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Pensioni, il dietrofront sui 67 anni profuma di elettoralismo

L’imprevista proposta di due personaggi diversissimi come i presidenti delle Commissioni Lavoro della Camera (Damiano) e del Senato (Sacconi) non ha basi razionali e – come ha documentato dal presidente dell’Inps, Boeri – costerebbe 141 miliardi da qui al 2035: solo il richiamo della foresta in vista delle elezioni può aiutare a spiegarla

Pensioni, il dietrofront sui 67 anni profuma di elettoralismo

Nei giorni scorsi si è consumato un altro attentato al già precario equilibrio del sistema pensionistico. Mentre è in corso il negoziato con il Governo sulla c.d. Fase due, le organizzazioni sindacali – che stanno trattando con il Governo e che si apprestano a promuovere iniziative di mobilitazione a sostegno delle loro rivendicazioni – hanno ricevuto un aiuto sorprendente ed insperato da parte di due importanti esponenti parlamentari, già ex ministri, ora presidenti delle Commissioni Lavoro e, soprattutto, molto autorevoli, per le loro competenze ed esperienze.

Parliamo, per chi non lo avesse ancora capito, di Cesare Damiano e di Maurizio Sacconi. I due non si amano e probabilmente neppure si stimano. Da ministri si sono sempre accaniti a cambiare i provvedimenti che l’altro aveva varato. Tuttavia l’imprevedibile accade, soleva dire Margaret Thatcher. Così i fratelli-coltelli della politica del lavoro un bel giorno hanno lasciato tutti a bocca aperta, licenziando un comunicato congiunto con i medesimi “distinguo” che caratterizzavano gli atti conclusivi degli incontri Usa-Urss durante la “guerra fredda”. Leggiamo insieme questo capolavoro di diplomazia, definito dai due presidenti ed intitolato: “Appello per una maggiore gradualità dell’età di pensione”.

“Pur muovendo da diverse impostazioni sull’assetto del sistema previdenziale – scrivono – condividiamo la necessità di un rinvio strutturale dell’adeguamento dell’età di pensione all’aspettativa di vita, che altrimenti la porterebbe a 67 anni a partire dal 2019, almeno in termini tali da introdurre una maggiore gradualità. La manovra Fornero non ha di fatto previsto una vera transizione per cui persone già prossime all’età di pensione all’atto della sua approvazione hanno subito l’allungamento dell’età lavorativa fino a sei anni. Al di là delle possibilità di trattamenti anticipati ‘sociali’ o onerosi – prosegue la nota – il sistema italiano si caratterizza già ora per il primato globale dell’età di pensione. Fermi restando gli obiettivi di sostenibilità nel lungo periodo, un po’ di buon senso aiuterebbe la società a ritrovare fiducia nel sistema previdenziale, a partire dai giovani. Rivolgiamo in tal senso un appello alle colleghe e ai colleghi di tutti i gruppi parlamentari come al Governo e nei prossimi giorni convocheremo una conferenza stampa per illustrare le ragioni e i contenuti della nostra iniziativa”.

Come annunciato, l’incontro con i giornalisti si è svolto, anche con un buon ritorno sui media, che sono sempre pronti a sostenere le ragioni attribuite ai pensionati, considerati juris et de jure la parte povera del Paese, anche se i dati ufficiali smentiscono clamorosamente questo luogo comune.

Tanto più che – a proposito di una presunta mancata transizione – sono state varate ben otto salvaguardie (per un onere di 11,7 miliardi a regime) allo scopo di garantire il mantenimento delle vecchie regole per un numero inesauribile di richiedenti. L’ottavo intervento opera essenzialmente attraverso l’incremento dei contingenti di categorie già oggetto di precedenti salvaguardie, attraverso il prolungamento del termine (da 36 a 84 mesi successivi all’entrata in vigore della riforma pensionistica) entro il quale i soggetti devono maturare i vecchi requisiti. La salvaguardia è volta a garantire l’accesso al trattamento previdenziale con i vecchi requisiti ad un massimo di ulteriori 27.700 soggetti, portando il limite numerico dei soggetti salvaguardati ad un totale complessivo di poco più di 200.000 beneficiari.

L’ottava salvaguardia intendeva concludere definitivamente il processo di transizione verso i nuovi requisiti stabiliti dalla riforma pensionistica del 2011, disponendo la soppressione del cd. Fondo esodati istituito nel 2012 e il conseguente utilizzo delle residue risorse in esso contenute per concorrere a finanziare gli interventi in materia pensionistica previsti dalla legge di bilancio (ma le bande degli esodati sono già in movimento per ottenerne una nona, con l’appoggio dei sindacati). L’Ufficio parlamentare del bilancio (Upb) ha messo in guardia, in un recente dossier, contro le forzature che si stanno facendo in materia di pensioni. In particolare l’Upb evidenzia che, con l’ottava salvaguardia per gli esodati, sono cambiate la logica e la finalità del provvedimento.

“Al di là dei dettagli di funzionamento, emerge una considerazione di carattere generale”, ricordano dall’Upb. “Sinora le deroghe alla riforma ‘Fornero’ sono state tutte veicolate da salvaguardie a frequenza annuale o infra-annuale, rivolte esclusivamente al passato, cioè a gruppi di lavoratori che, diversi per quanto riguarda altri requisiti, nel 2011 condividevano tutti una sufficiente prossimità al pensionamento. Di salvaguardia in salvaguardia questo requisito comune si è dilatato, e l’ottava salvaguardia è giunta a includere coloro che, con le vecchie regole, avrebbero visto decorrere la pensione entro 7 anni dall’entrata in vigore della riforma ‘Fornero’ (6 gennaio 2019)”.

