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Il Sud, i Cinque Stelle e la “trappola delle istituzioni”

Il successo dei Cinque Stelle nelle ultime elezioni politiche è stato attribuito alla proposta del reddito di cittadinanza ma è un’interpretazione riduttiva perchè in realtà l’insoddisfazione merdionale chiama in causa il ruolo delle istituzioni come ostacolo allo sviluppo

Il Sud, i Cinque Stelle e la “trappola delle istituzioni”

In seguito ai risultati delle recenti elezioni si è riaffacciato all’attenzione il tema del Mezzogiorno. Da lungo tempo non si parlava più nel dibattito pubblico e nell’agenda della politica di quella che rimane la più grande questione irrisolta dello sviluppo italiano dall’Unità, e che condiziona pesantemente il futuro del Paese. E non se n’è discusso nella lunga campagna elettorale.

IL REDDITO DI CITTADINANZA PER IL SUD

Dopo il voto, sul quale hanno pesato in misura decisiva le scelte degli elettori del Mezzogiorno, si è aperto un dibattito sul ‘reddito di cittadinanza’ come proposta vincente che spiegherebbe i risultati delle regioni meridionali a favore del Movimento Cinque Stelle. In sostanza, un’ennesima domanda di assistenza.

E’una lettura molto riduttiva – e si potrebbe aggiungere anche poco rispettosa –  delle scelte dell’elettorato meridionale. Quando le percentuali di voto raggiungono livelli come quelli toccati in molte aree dal Movimento Cinque Stelle, è evidente che larga parte della società locale ha voluto esprimere un segnale che va ben al di là della richiesta del reddito di cittadinanza: è un segnale che esprime piuttosto un’insoddisfazione profonda per il funzionamento delle istituzioni pubbliche nelle regioni del Sud.

LO SVILUPPO DEL SUD E LE ISTITUZIONI PUBBLICHE

In realtà è proprio su questo tema – le istituzioni pubbliche – che si dovrebbe aprire una riflessione approfondita, cogliendone il nesso fondamentale con il nodo dello sviluppo. In altre parole, bisognerebbe uscire dall’illusione – che dura da decenni – che la questione dello sviluppo del Sud sia solo un problema di politiche economiche più o meno appropriate, e di risorse da redistribuire dal centro più o meno adeguate. Prima che le politiche il problema chiama in causa le istituzioni e la politica che ne condiziona il funzionamento alla periferia ma anche al centro. A riflettere in questa direzione sollecitano peraltro gli stessi indirizzi più recenti degli studi sullo sviluppo che mettono al centro il tema delle istituzioni.

Il neo-istituzionalismo economico non trascura le precedenti acquisizioni, relative al ruolo del capitale e degli investimenti, della tecnologia, e da ultimo del capitale umano nei processi di sviluppo, ma tende a considerare questi fattori come le ‘cause prossime’ o i meccanismi attraverso i quali si realizza lo sviluppo stesso. La domanda cruciale diventa invece la seguente: quali sono le ’cause fondamentali’ che spingono alcune società a migliorare la loro dotazione tecnologica, a investire in capitale fisico e ad accumulare capitale umano impiegandolo efficacemente? Queste cause secondo gli istituzionalisti hanno a che fare con le istituzioni e con la cultura. Ed è su questo terreno che economia e sociologia dello sviluppo tornano a incontrarsi. Ma che cosa può voler dire per il tema dello sviluppo del Mezzogiorno questa rinnovata attenzione ai fattori istituzionali?

Gli istituzionalisti ritengono che lo sviluppo e il consolidamento dell’economia di mercato dipendano da ‘buone’ istituzioni economiche, in particolare da quelle che assicurano un comportamento non arbitrario dell’amministrazione pubblica; garantiscono un’adeguata tutela dei diritti di proprietà, un efficace contrasto della criminalità e una tutela giurisdizionale dei contratti; inoltre promuovono istruzione e ricerca scientifica, e assicurano beni collettivi come infrastrutture e servizi, decisivi per la performance delle imprese e per il benessere dei cittadini e delle famiglie (welfare). Ma da che cosa dipende la disponibilità di questi requisiti istituzionali per lo sviluppo di un’economia di mercato capace di coesione sociale?

