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New Deal sindacale davvero curioso: rivendicare dall’azienda meno orario e dallo Stato più salario. Tre obiezioni alla linea Landini

Anzichè puntare sull’aumento delle retribuzioni, al palo da troppi anni, la linea proposta da Landini al recente congresso della Cgil si concentra sulla riduzione della settimana lavorativa a 4 giorni a parità di salario, ma senza un’adeguata crescita della produttività l’obiettivo diventa poco credibile

New Deal sindacale davvero curioso: rivendicare dall’azienda meno orario e dallo Stato più salario. Tre obiezioni alla linea Landini

Al Congresso della CGIL il segretario Landini, forte di una rielezione quasi plebiscitaria ma anche del successo ottenuto con la partecipazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (invitata all’insegna della necessità di ascoltare anche gli avversari), ha indicato una serie di obiettivi sui quali si ripromette di riunire i sindacati attraverso una grande mobilitazione, e che propone alle opposizioni in Parlamento come base per una comune battaglia politica.

Settimana di 4 giorni a parità di salario

Cominciamo dalla rivendicazione della settimana lavorativa di 4 giorni a parità di salario. S’intende, naturalmente, 4 giornate lavorative per 32 ore (o meno, se per esempio il lavoro è organizzato su turni). Lo precisiamo perché in giro per l’Europa ci sono sperimentazioni di 4 giornate lavorative di 10 ore per lasciare libera una giornata in più (comunque qualcuno è già tempestivamente intervenuto per chiarire che non di questo si ragiona…).

Si sono profuse su questo argomento retorica ed enfasi, alludendo anche ad una questione di dignità del lavoro (non è stato spiegato perché lavorare 4 giorni sia più dignitoso che lavorarne 5). Ancor più, l’esigenza della riduzione della settimana lavorativa è stata messa in relazione con un approccio antropologico nuovo al lavoro, che privilegia la vita privata rispetto a quella lavorativa, innescato dal lock down e dall’esperienza del lavoro da remoto. Un fenomeno senz’altro vero, ma da verificare nella sua reale ampiezza e soprattutto nella sua concreta praticabilità. È evidente che in un’impresa che produce applicazioni informatiche o informazioni statistiche il lavoro da remoto è un conto, in un’impresa siderurgica o di assistenza sanitaria è un altro. Si tratta dunque di un’enfatizzazione a scopo promozionale.

Alla riduzione dell’orario di lavoro deve corrispondere un aumento della produttività

La realtà è un’altra, e peraltro Landini la segnala: la riduzione dell’orario di lavoro, se non si vuole provocare un calo della produzione con tutte le conseguenze del caso, deve corrispondere ad un aumento della produttività; che Landini dà per già avvenuta. Teoricamente di tutti i fattori produttivi, ma posto che la produttività della Pubblica Amministrazione, della Giustizia Civile o del sistema infrastrutturale si prevede stabile (se va bene), la produttività può aumentare solo per la componente lavoro o capitale. Cosa non impossibile: il Cruscotto Metalmeccanico della FIM CISL segnala che negli ultimi 10 anni la produttività del comparto è cresciuta del 15%. Ma i dati più generali, riferiti all’insieme dell’economia, sono molto diversi: la produttività del fattore lavoro (ossia il rapporto tra ore lavorate e valore aggiunto) dal 1995 è aumentata mediamente dello 0,4% all’anno (in U.E. dell’1,5%). L’intensità del capitale (rapporto tra input di capitale e ore lavorate) è cresciuto ad una media annua, nello stesso periodo, del 0,4%, mentre la produttività del capitale (rapporto tra input di capitale e valore aggiunto) è calata alla media annua dello 0,7% annuo risultante da un aumento dell’input di capitale (+1,3%) superiore a quello del valore aggiunto (+0,6%); nel 2021 tuttavia l’input di capitale è stato dello +0,8% ma soprattutto è cresciuto il valore aggiunto (+8,5%) determinando un fortissima crescita della produttività (+7,7%).

