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“Italia svegliati! Tassi e inflazione mettono a nudo i problemi di sempre: il governo sbaglia sul Mes, ma l’opposizione dov’è”? Parla Noera

Intervista a Mario Noera, economista della Bocconi. La stagione dei tassi alti è un serio problema per l’Italia che porta il peso di un debito enorme. L’opposizione avrebbe dovuto saltare sul Green Deal in toto invece il progetto è stato smontato. E la recessione può colpire più di quanto ci si attenda

“Italia svegliati! Tassi e inflazione mettono a nudo i problemi di sempre: il governo sbaglia sul Mes, ma l’opposizione dov’è”? Parla Noera

Cara Italia, non t’illudere. Il nodo del debito, complice il rialzo dei tassi, sta per tornare al pettine. E s’impongono scelte rapide ed efficaci all’insegna di strategie che, per ora, non si vedono, a destra come a sinistra. Salvo trascinare il Paese verso un nuovo declino industriale. Mario Noera, docente in Bocconi in Finance and Banking, una vita da consulente dei maggiori gruppi del Bel Paese, non fa sconti a nessuno, a destra come a sinistra, in vista di una stagione che si annuncia ricca di insidie. Anche perché prevale la tattica elettorale invece della necessaria visione strategica. E così, tra Patto di Stabilità e  Mes, si rischia un brutto risveglio.

Professor Noera, sembra un grido d’allarme in fotocopia. Un anno fa, alla vigilia delle elezioni, nessuno avrebbe scommesso sulla discesa dello spread, la crescita di Piazza Affari ed un Pil più dinamico di Francia e Germania. Lei ci avrebbe scommesso?

“No, all’epoca prevaleva la prudenza. L’impressione più diffusa era che fosse in vista un cedimento generale che non si è verificato anche perché sono emersi fenomeni nuovi”.

Quali?

“Si sono ricreati nel tempo alcuni elementi favorevoli alla ripresa dei prezzi energetici che non era possibile vedere prima. In particolare, si sono create situazioni favorevoli ai profitti che non si vedevano da dieci o vent’anni. Le condizioni di mercato dopo l’impennata seguita allo scoppio della guerra hanno permesso un aggiustamento dei prezzi e difesa dei margini. E questo tecnicamente ha in qualche modo favorito la ripresa dei profitti ancor più degli stessi margini. Un fenomeno in un primo momento sottovalutato ma che ha consentito alla borsa di salire, nonostante il contemporaneo aumento dei tassi”.

Un fenomeno virtuoso. O no?

“Se i prezzi salgono nella stessa proporzione dei margini, la quota destinata ai profitti resta costante. Altrimenti, se a parità di fatturato, i prezzi salgono più dei costi, allora i profitti delle imprese aumentano. L’anno scorso si è registrato un forte shock sui prezzi energetici che in un primo momento ha compresso i margini salvo poi favorire un forte recupero che ha generato un aggiustamento dei prezzi finale più che proporzionale: l’energia ha preso a calare, i profitti molto meno. E questo è uno degli elementi che sostiene l’inflazione e la rende più vischiosa: il prezzo dell’energia è calato, i prezzi molto meno, mentre i profitti sono aumentati”.

Ha ragione perciò chi accusa i profitti quale causa di inflazione?

“In parte sì, ma il fenomeno è complesso con forti differenze tra Europa e Usa. Oltre Oceano contano di più le tensioni salariali in una cornice di eccesso della domanda ben maggiore di quello che si verifica in Europa. Qui siamo di fronte a condizioni di mercato ben diverse.”

In che senso?

“Credo che il processo di scomposizione delle catene di valore abbia ricreato condizioni di monopolio locale che prima non c’erano. Le sanzioni così come lo sfilacciamento delle reti di fornitura hanno creato sacche di monopolio che favoriscono le reti locali, quelle meno esposte alla concorrenza internazionale. E’ senz’altro una delle ragioni che spiega la persistenza dell’inflazione.

L’aumento dei prezzi, insomma, si spiega anche con la crisi della globalizzazione

“Assieme alle conseguenze che ci trasciniamo dai tempi della pandemia. Ormai il fenomeno è strutturale anche per l’irrigidimento delle posizioni delle superpotenze. Viviamo in una fase in cui l’aumento dei prezzi è difficile da combattere perché la struttura dell’offerta è più rigida e questo rende più difficile la lotta all’inflazione che non dipende, per quel che riguarda l’Europa, solo dal controllo della domanda”.

Esiste, dunque, una sindrome europea. Ma come si colloca in questa cornice il caso italiano?

“L’Italia rischia di essere l’anello debole del sistema, vista la fragilità del suo apparato produttivo, molto posizionato sulla fornitura dei semilavorati. Dalla meccanica alla chimica una buona parte dell’industria subisce la capacità di imporre i prezzi finali dei nostri fornitori. Energetici, utilities e finanziari hanno tratto vantaggio dalla situazione degli ultimi mesi. Ma non mi stupisce che un’ampia fascia del manifatturiero soffra perché non riesce a scaricare sui prezzi finali i maggiori costi.  

Un giudizio che è in contraddizione con i successi del Made in Italy, più resistente dei rivali europei. Perché questo pessimismo ad oltranza?

