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L’otto settembre del Pd e i tre errori fatali di Pierluigi Bersani

Le dimissioni del segretario Pd sono l’inevitabile conclusione di una gestione politica disastrosa ma i suoi errori sono stati soprattutto 3: non aver combattuto il Porcellum; non aver preso atto che la sua vittoria alle elezioni era mutilata; non aver capito che la scelta dei candidati per il Quirinale non era indipendente da una chiara scelta strategica.

L’otto settembre del Pd e i tre errori fatali di Pierluigi Bersani

Chissà se aveva avuto qualche segno premonitore o se si era reso conto delle sue difficoltà ma certo fa pensare quanto disse qualche tempo fa Pierluigi Bersani quando confessò di sapere benissimo che l’attività di un politico può finire anche con una delusione personale. Ora quel momento è arrivato, ma la delusione non è solo di Bersani ma di tutto il Pd. Bersani è una persona perbene e di buon carattere come quasi tutti gli emiliani ed è stato con successo governatore dell’Emilia e poi ministro dell’Industria. Ma da segretario del Pd non ne ha azzeccata una nemmeno per sbaglio e ha messo a nudo tutti suoi limiti di leader, la totale assenza di visione e di carisma e un’imprevista debolezza psicologica rivelata dalla sudditanza nei confronti di Vendola e dei giovani turchi e l’ostilità malcelata verso D’Alema che lo aveva lanciato sulla ribalta nazionale negli anni scorsi. Se fosse stato un allenatore di calcio, Pierluigi Bersani sarebbe già stato cacciato da tempo a furor di popolo. Le sue dimissioni sono un atto di dignità anche se giungono tardive e quando ormai i danni sono stati fatti.

 Dal giorno in cui ha assunto le redini del suo partito Bersani ha preso un abbaglio dietro l’altro, sconfessando – è questo l’aspetto politico e psicologico più incredibile – la sua origine autenticamente riformista e perdendosi sulle rive di un sinistrismo malpensato e sconclusionato. Era convinto di vincere a mani basse le elezioni di fine febbraio e s’è trovato in mano una vittoria mutilata dall’exploit di Grillo e dalla riscossa di Berlusconi. Colpa di una campagna elettorale evanescente e contradditoria? Sì, ma non solo. Colpa soprattutto di un fatale errore di presunzione e di furbizia dalla veduta corta che lo ha portato a speculare sul Porcellum, sperando di lucrarne i vantaggi anziché battersi per cancellarlo quando – nell’estate scorsa – lo spaesamento di Silvio Berlusconi e del Pdl avrebbe suggerito un forcing riformatore.

 Gli altri errori di Bersani, tutti fatali, sono venuti a urne chiuse. Prima si è umiliato rincorrendo Beppe Grillo e ricevendo in cambio solo schiaffi e sberleffi. Ma, anche di fronte all’evidente impossibilità di stringere un’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle, Bersani s’è sempre rifiutato di fare i conti con l’oste e di prendere atto che un terzo degli italiani ha sì votato Grillo ma un altro terzo – piaccia o non piaccia – ha scelto Berlusconi.

Incassato il rifiuto di Grillo per il governo, la matematica parlamentare consentiva solo un’altra maggioranza politica: quella basata sull’alleanza Pd-Pdl. Ma Bersani ha continuato a nascondere la testa sotto la sabbia e a comportarsi come se avesse vinto le elezioni con il 51%, sognando un impossibile governo del cambiamento che gli equilibri politici post-elettorali non potevano nemmeno lontanamente far immaginare. Ti può anche infastidire di governare con Brunetta e Gasparri ma se non hai in tasca  un’altra maggioranza ti devi ricordare che la politica è l’arte del possibile e devi fare di necessità virtù. Ora puoi solo fare un governo che riformi il Porcellum e ci riporti alle elezioni. Punto e basta. Ma Bersani no. Quindi: niente alleanza alla luce del sole con il Pdl ma la ricerca affannosa di voti in Parlamento per mettere insieme un governicchio affondato dalle ovvie obiezioni di una persona assennata come Napolitano.

Dopo questa non piccola serie di infortuni e di sfondoni politici, Bersani, spinto dalle circostanze, ha pensato di ribaltare il tavolo nella battaglia del Quirinale. Dopo l’ennesima inversione a U, era partito scegliendo la politica delle larghe intese – l’unica possibile vista l’inaffidabilità di Grillo – ma ha scelto il candidato sbagliato non riuscendo Franco Marini a raccogliere il consenso di tutto il Pd. Poi – per colmo di inaffidabilità e di ambivalenza – ha invertito di nuovo la rotta puntando su una personalità del calibro di Romano Prodi ma consumando due altri errori fatali: rompere immotivatamente con Berlusconi senza che si potesse minimamente imputare al Pdl l’affossamento di Marini e lanciare in pista Prodi senza essersi assicurato il preventivo appoggio di Grillo.

Ora siamo alla Caporetto o all’8 settembre del Pd, a seconda dei gusti storiografici. Ma se prima dell’elezioni l’abbaglio più grave di Bersani è stato la conservazione del Porcellum e, dopo il voto, l’illusione di aver vinto alla grande le elezioni, qual è stato l’errore che ha generato il doppio flop di Marini e Prodi nelle prime votazioni per il Quirinale? Il tragico scambio dei fattori e cioè aver anteposto la scelta dei candidati, come se fossero intercambiabili, alla scelta delle strategie politiche. Poiché era ed è del tutto evidente – anche se Bersani ha ancora una volta voluto testardamente negare l’evidenza – che la scelta del nuovo Capo dello Stato influenza i futuri equilibri di governo, prima di pensare alle candidature di Marini e di Prodi, sarebbe stato logico rispondere alla seguente semplice domanda: per il Quirinale e per il Governo meglio le larghe intese con Pdl e Monti o lo sbilanciamento a sinistra verso un improbabile accordo con Grillo? L’unica cosa che non si può fare è fingere che i candidati alla Presidenza della Repubblica possano essere del tutto avulsi o addirittura contradditori con la strategia politica che deve sorreggerli. Non aver capito questa elementare verità è alla base dell’ultimo disastro.

Di fronte alle dimissioni Bersani merita l’onore delle armi, ma prendersela con i franchi tiratori del Pd è troppo facile: spiace dirlo, ma gli errori sono stati tutti suoi. Ed è giusto che si paghino.

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