Resta da dire che questa è una media generale, su un periodo di 25 anni e sul complesso dell’economia. In realtà la produttività sale nella manifattura, nelle costruzioni, nel commercio e nei trasporti, ma precipita nei servizi sanitari e nell’istruzione (tipicamente pubblico impiego). Il rapporto tra produttività e salari è molto eloquente per il nostro Paese: fatto 100 il 2015 il PIL per ora lavorata è arrivato a 104 e il salario orario a 100,5: in Francia il PIL è salito a 105 e la retribuzione a 103, in Germania il PIL è a 112 e la retribuzione a 103. E questo nonostante le ore lavorate nei settori che “tirano” in Italia siano superiori a quelle della Germania: 40,4 contro 39,4 nel manifatturiero, 40,4 a 39,9 nel commercio, 40,5 a 39,9 nel turismo ( dati Istat febbraio 2023).

Le obiezioni alla rivendicazione di Landini

Alla luce di questi dati parrebbe che un “normale” obiettivo sindacale dovrebbe essere aumentare le retribuzioni, piuttosto che lasciarle ancora al palo, dove stanno da parecchi anni. Ma mettiamo in ordine le obiezioni alla rivendicazione di Landini:

  • Primo: la misura non potrebbe essere estesa a tutti settori, e in realtà nemmeno a tutte le imprese; se il criterio è quello della produttività la dimensione di cui ragionare non può che essere che quella aziendale.
  • Secondo: passare da 40 a 32 ore settimanali di lavoro (usiamo come esempio il caso più facile da esaminare) significa una riduzione di input lavoro del 20%: per non causare un calo della produzione o delle retribuzioni dovrebbe esserci una contestuale analoga crescita della produttività non diciamo del lavoro, ma almeno del totale dei fattori. Ma come abbiamo detto sopra siamo molto lontani da un obiettivo del genere. In queste condizioni la rivendicazione generale della settimana lavorativa di 4 giorni è poco credibile.
  • Terzo: è improprio e non corretto ingenerare confusione tra liberare tempo per i lavoratori e programmare un gosplan di riduzione d’orario al fine di “pagare di più il lavoro”.

Il primo caso è quello indicato dal Segretario della FIM CISL, Roberto Benaglia, per cui la contrattazione nelle aziende in cui ci sono le condizioni concrete può consentire, per esempio, che su base volontaria parte (o anche tutto) il premio di risultato venga convertito in permessi individuali retribuiti. Il secondo assomiglia molto ad una rappresaglia sulle aziende inteso ad aumentare un costo del lavoro che, inspiegabilmente, deve prendere la forma di aumenti del salario lordo orario anziché di aumenti della retribuzione mensile/annua. A completare lo scenario sbalorditivo dovrebbe intervenire la mano pubblica, che grazie alla ormai mitica sforbiciata del cuneo fiscale dovrebbe garantire l’aumento del salario netto.

Risparmiamo le considerazioni su questa recente propensione a rivendicare l’aumento del potere d’acquisto dei salari allo Stato-Fisco anziché al Capitale e concludiamo dicendo che almeno il riferimento ideale degli anni ’80 (che ahimè non ha retto alle dure repliche della storia) ossia “lavorare meno lavorare tutti” aveva un suo respiro strategico ed etico; nel caso di cui parliamo siamo di fronte ad una rivendicazione ad alto rischio di sterilità, inidonea a generare occupazione o aumento delle retribuzioni reali.

Altra cosa è definire una strategia di lungo periodo che ha come obiettivo la graduale riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione che, come l’esperienza insegna, si diffonde nel tempo con gradualità a livello aziendale attraverso accordi che scambiano produttività e retribuzione. Quando la situazione è generalizzata a livello aziendale e territoriale, diviene conseguente ridurre gli orari nei contratti nazionali e per legge.

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