“Per carità. Il sistema italiano ha dato prova di grande flessibilità e di adattamento. Ma non illudiamoci: di fronte ad una stretta monetaria così forte e prolungata nel tempo i margini di ripresa si erodono in fretta. E’ possibile che il ciclo si stia esaurendo”.

Ovvero?

“Il rallentamento potrebbe essere molto più consistente se venissero al pettine i nodi irrisolti. Il raffreddamento della produzione può anticipare una battuta d’arresto ben superiore a quello zero virgola di cui stiamo parlando”. 

La recessione non è scongiurata, dunque?

“Non sono affatto convinto che l’abbiamo scampata. In Europa dobbiamo fare i conti con gli effetti distorsivi sulla catena del valore in un quadro nuovo in cui sono venute meno le politiche molto espansive caratterizzate dal costo del denaro quasi zero. E così presto torneranno d’attualità i problemi del debito”. 

Problemi che conosciamo bene.

“Ma quel che non conosciamo sono  le nuove regole d’ingaggio. Le modalità del nuovo patto di stabilità, in particolare. Il tutto in un clima di tensione crescente in vista delle elezioni. Il rallentamento economico si combina con un contesto politico poco collaborativo”.

Che cosa rischiamo?

“La riforma della governance europea è una cucina aperta. Merita lavorarci con molta attenzione senza trascurare i dettagli del lavoro dei vari chef  che non sono mai semplici dettagli”.

Compreso il Mes, tanto indigesto al governo?

“Il Mes ’ senz’altro uno degli ingredienti della gestione finanziaria generale In Italia, se ne parla, a torto, solo per le ricadute politiche d’immagine. Al contrario, la questione è di sostanza: una volta venuta meno la politica dei tassi bassi, tornano ad essere prioritari i problemi del debito. Ma per affrontare il problema per davvero si tratta di mettere a punto una visione strategica del Paese che possa coinvolgere governo ed opposizione”.

Come?

“A suo tempo, ad esempio, si era avanzata l’idea di usare il Mes per rilevare parte del debito accumulato dal debito pubblico dei vari Paesi. Il Mes poteva essere lo strumento per prevenire la crisi del debito, non per intervenire a posteriori. Ma di questa soluzione, accantonata con i tassi a zero, non si parla più: il dibattito verte solo sulla ratifica o meno del meccanismo ma non sulla sua missione complessiva”.

E così…

“Così il dibattito è tutto tattico. L’Italia è in una posizione ambigua con l’evidente obiettivo di ribaltare l’asse politico della Comunità in vista delle elezioni. In questo manca una visione strategica. Ma anche l’opposizione sul Mes e patto di stabilità non riflette una prospettiva strategica. Ci si limita a valutazioni di breve momento in una logica di bandiera. E così passano in secondo piano le scelte vitali per il nostro futuro: l’istituzione di un fondo sovrano per finanziare gli investimenti. O, altra proposta, di scorporare tutto ciò che è finanziato dalla spesa netta. Dobbiamo avere ben chiaro che noi dobbiamo finanziare in parallelo crescita e rientro dal debito”.

Vaste programme, direbbe il generale De Gaulle. 

“Se il patto non contemplerà uno strumento per finanziare la ripresa credo che sarà molto difficile uscire dalla tenaglia del debito in questi anni di alti tassi di interesse. Non guardiamo solo ai dati contabili. È in ballo una grande corsa nel mondo per riposizionarsi sui nuovi prodotti e le nuove tecnologie. Gli Usa hanno lanciato con l’Ira un formidabile motore per far ripartire la loro leadership, l’Unione Europea ha risposto con il Green Deal destinato ad investire tutte le filiere produttive. Una gara planetaria che coinvolge, a suon di investimenti di capitali e di formazione, Cina, Far East ed India”.

E l’Italia?

“Se vogliamo essere parte del processo dobbiamo investire in quel grande progetto industriale che è il l Green Deal. Se non possiamo stare al passo siamo destinati a concentrarci su settori perdenti. E così scivolare verso il basso. Di qui la necessità di appoggiarci ad un fondo europeo. Oltre a dimostrare, naturalmente, di saper spendere i fondi del Pnrr”.

Non è che i partner Ue ci diano un grande aiuto.

“Purtroppo l’Europa vive un momento delicato, dominato dall’emergenza bellica. La Germania sta smontando i capisaldi della sua leadership, dall’energia a basso costo alle difficoltà dell’export. Ma il posizionamento del governo italiano non aiuta”. 

E l’opposizione latita…”

“Sono molto deluso, Si potrebbero trovare molte occasioni per alzare il tono del dibattito. In particolare, L’opposizione dovrebbe difendere dai sovranisti quello che l’Europa ha saputo fare finora. Ma fanno fatica: eppure il Green Deal europeo era una piattaforma politica completa da appoggiare in toto. Una visione del mondo inclusiva, con un occhio di riguardo alle nuove generazioni. Al contrario lo si è ridotto ad una serie di provvedimenti verdi presentati come sacrifici a carico degli elettori, a tutto vantaggio della retorica populista. E così quando si andrà a votare tra un anno l’agenda verrà adottata dai nemici e i partiti europei saranno obbligati a giocare di rimessa per spiegare che non si tratta di un costo, ma di un investimento. C’è una bella differenza”.

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