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Lula, la rinascita di un presidente e le sue tre vite alla guida del Brasile: dagli anni d’oro alla galera e al populismo di Bolsonaro

Lula al suo terzo mandato si trova davanti ad una sfida: rilanciare il Brasile dopo la parentesi populista di Bolsonaro e la crisi in cui ha lasciato il Paese. Per superare la prova dovrà spazzare via alcune ambiguità, a partire dall’Ucraina

Lula, la rinascita di un presidente e le sue tre vite alla guida del Brasile: dagli anni d’oro alla galera e al populismo di Bolsonaro

Vecchio Lula, nuovo Lula. Il leader brasiliano ad ottobre compirà 78 anni e dallo scorso 1° gennaio è per la terza volta presidente della prima economia del Sudamerica, a distanza di 20 anni esatti dalla prima elezione e di 12 anni dalla fine del secondo mandato.

Lula presidente: dagli anni d’oro al populismo di Bolsonaro

Un ventennio in cui è cambiato tutto: in questo arco temporale, Lula ha prima guidato il Paese negli anni d’oro della crescita economica (facendone appunto la locomotiva dell’America Latina), poi è finito travolto dallo scandalo giudiziario Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana che gli è costata una condanna a 12 anni per corruzione, quasi due dei quali effettivamente scontati in carcere. La sua assenza forzata ha spianato la strada al populismo di Jair Bolsonaro, eletto presidente nel 2018 e protagonista di un mandato durante il quale il Brasile ha rallentato in economia, esponendosi ad un’inflazione da record e alla svalutazione del real, ma soprattutto è retrocesso sul fronte delle battaglie civili ed ambientali, isolandosi dalla comunità internazionale.

Lula e la sua nuova sfida: recuperare dopo Bolsonaro

La nuova sfida di Lula è proprio di rimettere a posto i cocci dell’esperienza Bolsonaro, consapevole però che il consenso del rivale è ancora molto alto: le elezioni dello scorso ottobre hanno sancito di fatto un pareggio, con Bolsonaro che ha preso persino più voti rispetto al 2018 e l’ex leader sindacale che è uscito vincitore per meno di 2 milioni di voti, in un Paese di 220 milioni di abitanti. La prima differenza rispetto al passato è proprio questa: il primo Lula vinse ampiamente e governò con successo, portando la crescita complessiva nei due mandati (2003-2011) al 32,6%, grazie alle commodities ma anche alla domanda interna. Lula fu protagonista soprattutto nel combattere le disuguaglianze: grazie al programma di aiuti Bolsa Familia, ridusse il tasso di povertà e ottenne una effettiva distribuzione del miracolo economico, col Pil pro capite che crebbe del 23%. Grazie a Lula e a Dilma Rousseff, che gli successe nel 2012, ben 36 milioni di brasiliani uscirono dalla povertà estrema: tra il 2003 e il 2012, il 10% più povero della popolazione ha visto crescere il suo reddito del 107%, contro il 37% del 10% più ricco.

Un Paese in crisi, tornato nella Mappa della Fame Onu

Gli scandali giudiziari fermarono però tutto questo, e con Bolsonaro, solo per citare un dato, il Brasile è tornato sulla Mappa della Fame dell’Onu: secondo l’organizzazione internazionale, oggi 33 milioni di brasiliani non hanno l’accesso garantito al cibo. E il nuovo Lula, come se la sta cavando? Intanto, nel primo trimestre di questo terzo mandato, il Pil brasiliano è cresciuto dell’1,9% rispetto a fine 2022: un dato non entusiasmante, ma nettamente superiore alle aspettative del mercato, che pronosticavano un +1,2%. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il miglioramento è già più consistente: +4%. Le buone notizie però finiscono praticamente qui. Rispetto ai primi mandati infatti Lula è un’anatra zoppa, non ha la maggioranza piena in Parlamento ed è costretto a manovre e compromessi non solo con i centristi, ma persino con alcuni ex alleati di Bolsonaro. La stampa, anche quella “amica”, non sembra convinta di alcune mosse, in particolare della sovraesposizione internazionale del presidente, che in questi mesi è stato di fatto più all’estero che a Brasilia.

Lula però deve sciogliere alcune ambiguità: prima di tutte quella sull’Ucraina

Se da un lato è utile e intelligente ricollocare il Brasile sui palcoscenici che contano, dall’altro bisogna anche vedere come viene fatto. Le posizioni ambigue di Lula sulla guerra in Ucraina, e il goffo piano di pace che sta portando avanti con Cina e India, stanno irritando non solo Zelenski ma anche il presidente americano Biden e l’Unione europea, che al presidente brasiliano imputa pure un impegno ancora insufficiente contro il disboscamento dell’Amazzonia. Il leader socialista non ha gradito la decisione univoca del Parlamento Ue di estendere a partire dal 2024 il divieto di importare materie prime ottenute attraverso la deforestazione, ma allo stesso tempo è intenzionato a concedere a Petrobras di estrarre ancora petrolio dalla foce del Rio delle Amazzoni. Lula pretende che l’Europa riconosca al Brasile lo status di Paese a basso rischio di disboscamento, ma i dati dicono altro: se è vero che quest’anno il ritmo di devastazione della foresta amazzonica sta rallentando rispetto all’era Bolsonaro, è altresì comprovato che si stanno pericolosamente riducendo altre aree verdi nel Paese, ad incominciare dal “cerrado”, la savana più ricca biologicamente del mondo, che occupa il 25% del territorio. 

Nel 2022 in Brasile è stato disboscata una superficie equivalente a 5.200 campi da calcio ogni giorno, cioè 21 alberi al minuto. Un dato ancora troppo allarmante, sul quale le contromisure del governo o non ci sono o appaiono decisamente timide.

L’incertezza di Lula pesa sul consenso popolare

Questa incertezza si riverbera anche sul consenso popolare: quello di Lula, dopo i primi mesi di governo, è basso esattamente come quello di Bolsonaro quattro anni fa. Bassissimi anche il gradimento dei mercati finanziari e dei social network: Lula pochi giorni fa ha esordito con un nuovo format di domande e risposte con i cittadini sui propri canali, ma è stato un flop. La sua popolarità digitale, secondo la Folha de Sao Paulo, è appena del 54%. Quella di Bolsonaro, all’inizio del suo mandato, superava l’83%.

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