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L’Europa e la sfida del renminbi: ci vorrebbe un New Deal

La campagna per le elezioni europee di maggio è lontana anni luce dai problemi sul tappeto, a partire dalla convertibilità della moneta cinese in euro e dagli arbitraggi sui titoli di Stato dei Paesi sovrani – Per fronteggiare le nuove sfide non si può ricorrere alle peggiori pratiche in voga ma occorrerebbe ripensare la grande lezione di Roosevelt e agire di conseguenza con un vero New Deal europeo.

L’Europa e la sfida del renminbi: ci vorrebbe un New Deal

È ragionevole ritenere che nel corso della legislatura del Parlamento europeo che si aprirà a fine maggio la moneta cinese (yuan o renminbi), a fronte dello sviluppo degli scambi internazionali del gigante asiatico, diverrà convertibile nelle altre monete, dollaro ed euro compresi. Può essere che l’incessante processo di innovazione finanziaria comporti prima che lo yuan sia negoziato su un mercato non ufficiale gel tipo OTC o tipo shadow banking, poi per forza delle cose e degli interessi sottostanti, al pari di ogni moneta divenuta forte, assuma il rango di moneta di riserva delle banche centrali al pari del dollaro e dell’euro. Non dovrà pertanto stupire se la Banca centrale cinese procederà ad investire in titoli pubblici emessi dagli stati sovrani europei: Italia compresa.

IL FUTURO DIFFICILE DELL’EURO

In questo contesto, gli arbitraggi che oggi avvengono principalmente tra due sole monete forti (dollaro e euro) riguarderanno domani tre monete, con ogni probabilità a danno della moneta che si presenterà con l’economia sottostante più debole. Forese la Ue? Ciò è soltanto un esempio dei problemi che dovrà affrontare la Ue nel corso della prossima legislatura, per il cui agire in Italia si sollecitano riforme tanto profonde quanto mai specificate. Ne consegue che il dibattito che si sta sviluppando pare lontano anni luce dalla conclamata importanza delle prossime elezioni europee. Si indicano gli obiettivi, sovente graditi alla pancia degli elettori, ma si tace sugli strumenti per realizzarli, così come sulle riforme a questi coerenti, ma forse sgradite nei sondaggi del consenso immediato.

L’ESEMPIO DEGLI USA DI ROOSEVELT

La storia documenta che alcune best practicies di metodo di governo possono risultare ancora valide. Se oggi alcuni ambiscono ad emulare sia The Donald in salsa italiana (Italy first) sia il suo ex consigliere Steve Bannon (auto dichiaratosi estimatore di Julius Evola, noto filosofo ai suoi tempi filonazista), più opportuno sarebbe che altri ambissero ad emulare e a prendere lo spunto dai comportamenti del democratico presidente degli Usa F.D. Roosevelt. Questi, come si legge nei buoni libri, per contrastare la crisi economica degli anni trenta dell’altro secolo e per dare avvio al secondo “new deal”, senza toccare i poteri della Fed (istituita nel 1913) riguardanti la politica monetaria e la forza del dollaro, prima riformò i mercati finanziari separando le banche commerciali dalle banche di investimento (Banking Act del 1932 e Glass Steagall Act del 1933); poi riformò il mercato mobiliare (Securities Act del 1933); poi istituì la SEC-Securities and Exchange Commission (1934), infine, per offrire una protezione dai rischi futuri dei lavoratori, degli anziani e dei bambini emanò nel 1935 il Social Security Act. Anche la riforma della Ue dovrebbe comportare un prima e un poi con le relative priorità e correlazioni tra queste.

I PROBLEMI DELL’UE

La politica italiana, che a suo tempo promosse e partecipò al primo new deal dell’Europa avviatosi con la sottoscrizione del Trattato di Roma, oggi stupisce che si limiti nella avviata campagna elettorale a proporre, voltandosi all’indietro, provvedimenti bagatellari come escludere gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo pubblico primario o rivedere i coefficienti per il calcolo del reddito potenziale. Si tacciono così i grandi problemi che stanno davanti e alla base della attuale cristallizzazione dell’azione della Unione Europea, che invece si ambisce a rifondare. Si tace sulla necessità di una politica fiscale di rango europeo; su di un possibile welfare europeo al pari del Social security act; sui mercati finanziari che saranno esposti agli effetti degli arbitraggi internazionali tra le monete più forti; sul governo della Ue e sui nuovi e necessari poteri per fronteggiare la forza crescente di altre economie. Sono tutti temi intrecciati tra loro, la cui soluzione condizionerà lo sviluppo economico dell’intera Unione al termine dei trascorsi “decenni dorati” e in prossimità dell’avvio di una probabile stagnazione di lungo periodo.

RIFORMA UE: ECCO COSA SI DOVREBBE FARE

Qui se ne ricordano soltanto alcuni al momento assenti nella campagna elettorale per le elezione del prossimo maggio: la mancanza di un ministro del Tesoro europeo che, affiancandosi alla Bce, guidi la politica di bilancio dell’Unione; l’irrisorio gettito fiscale che alimenta il bilancio della UE e che impedisce ogni politica redistributiva e anticongiunturale; il contrasto allo sviluppo dei paradisi fiscali e alla concorrenza fiscale entro la Ue (Cipro, Malta, Olanda e Lussemburgo) capillarmente gestita con potenti tecnologie informatiche per sfuggire alla tassazione dei redditi; la mancata realizzazione dell’unione bancaria e quella del mercato dei capitali di rischio; l’assenza di un’autorità indipendente per il controllo del mercato azionario e obbligazionario dei capitali di rischio che si affianchi e in parte sostituisca le autorità nazionali (la Consob nel caso dell’Italia); la condivisione e la mutualizzazione dei rischi dei debiti pubblici nazionali che, più che per la loro dimensione, spaventano per la reiterata sfiducia sui mercati indotta dalla sottostante attività del governo. Infine, se l’articolo 50 del trattato di Lisbona può essere invocato per uscire dalla Ue o per rientrarvi come sta insegnando il caso Brexit, senza invocare la Ue a due velocità, gli stati sovrani più riottosi, nel rispetto delle regole comuni, dovrebbero essere posti in quarantena, ad esempio nel caso della violazione dei più elementari diritti civili.

Se il trattato di Roma, con relativa perdita di sovranità degli stati aderenti, innescò il primo new deal della Comunità europea, il rilancio della Ue nel contesto internazionale non può prescindere dal considerare che le migliori pratiche di sovranità dell’Europa non consentono l’affermarsi delle peggiori pratiche delle sovranità nazionali.

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