LE BUONE ISTITUZIONI

Le buone istituzioni economiche dipendono da quelle che Daron Acemoglu e James Robinson in Why Nations fail chiamano ‘istituzioni politiche inclusive’, cioè da regimi politici aperti e pluralisti, capaci di limitare il potere di ristrette élites e di incoraggiare una partecipazione attiva dei membri della società alle scelte, quindi di promuovere i diritti di cittadinanza. E dipendono – aggiungerei anche – da valori culturali congruenti con questi processi (come sottolineano autori come Douglas North e David Landes sulla scia del grande sociologo tedesco Max Weber).

Quando questa congruenza tra valori e norme, cultura e istituzioni si realizza, possono crescere istituzioni politiche effettivamente inclusive e si affermano e si rafforzano le istituzioni economiche che sostengono lo sviluppo dell’economia di mercato. Viene ad essere invece contrastata la tendenza delle élites a piegare le regole economiche ai loro interessi realizzando istituzioni di tipo ‘estrattivo’ (ciò che Weber chiamava ‘capitalismo politico’ o ‘di avventura’). Quest’ultime favoriscono l’appropriazione del prodotto delle attività economiche da parte di una minoranza privilegiata, con una bassa differenziazione tra élites politiche e economiche, la creazione e riproduzione di aree di rendita politicamente protette dallo stato.

LA LETTURA ISTITUZIONALISTA SUL MEZZOGIORNO

Che cosa può suggerire una lettura istituzionalista per il nostro nodo irrisolto del Mezzogiorno? Potrebbe sollecitarci a mettere più a fuoco la ‘trappola delle istituzioni’, il ruolo delle istituzioni come ostacolo allo sviluppo e quindi anche a rivedere il disegno delle politiche in modo da tenerne conto. E in un certo senso è proprio quello che gli esiti del voto del 4 marzo ci sollecitano a fare. Vediamo allora, in modo necessariamente schematico, come proporre una lettura di questo tipo.

Si potrebbe dire che le élites locali nel Mezzogiorno hanno cercato storicamente di piegare ai loro interessi particolari le istituzioni formalmente favorevoli all’economia di mercato dello stato nazionale. Hanno così introdotto forti elementi di arbitrarietà nel funzionamento delle politiche pubbliche, nella tutela dei diritti di proprietà, nella concorrenza di mercato, e hanno alimentato una scarsa capacità di offrire beni collettivi per imprese e famiglie e di contrastare corruzione e criminalità.  Hanno potuto farlo – e possono farlo – perché istituzioni politiche formalmente inclusive mancavano per motivi storici di quei requisiti culturali (cultura civica) e organizzativi (forte pluralismo sociale e politico a livello della società civile) che avrebbero potuto orientarne il funzionamento in direzione favorevole allo sviluppo. Ma anche perché – occorre sottolineare – le élites nazionali, politicamente deboli e a lungo sfidate da forze non pienamente integrate nello stato nazionale, hanno rinunciato e rinunciano spesso a contrastare il comportamento estrattivo e predatorio delle élites locali in cambio del consenso che queste portano in dote per il centro.

ISTITUZIONI: L’ORIGINE DEGLI ERRORI

Si noti che tale uso distorto delle istituzioni ha avuto una forte accelerazione, nel secondo dopoguerra, con la costruzione anche nel nostro Paese del welfare state e con la contemporanea crescita dei poteri e delle competenze dei governi locali e regionali. Questi ultimi si sono trovati nel Mezzogiorno a gestire risorse crescenti redistribuite dal centro per garantire diritti di cittadinanza come quelli all’istruzione, alla salute, all’assistenza. riconosciuti ai cittadini italiani indipendentemente dal loro luogo di residenza. Ma ciò ha portato a un uso inefficiente e inefficace delle risorse, spesso piegate alle esigenze clientelari e assistenziali dei circuiti di intermediazione politica locale. La redistribuzione di risorse molto consistenti ha insomma prodotto degli effetti perversi, alimentando clientelismo, assistenzialismo, imprenditorialità dipendente dalla politica, corruzione e criminalità.

Sappiamo che negli ultimi decenni ciò ha comportato critiche crescenti nelle regioni Nord, che hanno in parte finanziato la redistribuzione. Di fronte a tali critiche non si può limitarsi a ribadire che la redistribuzione è la normale conseguenza del tentativo di realizzare diritti di cittadinanza in tutto il Paese. Certo lo è, ma bisogna anche chiedersi se le risorse sono utilizzate in modo efficiente e quali conseguenze abbiano sul processo di sviluppo, se lo incoraggiano o lo ostacolano. Ciò porta inevitabilmente al ruolo delle istituzioni e delle élites locali.

