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La parabola di Apple: dal quasi fallimento al trilione

Giovedì 2 agosto 2018 la Apple è stata la prima società della storia a superare i mille miliardi di dollari di capitalizzazione: da sola, vale quasi quanto il Pil del Messico – Ma nel 1997 l’azienda, parole di Steve Jobs, “era al verde. Avevamo i soldi solo per 90 giorni”. Ecco cosa fece per farla diventare il colosso che è oggi

La parabola di Apple: dal quasi fallimento al trilione

Una rimonta prodigiosa 

Giovedì 2 agosto 2018 la Apple è stata la prima società della storia a superare il trilione di dollari di capitalizzazione. Adesso vale poco meno dell’intero prodotto interno lordo di una nazione come il Messico. Dopo un trimestre record, in due giorni di scambi, ha aggiunto 80 miliardi di dollari al valore complessivo delle sue azioni che hanno superato il traguardo annunciato del trilione di dollari. 20 anni fa la società di Cupertino era sull’orlo del fallimento.  

In una intervista del 2010 Steve Jobs ha ricordato che la Apple nel 1997, al momento cioè del suo rientro alla direzione della società, aveva soldi solo per 90 giorni. “Eravamo al verde – ricorda Jobs – Era molto peggio di quanto pensassi. La questione non era tanto rimettere in carreggiata la Apple, ma: potevamo far tornare nuovamente grande la Apple?”. 

Se allora non succedeva qualcosa non ci sarebbe stata altra alternativa dal portare i libri contabili in tribunale. Ma qualcosa accadde e l’aiuto venne dall’arci-nemico Bill Gates che con il suo ubiquo Windows, in groppa al devastante destriero del network effect, stava portando all’irrilevanza l’intera Silicon Valley e la Apple, suo storico competitor, al fallimento. Gates acquistò 150 milioni di azioni Apple e si impegnò a portare Office sul Mac. Jobs ringraziò tra lo stupore degli aficionados e le linee di credito si riaprirono per la Apple. Una famosa copertina di “Time” instagramma questo momento. 

Appena arrivato alla Apple Jobs chiuse il 70% dei progetti ideati dai suoi predecessori (tra i quali il Newton), per concentrarsi su una manciata di prodotti fortemente innovativi focalizzati sulla semplicità, la diversità e il design industriale. Vennero quindi gli iMac multicolorati, il MacG3, un computer da scrivania affusolato, pudicamente trasparente e con due maniglioni per sollevarlo, benché molto leggero per un computer di quella stazza. L’interno era ancora più accattivante del di fuori. Quella delle maniglie per muovere e trasportare il computer era una fissa di Steve Jobs. Ce l’aveva il primo Mac e ce l’avevano gli iMac. Un’altra fissa di Jobs era la ricerca della perfezione nelle cose che non si vedevano. Al tempo del NeXT Jobs aveva detto ai suoi collaboratori che si irritavano davanti al perfezionismo del loro capo anche sui particolari più nascosti: “Se sei un falegname non appiccichi un foglio di compensato sulla parte posteriore perché tanto non si vede.” 

Le due scelte seminali 

Insieme alla nuova linea dei Mac Jobs prese altre due decisioni enormemente seminali per instradare la Apple sulla via del trilione. Decise di ricostruire l’intera infrastruttura software di sistema e applicativa della Apple su quella sviluppata dal team di NeXT nel decennio di esilio dalla Apple (dal 1985 al 1996). La tecnologia di NeXT e le sue librerie software si trovano tutt’oggi (a 30 anni di distanza) nel sistema operativo degli iPhone e nel Kit di sviluppo delle applicazioni. Così nel 2001 la Apple uscì con il suo nuovo sistema operativo, Mac OS X, fondato sull’architettura NeXTSTEP. Il software tornò al centro della strategia Apple, anche se non se ne aveva la percezione immediata, distratti dall’appeal dell’hardware. C’era un bel corpo, ma c’era anche una grande intelligenza. 

La seconda idea feconda fu il servizio. Okay Hardware, okay software, ma anche servizi a sostegno dei prodotti e, perché no?, servizi in quanto servizi. Tutto in uno. Ed ecco che nel gennaio 2001 la Apple aprì iTunes Store, un negozio, separato dal web, sul quale acquistare canzoni, film, video e ascoltare podcast. iTunes non era certo un negozio buttato là tanto per fare qualche dollaro in più, ma era fortemente integrato con tutto l’hardware Apple e con l’iPod, un dispositivo tascabile per ascoltare musica e podcast. Integrato anche a protezione dei contenuti, che Internet iniziava a saccheggiare scandalosamente privando di risorse l’industria della creatività e i suoi attori. 

