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La Magneti Marelli e l’industria italiana tra Pigmei e Vatussi

La recente cessione della Magneti Marelli da parte di Fca appare come l’ennesima “occasione perduta” dell’industria italiana nella quale le grandi imprese diminuiscono di numero e rimpiccioliscono nella dimensione

La Magneti Marelli e l’industria italiana tra Pigmei e Vatussi

La recente cessione della Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kanzei, annunciata da Londra lo scorso 22 ottobre, riporta alla ribalta la questione dimensionale e la proprietà familiare della nostra industria.  Qui si tratta di una cessione operata dalla FCA, un grande gruppo espatriato dall’Italia all’Olanda nel 2015, ancora oggi a controllo familiare; cessione ad una società giapponese di dimensioni molto simili facente capo al fondo americano di private equity KKR. 

FCA è molto indebitata: al giugno scorso segnava 16,6 miliardi di euro di debiti finanziari a fronte di un patrimonio netto tangibile negativo di circa 3 miliardi. Su un totale attivo di 99,5 miliardi di euro gli intangibles (avviamenti e altri oneri da ammortizzare) sommavano 25,6 miliardi e cioè poco meno del valore delle immobilizzazioni materiali (28 miliardi), cioè quei cespiti che rendono possibile la gestione. A fronte dei 16,6 miliardi di debiti erano iscritti 14 miliardi di attivi finanziari a breve scadenza tra fondi in cassa, presso banche ed equivalenti la cui presenza ha sempre suscitato qualche interrogativo. 

Il valore della cessione, di cui non si conoscono ancora i dettagli, è dichiarato in 6,2 miliardi di euro e costituisce un discreto potenziale miglioramento dell’assetto finanziario di FCA. Il comunicato ufficiale insiste sulla crescita futura di Magneti Marelli, ma è evidente che, oltre allo sgravio debitorio del venditore, l’operazione farà crescere innanzitutto l’acquirente: CK passerà infatti da 7,7 a 15,2 miliardi di euro di fatturato, potenzierà l’offerta e potrà sfruttare un mercato maggiore e più diversificato. 

A mio parere si tratta di un’occasione perduta dall’industria italiana che in luogo di una banale cessione poteva generare una “nuova” grande impresa nazionale con respiro globale. Invece si conferma la tendenza ormai storica del nostro capitalismo che vede il consolidamento di grandi gruppi esteri fronteggiati da poche grandi aziende italiane a controllo statale e, soprattutto, da nugoli di piccole e medie imprese.

Si rafforzerà ahimè quel “mantra” che porta molti (spesso disinformati) studiosi a lamentare l’eccesso di piccole imprese, il loro presunto ostacolo allo sviluppo della produttività, la loro bassa propensione all’internazionalità, il loro rifiuto di usare manager esterni alla famiglia controllante, la loro vulnerabilità al passaggio generazionale e la loro inadeguatezza all’applicazione delle nuove tecnologie. Proprio questi ultimi aspetti (o timori) hanno costituito lo scorso 23 ottobre motivo di approfondimento per gli iscritti al Master in Corporate Governance istituito dall’Università Cattolica di Milano. Tutte queste imprese “minori” sono un bene o sono un male? Ad un interrogativo del genere un docente di prima grandezza della Cattolica, Raffaele Mattioli che vi insegnò tecnica bancaria tra il 1939 e il 1944, avrebbe risposto che sono “un fatto”! E con i fatti bisogna confrontarsi studiandoli a fondo.

Ogni anno, secondo i risultati dell’Osservatorio AUB sulle imprese familiari, si può calcolare che in Italia avvenga un passaggio generazionale ogni 61 imprese. Se consideriamo che le imprese attive censite dall’Istat sono 4.400.000 questi passaggi dovrebbero contarsi nell’ordine delle decine di migliaia. E poiché le imprese familiari tendono a manifestare una certa resilienza (quanto meno nel numero) dovremmo dedurre che essi si concludano il più delle volte con un qualche successo. Ma per capire questo successo occorre riflettere sull’evoluzione storica della nostra industria.

E’ opinione dei vertici di Bankitalia che “gli imprenditori a volte non vogliono aumentare troppo le dimensioni della loro azienda” (così Salvatore Rossi a Venezia il 5 ottobre scorso); un’opinione che ha molto seguito nell’accademia e nei pubblicisti, che si basa in primo luogo sull’assioma che vuole una grande azienda più efficiente di una piccola. Ebbene dobbiamo renderci conto che questo assioma poteva valere ai tempi di Henry Ford, ma è poi stato spazzato via dalla storia industriale che ha visto la flessibilità e la qualità prevalere sulla grande scala produttiva.