IL RUOLO DEI CITTADINI – ELETTORI

La bassa qualità delle istituzioni che ostacola lo sviluppo non è però solo un problema di ‘offerta’ delle élites politiche, ma anche di ‘domanda’ dei cittadini-elettori che a sua volta alimenta un’offerta assistenziale e clientelare. Infatti, come reazione all’uso distorto delle istituzioni da parte delle élites, e alle condizioni di disagio economico e occupazionale, i cittadini-elettori hanno sviluppato e rafforzato orientamenti volti a favorire comportamenti adattivi (particolarismo, opportunismo, carenza di fiducia, clientelismo e ricerca di favori dalla politica).

Occorre avvertire che non si tratta certo di una tara antropologica – come a volte viene ribattuto polemicamente da chi vede il riferimento alla carenza di cultura civica e di valori più universalistici come un’accusa ai meridionali – ma piuttosto di un adattamento che ha una sua razionalità, spiegabile sul piano storico. E che si è a lungo accompagnata anche a forme di mobilitazione e a esplosioni temporanee di protesta che non si sono però sedimentate, come in altre aree del Paese, in forme di organizzazione più solide della società civile e di crescita di cultura civica capaci di sollecitare un funzionamento delle istituzioni più orientato a risolvere problemi collettivi.

IL “CIRCOLO VIZIOSO” DELLE ISTITUZIONI

E’evidente che tutto ciò ha alimentato il ‘circolo vizioso delle istituzioni’ (la trappola di cui si diceva) condizionando a sua volta il comportamento delle élites politiche locali e quindi ostacolando ulteriormente il funzionamento impersonale delle istituzioni, la non arbitrarietà delle decisioni della pubblica amministrazione, la capacità di contrastare criminalità, corruzione e abusi e di produrre beni collettivi, proprio per la forte pressione di domande e interessi particolaristici. Da qui una spirale perversa che logora le potenzialità effettive di istituzioni formalmente inclusive a favore di una solida crescita dell’economia di mercato e di politiche sociali (istruzione, sanità, assistenza) efficienti e efficaci. Non bisogna però dimenticare – come si diceva – le pesanti responsabilità del centro per questo stato di cose, nella misura in cui ha tollerato e tollera questo funzionamento delle istituzioni, e l’uso delle risorse pubbliche che ne discende, per lucrare sul consenso offerto dalle élites locali.

LA LETTURA NORDISTA E LA LETTURA SUDISTA

Si noti anche che questo quadro analitico permette di superare la contrapposizione sterile tra due letture del problema del Mezzogiorno che si sono spesso confrontate negli ultimi anni. Quella ‘nordista’ che tende a attribuire le responsabilità principali alle classi dirigenti del Sud e alla cultura dei meridionali e quella ‘sudista’ che le assegna invece alle incapacità del centro di mettere in campo aiuti adeguati e politiche economiche efficaci a sostegno dello sviluppo, quando non accusa addirittura gli interessi del Nord e la loro influenza sui governi nazionali per un vero e proprio sfruttamento storico del Mezzogiorno, come in certe tendenze affiorate di recente in chiave di un meridionalismo rivendicazionista o ‘neo-borbonico’.

Naturalmente, il quadro interpretativo che abbiamo abbozzato è uno schema analitico. Non tutto il Mezzogiorno risente allo stesso modo di tali condizioni sfavorevoli allo sviluppo, e non tutte le élites si muovono in chiave estrattiva e predatoria. La differenziazione interna al Mezzogiorno è oggi ancora più marcata che in passato, pur non facendo venir meno la validità del riferimento alla categoria più ampia e aggregata di Mezzogiorno. Evidentemente, è però molto difficile promuovere uno sviluppo solido e capace di stare sulle proprie gambe senza intervenire sulle condizioni istituzionali a monte delle politiche economiche e sociali di sostegno allo sviluppo; e anche senza valutare attentamente le politiche di sviluppo in relazione al contesto istituzionale nel quale ricadono – cosa che nel caso del Mezzogiorno non si è finora riusciti a fare efficacemente.

IL SUD E LA POLITICA

E’chiaro che visto in questa prospettiva il problema dello sviluppo e del consolidamento dell’economia di mercato in un quadro di coesione sociale è un problema politico prima ancora che di politiche (come ricorda del resto la migliore tradizione meridionalistica classica), che chiama in causa anzitutto la responsabilità del centro per il buon funzionamento delle istituzioni pubbliche a livello locale e regionale. Porta cioè in primo piano la necessità di rompere il patto perverso che spinge i governi a redistribuire risorse – ordinarie e straordinarie – senza preoccuparsi di vigilare e intervenire sulla loro efficace allocazione a livello locale regionale in cambio del consenso offerto da élites locali caratterizzate da comportamenti ‘estrattivi.’ D’altra parte, migliori politiche, meglio disegnate, possono aiutare a loro volta la politica. Naturalmente, disegnare buone politiche non è facile. Ma la prospettiva istituzionalista sollecita almeno a essere più consapevoli del compito e offre qualche suggerimento in questa direzione.

