprattutto a rintuzzare la crescente concorrenza di produzioni più costose, come quelle provenienti dagli scisti degli Stati Uniti e dalle sabbie bituminose del Canada.

La mossa, fortemente sponsorizzata dall’Arabia Saudita, dovrebbe favorire ribassi prolungati, capaci di imporre la chiusura dei siti produttivi economicamente meno vantaggiosi. Ma qualche cenno storico evidenziato dalla Banca Mondiale mette in luce i rischi dell’attuale situazione. In sostanza, afferma il rapporto, la solidità di un cartello nel settore delle materie prime può essere sgretolata dalle forze del mercato e dalle innovazioni tecnologiche.

Nel secondo dopoguerra sono stati varati non pochi accordi per la stabilizzazione di prodotti come frumento, caffè, zucchero o stagno. Ma alla fine sono naufragati tutti i meccanismi messi a punto dai negoziati tra produttori e consumatori. È rimasto vivo e influente, a 55 anni dalla sua creazione, solo l’Opec, probabilmente grazie al fatto che si tratta di un cartello dei produttori, che non ha firmato alcun accordo con i Paesi consumatori.

In altri casi il naufragio è stato traumatico. L’International Tin Council, che gestiva l’accordo internazionale sullo stagno, ha bruciato molto denaro nel tentativo di garantire le entrate dei produttori del metallo, che era usato in particolare negli imballaggi alimentari. Ma nel 1985, dopo trent’anni segnati da un fragile equilibrio, il patto si è sgretolato, lasciando un buco finanziario che ha inghiottito diverse case commerciali. Colpa del tentativo di difendere prezzi troppo elevati, ma soprattutto colpa dell’esplosiva concorrenza dell’alluminio, che ha soppiantato nella produzione di lattine la più costosa banda stagnata.

Nel caso della gomma naturale, l’accordo tra i tre più importanti produttori, Thailandia, Indonesia e Malaysia, è stato messo alle corde dopo il 1997 dalla crisi finanziaria del Sud Est asiatico: le quotazioni in dollari del caucciù si sono ridimensionate, ma non hanno condotto a un ridimensionamento della produzione. Infatti i prezzi in valuta locale hanno visto un miglioramento consistente, tale da innescare un eccesso di produzione. Da qui è nata la crescente difficoltà nella difesa dei prezzi, causando i presupposti per il fallimento del tentativo.

L’Opec invece ha accusato qualche alto e basso, ma ha sempre mantenuto un  forte peso sulle dinamiche del mercato petrolifero. A differenza degli esempi precedenti, l’Organizzazione non prevede né un accordo formale con Paesi importatori, né precise clausole economiche a difesa dei livelli di prezzo. Inoltre il mercato petrolifero sovrasta per importanza tutti gli altri settori delle commodities. Però qualche scricchiolio si avverte, e si aggiunge alle similitudini con altri patti internazionali: l’ingresso di nuove tecniche, di nuovi produttori e di carburanti alternativi ha incrinato il ruolo dell’Opec nella stabilizzazione del mercato, mentre i disordini politici e sociali in diversi Paesi membri sottraggono un poco della loro capacità di manovra.

Ma il de profundis per il patto nato nel 1960 è con ogni probabilità prematuro: la verifica della salute del cartello petrolifero si potrà fare quando la domanda e le quotazioni saliranno, restituendo all’Opec un ruolo che al momento è decisamente appannato, ma che gestisce comunque il 40% dell’export mondiale di greggio.

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