Condividi

Pasta made in Italy: più del 50% va all’estero

Il prodotto simbolo della grande cucina italiana rafforza il suo successo all’estero e fa da traino anche ad altri prodotti tipici della dieta mediterranea – A fine anno il fatturato estero della pasta è stimato a 2,4 miliardi di euro

Pasta made in Italy: più del 50% va all’estero

“Nel 2000 noi non mangeremo più, né bistecche né spaghetti col ragù, quattro pillole e la fame sparirà. Ma l’amore sempre quello resterà”. Era il refrain di una canzone degli anni Sessanta cantata da Bruno Martino; un successo musicale, ma come profezia un vero e proprio flop, visto che l’indice di gradimento di spaghetti e fettuccine, rigatoni e conchiglie continua ad avere una buona tenuta sulle tavole degli italiani, mentre macina nuovi record sui mercati internazionali. Trend confermato dagli ultimi dati dell’export agroalimentare made in Italy.

Nel primo semestre, infatti, le consegne all’estero hanno messo a segno un significativo aumento del 6,3% in quantità superando di slancio quota un milione di tonnellate; in parallelo si è mosso il fatturato, che ha raggiunto quota 1,2 miliardi di euro (+6,&%).

Le migliori performance si sono registrate nel mercato domestico europeo, che assorbe circa i due terzi dell’export totale, con una velocità di crescita più accelerata (+8,9%), mentre nei mercati extra Ue il tasso di espansione è nel complesso più lento (+1,5%),  anche se non mancano segnali molto incoraggianti  in molti paesi emergenti dove gli acquisti di pasta italiana registrano tassi di crescita a doppia cifra.

Guardando la classifica dall’alto, il primo cliente è il consumatore tedesco, con 184mila tonnellate nei primi sei mesi di quest’anno (+6,2%), alle spalle ci sono i francesi con un balzo dell’11,79%; terzo il Regno Unito, con 139mila tonnellate in crescita dell’8%. Un altro cliente storico sono gli Stati Uniti, primo tra i mercati extra Ue, dove le vendite sono ormai vicine alle 100mila tonnellate dopo il balzo dell’8% registrato nel primo semestre.

Secondo le prime proiezioni, l’export di pasta dovrebbe chiudere il 2018 con un valore record di 2,4 miliardi, che porta la propensione all’export a sfondare di poco il muro del 50%  su un fatturato totale alla produzione di 4,7 miliardi.

Difficile da quantificare, ma il successo della nostra pasta nel mondo, abbinato alla maggiore diffusione della cucina italiana nel mondo, continua a svolgere un  importante ruolo di traino sui mercati esteri anche per altre eccellenze alimentari made in Italy come l’olio extra vergine di oliva, conserve di pomodoro e formaggi Dop come Parmigiano reggiano e Grana padano.

Intanto sul piano normativo c’è da valutare l’impatto concreto che potrà avere, questa volta soprattutto sul mercato interno, l’obbligo varato di recente di indicare  in etichetta l’origine della materia prima, cioè il grano duro. Un’operazione di trasparenza per dare più informazioni ai consumatori e nel contempo valorizzare – il vero obiettivo della battaglia portata avanti soprattutto dalla Coldiretti – il grano duro prodotto in Italia con un prezzo più remunerativo per gli agricoltori. Un’esperienza, quella dell’obbligo dell’etichetta d’origine, già vissuta nell’ultimo decennio da molti dei principali prodotti alimentari di largo consumo, come latte e formaggi, ortofrutta e carni, che non sembrano però aver portato concreti risultati a favore dei produttori agricoli. Basta dare una scorsa ai prezzi del grano duro che viaggiano ai minimi storici

Per completare questo breve viaggio nel pianeta pasta, vale la pena dare uno sguardo anche ai dati a monte della filiera, in particolare ai flussi di import di grano duro di cui l’industria italiana della pasta ha bisogno per coprire il 30% del proprio fabbisogno di materia prima.

Dall’analisi dei dati emerge una mappa delle provenienze profondamente cambiata. Il Canada, primo produttore-esportatore mondiale, è quasi uscito dal radar dei fornitori. Già l’anno scorso le importazioni da Ottawa avevano subìto una riduzione di quasi il 30%, ma il vero tracollo c’è stato quest’anno, con un import, nel primo semestre, di sole 44mila tonnellate, contro quasi 400mila dello stesso periodo del 2017 (-90% circa).

Un fenomeno sul quale ha avuto un ruolo cruciale la crisi d’immagine legata alla vicenda del Glifosofate, anche a seguito di campagne mirate a denunciare l’uso disinvolto di questo diserbante . Il resto l’hanno fatto i problemi qualitativi, dopo un raccolto 2017 fortemente compromesso dal clima, e l’indicazione obbligatoria dell’origine delle materie prime su pasta e riso adottata dall’Italia.

Ma allora chi ha preso il posto del Canada, dato che il fabbisogno italiano di oltre 6 milioni di tonnellate l’anno è coperto per non più del 70% dal prodotto nazionale?

La Francia, sicuramente, ha saputo cogliere i vantaggi da questa crisi reputazionale ai danni dei produttori canadesi con un export più che raddoppiato nel primo semestre 2018. Ma a occupare gli spazi lasciati liberi dal Canada sono stati anche il Kazakistan e l’Australia, chissà se con maggiori garanzie sulla qualità dei prodotti esportati rispetto a quelle offerte dai grani nordamericani.

Le importazioni di grano duro, in generale, sono scese per tre anni di fila, portandosi a 2 milioni di tonnellate nel 2017, minimo da 4 anni. Un trend sul quale hanno inciso anche i bilanci positivi delle ultime annate del granaio italiano, nonostante le superfici siano ai minimi da cinque anni. Nel 2016 il raccolto aveva toccato addirittura un picco di oltre 5 milioni di tonnellate, ma il biennio 2017-2018 è stato altrettanto generoso, con i raccolti ben al di sopra dei 4 milioni di tonnellate.

Resta l’evidenza dei deludenti prezzi attuali registrati nelle borse merci italiane (poco più di 220 euro/ton), con valori quasi dimezzati rispetto a quattro anni fa. E questa non è buona notizia per gli agricoltori italiani.

Commenta