La trasformazione della domanda di beni nei paesi progrediti e l’avvento dell’informatica (a partire dagli anni 80 del secolo scorso) hanno condannato il capitalismo fordista favorendo quello che Giacomo Becattini ha chiamato “capitalismo dal volto umano”. La base non è più un capitale finanziario investito per trarne profitti e plusvalenze di natura puramente speculativa, ma un’impresa fondata e gestita da persone che sviluppano i loro progetti di vita puntando non solo e non tanto al “guadagno” in sé, ma alla joie de vivre e alla posizione sociale. E’ questo il “motore sociale” dei distretti e condannare questi imprenditori perché non vogliono accrescere le dimensioni finanziarie, ad esempio quotandosi in borsa, equivale a rimproverare due rette parallele perché non si incontrano mai.

Questa evoluzione distrettuale, che risale agli anni del miracolo economico e si è consolidata negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, si è poi combinata con l’emersione delle medie imprese (Quarto capitalismo), i due terzi delle quali ha origini distrettuali. Ma il vero problema italiano non è l’eccessivo numero (oltre 4 milioni secondo l’Istat) di piccole imprese che non vorrebbero crescere, bensì il basso numero delle grandi che si incaponiscono a regredire. Secondo i dati censuari, le imprese manifatturiere con 1.000 e più addetti sono passate da 339 nel 1971 a 176 nel 2011 e ciascuna di loro ha diminuito la dimensione media da 3.877 a 2.438 addetti. Quindi le grandi imprese sono diminuite di numero e rimpicciolite nella dimensione: invece di condannare la mancata crescita dei piccoli pigmei non dovremmo cercare di rimediare al regresso dei grandi vatussi? Ovvero, non dovremmo fare in modo che la parte di economia sostenuta dai pigmei venga ampliata aggiungendone una sostenuta dai vatussi?

Quanto poi all’assioma della produttività bisognerebbe riflettere sul fatto che il saldo attivo della nostra bilancia commerciale con l’estero è attribuibile totalmente alle imprese minori: nel 2017 i beni che distretti e medie imprese hanno esportato hanno superato le rispettive importazioni per un importo pari a 103 miliardi di euro qualificando l’Italia secondo esportatore netto dell’UE dopo la Germania; i beni tipici delle grandi imprese (chimica, automotive, siderurgia, ecc.) hanno registrato al contrario un saldo negativo pari a 6 miliardi di euro. Si vince sui mercati esteri se si è produttivi e i dati appena esposti dimostrano che gli assiomi che vanno per la maggiore debbono essere rivisti; come pure le metodologie di calcolo della produttività (Ptf) che vengono correntemente usate dall’accademia i cui risultati vengono confutati dai fatti. 

La lezione sul passaggio generazionale nel citato Master della Cattolica ha visto la testimonianza di un imprenditore cosiddetto “minore” (circa 150 dipendenti). Opera in uno di quei settori che il “mantra” considera sbagliati (il tessile). Non è un presumibile rozzo artigiano dalle mani callose: oltre a possedere una laurea conseguita alla Cattolica, ha profonde competenze direzionali guadagnate lavorando in imprese industriali in Italia e all’estero. A 40 anni subentrò al padre nell’azienda di famiglia dove sviluppò la presenza nel settore dei filtri a capillarità controllata; una produzione molto specializzata che, con due miliardi di pezzi all’anno, insiste su una nicchia di mercato mondiale di cui controlla il 50%. Produzione fortemente automatizzata, inclusi i controlli di qualità e le emissioni zero della fabbrica. Sotto l’aspetto finanziario il suo merito di credito presso le banche è assimilabile al livello di tripla A. Infatti, uno dei segni distintivi del Quarto capitalismo è il ruolo dell’autofinanziamento: gli aggregati nazionali di queste imprese confermano annualmente una struttura che vede i mezzi propri coprire interamente il fabbisogno per gli immobilizzi lasciando al credito bancario solo una quota degli impeghi in capitale circolante.

Quando si parla di imprese familiari è frequente la citazione dell’effetto Buddenbrook, in base al quale, seguendo la trama dell’omonimo romanzo di Thomas Mann, la prima generazione crea, la seconda conserva e la terza distrugge.  Non v’è dubbio che in alcuni casi ciò avvenga, ma la norma non può essere questa ricordando la numerosità permanente delle imprese familiari e, circa il Quarto capitalismo, la loro governance. Nei modelli migliori essa prevede un patto di famiglia che dispone una selezione del successore basata sulla competenza acquisita sia sugli studi (compreso un master) sia sul campo; e una data di passaggio che veda il nuovo leader in un’età nell’intorno dei 35-40 anni: non troppo pochi per garantire l’esperienza e non troppi per garantire l’intraprendenza.

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