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Inflazione e tassi, quali saranno le prossime mosse di Fed e Bce? Il parere degli economisti Terzi e Creel

Dopo Jackson Hole e in attesa della nuova riunione della Fed e della Bce Andrea Terzi (Cattolica) e Creel (Sciences Po) intervengono sulle prossime mosse delle banche centrali

Inflazione e tassi, quali saranno le prossime mosse di Fed e Bce? Il parere degli economisti Terzi e Creel

Il simposio di fine agosto a Jackson Hole non ha aiutato a decifrare nel dettaglio le prossime mosse delle autorità monetarie mondiali alle prese con un’inflazione molto più tenace del previsto. Dopo aver preso sottogamba le prime ondate degli aumenti dei prezzi, in mezzo alle montagne del Wyoming, i banchieri centrali si sono allenati in un esercizio di prudenza comunicativa più serrato dell’ordinario. Sul versante Bce, Christine Lagarde ha dichiarato che i tassi verranno mantenuti ad un «livello sufficientemente restrittivo per il tempo necessario». Sul fronte americano, Jerome Powell non ha escluso che i tassi possano aumentare ulteriormente e ha riaffermato che comunque «manterrà una politica monetaria restrittiva». Secondo il governatore della Fed si tornerà attorno a quota 2% solo nel 2025. «Credo che Powell abbia voluto fare intendere che, anche se la discesa del prezzo del petrolio continuerà (come sembra probabile) e l’inflazione continuerà a calare, la discesa dei tassi della Fed (e di conseguenza anche dei rendimenti a lunga scadenza) sarà molto cauta e graduale. Credo che la Fed non avesse pienamente messo in conto che la maggiore spesa per interessi sul debito pubblico (a causa dei tassi più elevati) avrebbe sostenuto i consumi mantenendo la crescita positiva», commenta Andrea Terzi, economista della Cattolica.

Le politiche economiche sulle due sponde dell’Atlantico

La politica monetaria europea rispetto a quella americana presenta delle criticità aggiuntive non secondarie: deve mettere d’accordo venti Stati membri (l’ultimo ingresso nell’eurozona è quello della Croazia a gennaio di quest’anno), con venti politiche fiscali diverse e soprattutto deve scontrarsi con le posizioni di alcuni Stati membri, in primis il governo italiano, contrari al mantenimento di una politica monetaria restrittiva. «Il capo economista della Bce ha già proposto un aumento dei tassi dello 0,25%. Anche in questo caso si punta ad un rallentamento della domanda, ma a differenza degli Stati Uniti si punta anche ad un maggiore valore esterno dell’euro che riduca i costi dell’energia più rapidamente. A Francoforte regna la prudenza e ciò fa pensare ad una stabilizzazione dei rendimenti a lunga scadenza attorno agli attuali livelli ancora per qualche tempo. Alla Bce non è consentito, per statuto, accettare istruzioni dai governi degli Stati membri: è vero che il rialzo dei tassi peggiora i conti degli Stati membri, ma è anche vero che l’Unione Europea ha dato un forte segnale con lo stanziamento di fondi europei rilevanti. Partendo dal Pnrr, la priorità politica dovrebbe perciò essere quella di spendere bene e interamente quei fondi».

L’ombra lunga del petrolio sull’inflazione

In giro per l’Europa, non solo a livello governativo e non solo in Italia, si muovono ambienti economici ed industriali contrari ad un ulteriore inasprimento della politica monetaria, perché – si sostiene – quella attuale è un’inflazione di derivazione energetica e di conseguenza i tassi alti non rappresentano la giusta contromisura. Altri osservatori sostengono invece l’utilità di alzare i target istituzionali di inflazione delle banche centrali, un’ipotesi che non trova nessuna “ratio economica” per il professor Andrea Terzi. «Fin dagli anni Settanta, in Europa come negli Stati Uniti, l’inflazione è stata sempre fortemente correlata al prezzo del petrolio, che a sua volta è controllato dai grandi produttori e in primo luogo dall’Arabia Saudita.

Negli ultimi quattro anni il prezzo è passato da 20 a 120 dollari, inevitabile che ciò facesse crescere i prezzi. In assenza di una politica energetica che riduca il potere dei produttori sul prezzo, le banche centrali sono investite di un ruolo di guardiano dei prezzi estremamente difficile da esercitare. Il loro unico strumento è il tasso d’interesse, col quale mettere un freno alla crescita economica. Ma alzare i tassi ha effetti non prevedibili sull’economia reale se non quello di redistribuire reddito: è più caro indebitarsi per fare investimenti produttivi mentre i percettori di rendita finanziaria percepiscono una sorta di “reddito di prosperità”».

Tassi Fed e Bce: quali le prossime mosse?

Le prossime mosse di Francoforte sono difficili da prevedere anche per Jérôme Creel, direttore dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques a Sciences Po a Parigi. «I funzionari della Bce continuano a sostenere che le loro prossime decisioni saranno “dipendenti dai dati”, ma non danno chiare indicazioni su questo set di dati. Ciò che è certo è l’impegno della Bce nel perseguire un obiettivo di inflazione nominale del 2%, quindi includendo il contributo dei prezzi dell’energia. Pertanto, considerando il fatto che il tasso di inflazione complessiva è ancora ben al di sopra dell’obiettivo, si può ragionevolmente prevedere che la Bce alzerà ulteriormente i tassi di policy. A differenza della Fed, l’eurozona si trova però ad affrontare tendenze inflazionistiche nazionali diverse. Dalla creazione dell’euro, la Bce stabilisce quindi una sorta di tasso medio, basato su una media dell’inflazione e della situazione economica dell’intera area che soddisfa solo i Paesi che si avvicinano alla media. Per quelli che se ne discostano, l’orientamento politico è sempre troppo blando o troppo severo. Detto ciò, i Trattati europei non consentono alla Bce di gestire la propria politica in funzione della situazione economica di una minoranza di Paesi. La Bce è istituzionalmente indipendente dagli Stati per dare credibilità alle sue decisioni politiche nei confronti dell’opinione pubblica e dei mercati finanziari».

Il male minore: una recessione moderata

In sostanza, l’orientamento che sta accomunando i decisori di Fed e Bce viaggia su questo binario: una moderata recessione è accettabile, anche perché in parte è già stata prevista, mentre i danni di un’inflazione ancora in crescita sarebbero incalcolabili. «Considerando che alcuni i governi hanno iniziato a rimuovere i tetti massimi e gli altri limiti sui prezzi, l’inflazione potrebbe ancora riprendere ad accelerare a prescindere dal prezzo dell’energia. Il mantenimento dell’obiettivo di inflazione al 2% richiederà perciò ulteriori misure restrittive che peseranno sull’attività economica europea». L’economista Jérôme Creel si dice invece possibilista sulla validità di un progetto di revisione del target istituzionale di inflazione. «Puntare ad un tasso di inflazione superiore al 2%, in un intervallo di +/- 1%, renderebbe più facile per le banche centrali raggiungere il loro obiettivo e far corrispondere i fatti alle parole. Ciò sarebbe positivo per l’economia e per la loro credibilità».

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