Il software avrebbe aperto la strada ai device portatili e iTunes avrebbe fornito il modello per tutti i successivi servizi sviluppati dalla Apple, primo fra tutti l’AppStore per le applicazioni che oggi è una gallina dalle uova d’oro 

All’epoca questi eventi, la paga di Jobs era un dollaro l’anno più stock options, quest’ultime inesistenti fino al 2001. Oggi la paga di Tim Cook è di 13milioni di dollari (3 milioni di salario + 10 di bonus), senza considerare il valore delle azioni in suo possesso. Steve Jobs ha fatto il lavoro e poi se n’è andato come il cavaliere della Valle solitaria. Un’analogia per certi versi stupefacente con il nostro Sergio Marchionne la cui condotta e personalità ha molte similitudini con la visione e la leadership di Steve Jobs. Anche Marchionne ha fatto il “lavoraccio” e poi se n’è andato come il cavaliere della Valle solitaria.  

Una cavalcata epica 

Per andare da meno 3 miliardi di dollari (valore nel 1997) al trilione di oggi ci sono voluti venti anni e venti anni sono tanti, ma di casi così se ne sono visti ben pochi nella storia industriale moderna. È stata una cavalcata incredibile, quella di Apple come non manca di rimarcare Jack Nicas sul “New York Times” quando scrive: “L’ascesa di Apple dalla soglia della bancarotta alla società più valutata del mondo è stato uno stupefacente tour de force industriale, segnato da una forsennata innovazione, da una serie di prodotti bomba e dalla creazione di una sofisticata, globale e capillare filiera di produzione in grado di portare sul mercato un enorme volume di prodotti d’avanguardia in un regime di controllo attento dei costi”. 

Durante questo percorso la grande stampa e gli analisti non sono stati teneri con Apple. Dalle azioni retrodatate, alla malattia Jobs, dalla delocalizzazione della produzione in Cina alle condizioni di sfruttamento dei lavoratori impegnati nella costruzione degli iPhone, dai dubbi sulla durabilità del modello di business alla ossessione degli analisti sulle vendite degli iPhone, la corsa della Apple è stata disseminata, come scrive sempre Jack Nicas, da “controversie, sfide e tragedie”, ma non si è mai arrestata, neppure con la prematura scomparsa del suo indiscusso leader. Si era accusato Job si non avere una linea di successione e invece c’era.  

Ad Apple non sarebbe bastato Jobs per diventare quello che è diventata. Quando Jobs presentò l’iPhone nel 2007, la capitalizzazione di mercato della Apple era di 78 miliardi di dollari, una quotazione che, dopo il Q3 del 2018, ha aggiunto in una giornata. Ci voleva la squadra e la squadra c’era. È stato Tim Cook a riorganizzare tutta la catena industriale che ha risolto l’atavico problema di Apple, cioè lo iato tra il successo dei suoi prodotti e l’andata al mercato degli stessi. Sfasamenti, ritardi sono stati superati dalla macchina produttiva ideata e creata da Cook che ha portato in Cina tutta la filiera produttiva, l’unico sistema industriale, come disse lo stesso Jobs a Obama, in grado di tenere il passo con la Apple. Adesso la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è una delle maggiori preoccupazioni del management Apple e degli azionisti. 

Lo schema dei prodotti Apple 

Ogni prodotto Apple segue un preciso schema elaborato da Jobs fin da quando era nel garage del padre insieme a Wozniack. Si tratta di un’architettura che consiste nella totale e imprescindibile integrazione di tutti i componenti di un prodotto che devono essere progettati, costruiti e messi insieme nell’ambito di un progetto organico e finalizzato. In questo schema ci sta anche il marketing e la distribuzione, che è la parte terminale di ogni progetto. In questo modo ciascun componente può essere controllato, personalizzato e adattato alle esigenze degli altri e portato, così, alla sua massima implementazione. Solo con questa architettura può attuarsi quell’innovazione continua di prodotto e quella differenziazione dalla concorrenza in grado di creare un nuovo mercato e di scardinare gli assetti esistenti. “Spesso la gente non sa quel che vuole finché non glielo mostri tu”, era uno dei mantra di Jobs, quando qualcuno gli proponeva di creare un focus group per capire i trend di consumo.  

