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L’ottimismo di SACE per l’export

Dal Rapporto Export SACE traspare un fondo di ottimismo sul nuovo export italiano, un ottimismo che non è solo di maniera ma trova le sue ragioni nella capacità delle nostre imprese più internazionalizzate di riordinare le loro strategie per intercettare i canali di crescita. Anche se la politica lascia troppo poco spazio a innovazione, formazione, export

L’ottimismo di SACE per l’export

L’ottavo Rapporto Export SACE 2014-17 è stato presentato mercoledì 12 marzo a Milano (in collaborazione con Borsa Italiana) e già ne abbiamo trattato sulle righe di FIRSTonline lo stesso giorno.  In seguito la SACE ha iniziato il suo tradizionale tour nella penisola per illustrarne le principali considerazioni vicino a banche e imprenditori del territorio. Il suo titolo, “Rethink – Evoluzioni e prospettive del nuovo export italiano”, ne riecheggia il contenuto: considerare le ragioni della situazione attuale e cercare di individuare le vie di sviluppo del nostro export per poter uscire dalla crisi.

Traspare, dall’analisi di SACE, un fondo di ottimismo. L’export italiano torna ad aumentare il passo e, dopo la performance pressoché stagnante nel 2013 (-0,1%), si prepara a mettere a segno un +6,8% nel 2014, accelerando il ritmo fino a raggiungere un valore di circa 539 miliardi di euro nel 2017, con un tasso di crescita media nel quadriennio del 7,3%. Ma viene da chiedersi: questo ottimismo è di maniera, o trova il suo fondamento in un’analisi accurata della situazione e delle prospettive del nostro export?

La crisi e le PMI: spazio a innovazione, formazione, export

L’analisi di SACE parte dall’evoluzione dell’economia italiana nel periodo peggiore della crisi, compreso fra il 2007 e il 2012. Le imprese esportatrici, e in particolare le PMI, sono state influenzate in diversi modi, che si possono ricondurre a due problematiche generali.

La prima è che la crisi ha reso ancora più difficile l’accesso al credito, particolarmente per le imprese di minori dimensioni. La causa di questa difficoltà risiede da una parte nella maggior prudenza delle banche, scottate da più d’una esperienza di non performing loans; dall’altra, nella minore redditività delle PMI, che ne ha fatto calare la capacità creditizia e il rating.

La seconda è riconducibile ai problemi strutturali delle nostre piccole imprese, inerenti soprattutto alla loro dimensione ridotta (e conseguente scarsa capitalizzazione), alla scarsa capacità manageriale, all’approccio ancora debole e non strutturato ai mercati internazionali e, in generale alle strategie di internazionalizzazione.

Partendo da questa premessa, si ha la possibilità di individuare qual è l’unica via d’uscita dal circolo vizioso crisi – calo della domanda – calo dei redditi e dell’occupazione – minor sviluppo – maggior debito. Questa strategia non può che passare per una serie di politiche e provvedimenti tesi a:

  • facilitare l’accesso al credito delle PMI;
  • aumentare la propensione verso fenomeni quali l’aggregazione, la creazione di reti d’impresa e distretti;
  • aumentare la possibilità di nuovi investimenti, in Italia e all’estero, soprattutto in ricerca, sviluppo e innovazione, formazione di risorse umane;
  • creare spazio per nuove assunzioni, anche con agevolazioni fiscali e contrattuali, di nuove figure professionali, adeguatamente formate attraverso percorsi multidisciplinari in settori export oriented.

I vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni, assorbiti dai problemi contingenti, non hanno saputo impostare una politica d’impresa che avesse al centro i temi fondamentali dell’innovazione, formazione ed export. E’ ormai dal 2008 che il commercio internazionale, proprio in un paese in cui esso è vitale per lo sviluppo e la crescita, non ha più la dignità di avere un ministero a se stante, al più c’è solo un viceministro o sottosegretario (con scarsi poteri) nel Ministero dello Sviluppo Economico. Il sostegno all’internazionalizzazione si è ridotto solo alla fase promozionale, che è importante ma insufficiente se ad essa non seguono le fasi del sostegno attivo alle esportazioni e agli investimenti esteri delle nostre imprese. Vanno bene la resurrezione dell’ICE – peraltro ancora incompiuta – e le missioni di sistema, ma una volta accompagnate nei mercati esteri le imprese devono essere messe nella condizione di rimanerci nel pieno della loro competitività, attraverso una rete di servizi di assistenza anche nelle fasi del post-vendita e dell’insediamento commerciale e produttivo nei paesi esteri. Dal 2008 un solo provvedimento normativo ha riguardato una razionalizzazione degli interventi di contribuzione a vari processi di internazionalizzazione (penetrazione commerciale, investimenti esteri, studi di fattibilità ecc.), ed è ancora incompiuto dal dicembre 2012, perché la Simest non ha ancora emanato le circolari attuative. Gli altri hanno operato solo tagli a sussidi e contributi, senza peraltro riordinare una materia che resta ancora estremamente ingarbugliata.  

SACE è stata una delle poche realtà pubbliche che hanno saputo coniugare alcune attività tese a raggiungere alcuni degli obiettivi sopra descritti (soprattutto quello di migliorare l’accesso al credito) con il mantenimento di una mentalità di mercato, indispensabile in un momento come l’attuale e che ha prodotto ottimi risultati reddituali: nei 10 esercizi trascorsi da quando  è diventata una società per azioni (dal 1° gennaio 2004), SACE ha generato 4 miliardi di euro di dividendi ordinari e 6 miliardi di dividendi straordinari.  Per il resto, siamo ancora in attesa del riordino degli altri enti (Simest, Finest, Informest, Camere di Commercio), promesso da molti anni e mai attuato: nel frattempo, questi enti vivacchiano senza realmente incidere nella realtà dell’export italiano.

