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La Rai e il piano industriale “fantasma”

Il nuovo piano industriale per la Rai si aggira come un fantasma per i palazzi delle istituzioni.

La Rai e il piano industriale “fantasma”

Il piano industriale di rilevanza epocale per la Rai si aggira come un fantasma per i palazzi delle istituzioni. Ieri sera era prevista l’audizione dell’amministratore delegato di Viale Mazzini presso la Commissione parlamentare di Vigilanza che invece è stata rinviata a causa di altri impegni dei parlamentari. Per questa occasione (inizialmente prevista per il solo tema della presenza dei politici nei Tg) sarebbe stato anche affrontato, per la prima volta pubblicamente, il tema del nuovo piano industriale, approvato dal Consiglio di amministrazione Rai lo scorso 6 marzo, con 5 voti a favore e due contrari (uno di Rita Borioni del PD e l’altro di Riccardo Laganà, eletto dai dipendenti dell’Azienda). Intanto, come prevede il Contratto di Servizio, approvato lo scorso anno, il Piano industriale giace sui tavoli del MISE per le “determinazioni di competenza”, cioè valutare se e quanto corrisponde alle indicazioni specificamente dettagliate nel Contratto stesso.

Il Piano Industriale, formalmente, è ancora “strettamente confidenziale e non divulgabile”  anche se da alcuni giorni gira tranquillamente nelle redazioni di alcuni giornali e sui tavoli di molti parlamentari, ovviamente inclusi quelli componenti la Vigilanza che lo avrebbero ricevuto in forma rocambolesca, secondo quando ha dichiarato il deputato PD Michele Anzaldi che la scorsa settimana ha denunciato di aver ricevuto in prima battuta documenti “tagliati e incompleti” e successivamente con “incredibile censura sul Piano dell’informazione”. Di fatto, il Piano nel momento in cui è arrivato in Parlamento è pubblico e anche FIRSTonline ne possiede una copia, compresa dei cinque corposi allegati che lo compongono.

Prima però di entrare nel suo merito è necessario un piccolo passo indietro: del nuovo piano industriale che andrebbe in vigore per il triennio 2019-21 si comincia a parlare in sede di discussione del nuovo contratto di servizio tra Rai e MISE, entrato in vigore lo scorso anno, a seguito prima dell’applicazione di quanto previsto dalla Legge di riordino della governance del 2015 e poi del rinnovo della Concessione decennale.

Nel Contratto si prevede espressamente (art.25) che la Rai “è tenuta a presentare al Ministero… entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente Contratto nella Gazzetta Ufficiale, un piano industriale che, sulla base della definizione delle risorse da canone disponibili su base triennale, preveda – in coerenza con le previsioni della Convenzione – interventi finalizzati a conseguire: i) obiettivi di efficientamento e razionalizzazione attinenti agli assetti industriali, finanziari e di produttività aziendale anche al fine di recuperare risorse da destinare al finanziamento dei progetti … ii) la valorizzazione dei centri di produzione decentrati, e anche per le esigenze di promozione delle culture locali la valorizzazione e il potenziamento dei centri di produzione decentrati di Roma, Milano, Napoli e Torino, tenendo conto della loro vocazione, anche per le esigenze di promozione delle culture locali; iii) la definizione di un coerente modello organizzativo che preveda anche l’istituzione di uno specifico ufficio studi incaricato di realizzare studi e indagini inerenti l’attività dei media di servizio pubblico; iv) l’individuazione di una road map per lo sviluppo dei progetti previsti dal presente Contratto con evidenza dei necessari interventi di compatibilità economica complessiva”.

Inoltre, lo stesso contratto prevede espressamente che si debbano presentare piani distinti per quanto riguarda l’organizzazione del personale, un altro piano da presentare alla Vigilanza (e non al MISE) per la “… riorganizzazione che può prevedere anche la ridefinizione del numero delle testate giornalistiche nonché la riprogettazione e il rafforzamento dell’offerta informativa sul web”, un piano per la comunicazione concernente le istituzioni, un piano per un canale in lingua inglese e, infine, un piano editoriale che “i) sia coerente con la missione e gli obblighi del servizio pubblico; ii) possa prevedere la rimodulazione del numero dei canali non generalisti e l’eventuale rimodulazione della comunicazione commerciale nell’ambito dei medesimi canali, nonché la ridefinizione della missione dei canali generalisti; iii) sviluppi un’offerta complessiva che, attraverso la varietà dei generi e dei linguaggi, consenta di rispondere alle esigenze del pubblico nelle sue diverse articolazioni; iv) definisca una specifica quota di risorse per lo sviluppo di format originali; l’importo di tale quota deve essere non inferiore a 2 milioni di euro nel primo anno di applicazione del presente Contratto e di entità progressivamente crescente negli anni successivi”.

Come si può ben vedere, si tratta di impegni gravosi sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo organizzativo che richiedono all’Azienda di poter contare su risorse rilevanti che non è affatto chiaro di come e da dove possano provenire. Ci sono però altri profili non meno importanti, pure se non vengono mai esplicitati. Uno riguarda una specie di “piano culturale” come lo ha definito il consigliere Laganà e si riferisce al contesto generale entro il quale si colloca l’evoluzione del Servizio pubblico radiotelevisivo, in Italia come nel resto del mondo. Infine ma non da ultimo, c’è il piano più scivoloso, sul quale si corrono i rischi maggiori: quello politico. Sul progetto culturale, siamo in presenza di un quadro sociale di vasta e profonda mutazione della composizione anagrafica degli utenti, delle loro abitudini di uso e consumo di prodotti audiovisivi, che richiede uno sforzo progettuale di grande rilievo come, ad esempio, quello fatto dal Piano industriale della BBC (varato lo scorso anno) dove hanno provato ad immaginare quale potrebbe essere il futuro del Servizio pubblico radiotelevisivo inglese nei prossimi dieci anni.

In Italia, al momento, non sembra esserci nessuno in grado di promuovere e sostenere una riflessione di questo tipo. Questo ci porta direttamente al “piano politico”. Il documento del quale parliamo è figlio unico di madre vedova: viene impostato in epoca DG Antonio Campo Dall’Orto, cioè primo semestre dello scorso anno. Viene ereditato dall’AD Fabrizio Salini (luglio) che, secondo Contratto, avrebbe dovuto presentarlo al MISE poche settimane dopo il suo insediamento. Troppo poco, ragionevolmente, e allora si chiede e si ottiene una proroga di sei mesi e così’ si arriva ai giorni scorsi. Nel frattempo, il CdA di Viale Mazzini si insedia e comincia a lavorare e, di fatto, a mettere in opera un Piano industriale “fantasma” che inizia con discusse nomine alle reti e ai Tg.

Questo suscita, ovviamente, malumori politici di varia natura e si riferiscono alle tensioni parallele tra le due forze di Governo che hanno espresso la nuova governance Rai, Lega e M5S. Come al solito, il paese si rispecchia nella Rai e viceversa e da tempo si rincorrono voci di tensioni tra il Presidente e l’AD, più meno come succede tra i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio. La posta in gioco è alta: siamo alla vigilia delle elezioni europee, dall’esito delle quali potrebbe dipendere la sorte del Governo. Il controllo sulla Rai non è, come non lo è mai stato, un fattore irrilevante nella competizione politica (purtroppo) e il nuovo Piano industriale è tutto leggibile sotto questa chiave di lettura.

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