Può succedere che l’hardware Apple di per sé sia inferiore a quello della concorrenza premium, che il software di alcune start up innovative abbia caratteristiche migliori di quello di Apple, che i servizi forniti da strutture specializzate abbiano connotati più evoluti di quelli di Apple, ma il tutto messo insieme e ottimizzato produce un qualcosa che è percepito, e in effetti è, largamente superiore a quello che può essere creato semplicemente assemblando le componenti migliori di terze parti che, prodotte autonomamente e con diverse strategie aziendali, non hanno la minima velleità di integrazione. In questo caso la mano invisibile è un collante meno efficiente della mano visibile che è quella che produce la differenziazione. “Siamo gli unici ad avere in mano l’intero gingillo, hardware, software, sistema operativo e distribuzione. Possiamo fare quello che vogliamo” dichiarò Jobs in una intervista nel 2005. 

Ed è proprio la differenziazione creata da questa architettura avviluppante ideata da Jobs, che sembrava il tallone d’Achille della Apple, ad aver portato la società di Cupertino al trilione di dollari. Inoltre, come è successo, ogni singola parte del progetto spinge l’altra, il servizio sostiene le vendite dell’hardware, l’hardware porta clienti al servizio, il software è il sistema nervoso e li collega come in un organismo vivente. 

Non è un caso che una delle prime decisioni prese da Jobs al suo rientro in Apple nel 1997 fu proprio quella di mettere fine al programma di licencing del sistema operativo del Mac a costruttori di terze parti che in effetti stavano costruendo dei sistemi migliori di quello di Apple. Lo stesso era successo a IBM quando il fornitore del sistema operativo del suo personal computer, iniziò a fornire lo stesso software a tutti i costruttori che lo richiedevano. Fu allora che Compaq uccise il personal IBM, perché IBM non aveva avuto la capacità di vincolare Microsoft in un contratto di esclusiva. Ma neppure poteva. 

Oggi la Apple è una corazzata motorizzata da quattro turbine che producono ricavi dell’ordine di miliardi di dollari: l’iPhone, i servizi, gli wearable, e i Mac. Dei 53 miliardi di dollari di vendite dell’ultimo fortunato trimestre l’iPhone ha contribuito con 29,9 miliardi e con 41 milioni di unità vendute, l’iPad e gli altri prodotti (Apple Watch, EarPods, accessori) con 8,1 miliardi, i servizi con 9,5 miliardi di dollari e infine i Mac con 5,3 miliardi, quest’ultimo comparto in forte calo rispetto al terzo trimestre 2017. Purtroppo sul Mac non sono state fatte delle scelte corrette, nel tentativo di spingere la clientela a dirigersi verso gli iPad pro. Ma la Apple sta ponendo rimedio a questo difetto di strategia. 

…un’ultima cosa 

Un’analisi accurata dei dati comunicati dalla Apple effettuata da Ben Thompson, sul suo seguitissimo blog Stratechery, mostra un trend di mercato abbastanza definito che alla fine dà ragione alla strategia adottata da Tim Cook che, più che puntare su nuovi eclatanti prodotti, mira a monetizzare al massimo le risorse esistenti e a “spremere” i clienti fidelizzati portandoli ad aderire a tutti i programmi dell’ecosistema Apple. Thompson analizza l’andamento dei ricavi in relazione del prezzo medio di vendita degli iPhone (ASP) in un arco di 12 mesi (TTM).  

Succede che quando il prezzo medio è più alto, come nel caso dell’iPhone X, si realizzano le vendite più alte in termini di ricavi a quantità sostanzialmente stabili o leggermente declinanti. L’andamento dei ricavi si è in qualche modo svincolato dalla quantità di unità vendute. Questo significa che la parte alta della clientela Apple non ha alcuna remora ad acquistare i nuovi prodotti indipendentemente dal loro prezzo, o come scrive Thompson “Apple targeted high-end customers, who proved to be not price sensitive at all”. 

E in effetti il prezzo medio degli iPhone è cresciuto del 15% nel primo trimestre del 2018, dell’11% nel secondo e del 20% del terzo. In termini monetari: + $101,85 nel primo, +$73,36 nel secondo e infine +118,40 nel terzo. 

Una clientela che non guarda più al prezzo è il sogno di ogni impresa e dei suoi azionisti. Tanto di cappello, Apple. Ma come farà a mantenere nel tempo questo livello di prestazioni? È questa la sfida più grande, simile a quella che Jobs dovette affrontare quando lo richiamarono a guidare una Apple mezza-fallita. 

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