Dunque, da questo punto di vista, l’ottimismo di SACE sembra un po’ generoso, se non si mette mano a un cambiamento della politica di crescita dell’industria.

Gli emergenti e le nostre paure

Il Rapporto SACE sembra non condividere affatto le paure che molti agitano sul futuro andamento delle economie emergenti. Infatti sostiene che si rafforzerà sempre più il processo di riposizionamento delle esportazioni italiane verso i mercati emergenti. In cinque anni, il loro peso sull’export complessivo è aumentato di circa 4 punti percentuali, a fronte di una riduzione simile dell’incidenza degli avanzati; l’UE rappresenta ormai, oggi, meno della metà delle esportazioni italiane.

Nonostante l’inevitabile discontinuità dei loro processi di crescita, saranno i mercati emergenti a generare le migliori opportunità per le imprese del “nuovo export”. Lo sforzo di investimento che stanno portando avanti, soprattutto nel settore manifatturiero, rappresenta un’ottima occasione per le tecnologie italiane, mentre la crescita della classe media, che continuerà in futuro, alimenterà la domanda dei prodotti del Made in Italy più tradizionale.

La classifica “top market”, stilata da SACE per segnalare i mercati a maggior potenziale di export, include un mix di destinazioni difficilmente etichettabile: da un lato, riflette a pieno la prevalenza dei maggiori mercati emergenti (Cina, Russia, Brasile e Turchia) e l’affermazione di nuove mete meno battute (Indonesia, Messico e Arabia Saudita ed Emirati); dall’altro lato, conferma la rilevanza di mercati avanzati ormai acquisiti quali Stati Uniti e Regno Unito. SACE ritorna, a distanza di pochi giorni, sull’importanza del mercato USA, in occasione della visita del Presidente Obama, ricordando che con tassi di crescita dell’export che sfioreranno il 9% medio annuo nei prossimi quattro anni (2014-2017), gli Usa sono il sesto mercato estero nel ranking Top Market di SACE. Grazie all’accresciuta fiducia dei consumatori americani che tornerà ad alimentare la domanda interna, gli States traineranno le performance dell’export italiano verso i paesi avanzati: risultati sopra alla media sono attesi nei settori simbolo dell’Italian lifestyle, come i beni di consumo (+8,3%) e, ancora di più, l’agroalimentare (+9,4%).

Fuori classifica, guardando a un orizzonte di medio-lungo termine, meritano una menzione quelli che il Rapporto definisce possibili target di “prossima generazione”: mercati verso i quali il nostro export registra livelli ancora non elevati ma potrebbe trovare ottimi margini in futuro (Filippine, Malesia, Mongolia, Azerbaijan, Qatar, Cile, Colombia, Peru, Panama, Nigeria, Angola, Mozambico).

Si conferma dunque quanto è emerso anche dalla nostra serie di interventi su una ventina di paesi emergenti, che stiamo percorrendo da più di un mese sulle pagine di FIRST online: non è possibile delineare un unico quadro per paesi così differenti culturalmente ed economicamente, ma a parte alcuni paesi con problemi di tipo geopolitico (Russia e Turchia) non ci sembra si possa parlare di crisi generalizzata degli emergenti.

SACE, l’ottimismo e la privatizzazione

Altre considerazioni di SACE fanno comprendere l’ottimismo che pervade il Rapporto Rethink: la consapevolezza che l’export è sempre più necessario e anzi indispensabile; la dimostrazione che le imprese internazionalizzate sono quelle che dimostrano maggiore resistenza alle avversità e quelle più solide e in grado di riorientare la produzione per intercettare la crescita; il buon nome e il prestigio che ormai nel mondo accompagnano la “strana coppia” del Made in Italy, cioè beni d’investimento e beni agricoli; l’eccellente performance di molti dei nostri principali distretti industriali.

A questo punto si apre il discorso, assai importante e delicato, della privatizzazione di SACE, che potrebbe tradursi in realtà entro l’anno, anche se non è ancora definita la forma e la misura del pacchetto azionario che Cdp collocherà sul mercato. La preoccupazione che sorge da questo annuncio è che non cambi la mentalità e l’approccio da parte di SACE, e che continuino le sue attività di servizio a favore delle imprese che esportano e investono all’estero, in particolare quelle, come le garanzie finanziarie, che maggiormente in questi anni hanno favorito l’accesso al credito di queste imprese.

Tuttavia, un’operazione del genere non è nuova: in Francia la Coface è stata quotata in Borsa mantenendo la garanzia di Stato sugli impegni assicurativi presi dalla società nell’ambito di plafond fissati da leggi di previsione annuali; lo stesso è successo in Germania con l’Hermes, che fa parte del gruppo Allianz. Se il processo di privatizzazione  viene condotto in modo corretto, lo stesso potrebbe avvenire anche in Italia. Forse sarebbe opportuno prevedere qualche paletto, come ad esempio: una limitazione alla quota azionaria acquistabile dai singoli nuovi azionisti; una quota minima da collocare sul mercato di Borsa presso piccoli azionisti, per rendere la SACE una vera public company; la possibilità di mantenere una golden share pubblica almeno per i servizi garantiti dallo Stato; la riconferma di un management che è sopravvissuto a sei governi differenti con gli ottimi risultati prima descritti, sempre unendo un motivo di servizio pubblico a una prospettiva di gestione di un’azienda sana e redditizia.

Ma su questo, permettete anche a noi di nutrire un certo ottimismo: l’ottimismo operoso della volontà, non quello futile della speranza.

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