È appena il caso di ricordare che l’aggancio automatico all’attesa di vita non è stato introdotto dalla riforma Fornero, ma è frutto dell’azione del Governo di centro-destra e di due ministri di allora: Giulio Tremonti e … lo stesso Maurizio Sacconi il quale ora chiede “un rinvio strutturale” dell’applicazione automatica dell’aggancio all’attesa di vita che porterebbe il requisito anagrafico a 67 anni a partire dal 2019. A questo proposito è opportuno ricordare che il nuovo “gradino” non è un figlio della colpa o un capriccio del destino, ma la conseguenza di una disposizione di legge che, in sede di prima applicazione, limitava, nel 2013, a tre mesi l’elevazione del requisito; in seguito, si sono aggiunti i 4 mesi nel 2016.

La tattica usata da Damiano e Sacconi è già stata sperimentata in altre occasioni (anche se loro assicurano che sono interessati solo ad un rinvio e non al superamento dell’aggancio). Si parte, al solito, con un rinvio e si finisce con l’abolizione di una norma considerata scomoda. È stato così tanto con la regola che prevedeva una lieve penalizzazione economica nel caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età, arrivando persino a restituire il maltolto a quei pochi lavoratori a cui la norma era stata applicata; quanto con l’armonizzazione del contributo – con quello dei lavoratori dipendenti – per gli iscritti alla Gestione separata. 

Non è un caso che il presidente Tito Boeri, in un’intervista lucida, onesta e coraggiosa, rilasciata a Davide Colombo su Il Sole 24 Ore, metta in evidenza il rischio che si apra addirittura una destrutturazione di carattere retroattivo: “Pensiamo – afferma il presidente – alle generazioni che hanno vissuto questi adeguamenti (…)” oppure “ha preso l’opzione donna nell’aspettativa che ci sarebbe stato l’aumento dei requisiti del 2019 e ha subìto una penalizzazione”. È plausibile, secondo Boeri, che a fronte di una situazione che cambia, questi soggetti si organizzerebbero per ottenere un risarcimento. E troverebbero ‘’un mercato politico pronto ad accogliere le loro proteste, un mercato su cui si muovono da anni gli stessi protagonisti che oggi chiedono il blocco degli adeguamenti automatici’’.

Nell’intervista Boeri contribuisce a sfatare parecchie “leggende metropolitane” che circolano quando si parla di pensioni. La prima riguarda lo spauracchio dei 67 anni, come se tutti gli italiani fossero costretti ad andare in quiescenza non prima di quell’età. Per sostenere una tesi siffatta bisognerebbe almeno trovare un italiano o un’italiana che, negli ultimi anni, sia andato veramente in pensione a 67 anni o quasi. Ovviamente, il nostro è un paradosso, ma ha un fondamento di verità se si guarda non all’età legale ma a quella effettiva alla decorrenza della pensione, che, secondo Boeri – il quale cita un dato del 2014 – è pari a 62 anni. È quindi una menzogna sostenere che i nostri sono i requisiti più severi d’Europa, perché se si guarda all’età in cui le persone vanno davvero in pensione, siamo al di sotto della media europea e ai 64 anni della Germania.

Volendo, è possibile – grazie ai dati del Coordinamento attuariale dell’Inps – conoscere l’età media effettiva riferita ai flussi dei trattamenti di vecchiaia erogati nel 2016, con riguardo ai principali regimi privati dei lavoratori dipendenti e autonomi: l’età media alla decorrenza è stata pari a 66 anni (66,8 gli uomini e 65,1 le donne). I dati cambiano di pochi decimali di punto nei primi due mesi dell’anno in corso. Va ricordato che, nel caso della vecchiaia, incide molto la parificazione tra generi, già avviata dall’ultimo governo Berlusconi ed accelerata dalla legge del 2011. Tanto che, rispetto ad allora, l’età media alla decorrenza per i maschi è cresciuta di 0,9 anni, mentre sono stati 3,7 anni per le donne.

Diverso è il trend delle pensioni anticipate/di anzianità. Dal 2012 (quando è entrata in vigore la “stramaledetta” riforma Fornero) fino a febbraio di quest’anno, sono state liquidate più di 600mila pensioni anticipate, contro 450mila prestazioni a titolo di vecchiaia. E a quale età media si è varcata, in anticipo, l’agognata soglia? Nel 2016 a 60,7 anni (dato complessivo per uomini e donne di tutte le gestioni considerate: 61,1 i primi e 59,8 anni le seconde); due decimali in più nei primi mesi del 2017. Ancora più ridotti (e quindi generosi) sono i dati dell’età effettiva di pensionamento nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti.

Ecco allora quali maggiori oneri comporterebbe il blocco: 141 miliardi di spesa in più da qui al 2035 (e un incremento di 200mila pensioni all’anno) che si aggiungerebbero agli effetti politici determinati dallo “smantellamento di una riforma (…) che abbiamo ‘venduto’ in tutto il mondo come sostenibile perché basata su adeguamenti automatici alla longevità”: automatismi che, tra le altre cose, sottraggono la materia alla discrezionalità della politica. 

È poi di grande interesse notare che Boeri ha in corso un ripensamento a proposito di un altro luogo comune che ha imperversato a lungo nel dibattito: l’aumento dell’età pensionabile ha tolto spazio all’occupazione dei giovani? “Lo stop a nuove assunzione – precisa Boeri con riferimento alla situazione in cui nel 2011 venne varata la riforma – era inevitabile (…) ora la domanda di lavoro sta crescendo più dell’intera economia. Dunque non si può fare un paragone tre i due momenti – conclude – siamo lontani anni luce”. Ben tornato tra di noi, Tito.

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