Anzitutto, non ci si dovrebbe limitare – come spesso avviene – solo a indicare obiettivi da perseguire con politiche economiche e sociali, ma occorre cercare di entrare nella ‘scatola nera’ delle politiche e di mettere a fuoco i meccanismi istituzionali che influenzano i risultati insoddisfacenti e che andrebbero modificati. Questa mi sembra la vera sfida per misurarsi oggi con il tema dello sviluppo. Prendiamo in considerazione, in questa chiave, le principali politiche di sviluppo (i Fondi europei e il Fondo sviluppo e coesione), ma un discorso analogo si potrebbe fare per le principali politiche sociali ‘ordinarie.’

RIDURRE LE DISECONOMIE

Un primo suggerimento che viene da una lettura istituzionalista si potrebbe così sintetizzare: è opportuno non compensare a valle gli operatori economici per le diseconomie esterne determinate dal contesto istituzionale, ma cercare di ridurre le diseconomie stesse a monte.

Porre questo vincolo è importante perché gli interventi volti a qualificare il contesto attraverso la dotazione di beni collettivi hanno in genere tempi lunghi e benefici diffusi; due caratteristiche poco compatibili con i vincoli della politica locale e nazionale (che preferisce l’opposto: tempi brevi e benefici concentrati). Non a caso l’attenzione si sposta allora inevitabilmente –  ancor di più in una situazione di crisi – su misure che ‘compensino’ gli operatori economici per le diseconomie esterne, per gli svantaggi del contesto, come incentivi, sgravi fiscali e contributivi, crediti di imposta, ecc.

Queste misure – come dimostra la storia stessa del Mezzogiorno, dove sono state a lungo sperimentate con scarso successo – vanno maneggiate con cura; possono essere utili in qualche caso, ma spesso hanno effetti perversi. Esse dovrebbero essere quindi scelte con particolare attenzione e cautela, favorendo per esempio l’innovazione e l’internazionalizzazione piuttosto che una mera compensazione statica dei costi, che equivale a una protezione senza prospettive; e dovrebbero essere combinate efficacemente con interventi di contesto.

In generale, bisognerebbe invece privilegiare proprio le politiche che hanno per oggetto beni collettivi capaci di ridurre le diseconomie esterne mettendo dei vincoli a monte, e quindi cercando di contrastare l’orientamento delle istituzioni locali tendente a privilegiare, per motivi di consenso immediato, politiche distributive più facilmente divisibili ma meno efficienti, se non foriere di effetti perversi.

Le politiche di offerta di ‘beni collettivi per la competitività’ materiali e immateriali riguardano interventi che sono oggi ancora più importanti per valorizzare le risorse di cui le aree del Mezzogiorno dispongono, e per le quali il processo di globalizzazione crea nuove opportunità. Si pensi, per esempio, al patrimonio ambientale e storico-artistico, all’agricoltura e all’agroindustria, e ancora ai vantaggi potenziali della posizione geografica per la logistica.

I FONDI E LE REGIONI

Una lettura istituzionalista suggerisce poi che per accrescere l’efficienza e l’efficacia dei fondi europei e di quelli nazionali ad essi collegati come il Fondo sviluppo e coesione (FSC) – potenzialmente un ammontare notevole di risorse – occorrerebbe un ridisegno complessivo dei meccanismi di governo delle politiche per ridurre la dispersione e la frammentazione e accrescerne la forza d’urto su pochi obiettivi strategici con un elevato effetto-leva. Ciò richiederebbe a sua volta una maggiore responsabilità del centro sia nella fase di definizione degli obiettivi strategici, che nell’allocazione delle risorse attraverso meccanismi di efficace valutazione e di controllo degli interventi attuativi realizzati dai governi regionali e locali.

In Italia abbiamo scelto di appoggiarci molto sulle regioni come interlocutori privilegiati (oltre che sui ministeri) senza prevedere un maggiore ruolo di coordinamento a monte delle scelte, e di controllo a valle della loro realizzazione, da attribuire al ministro per la coesione territoriale (o comunque a una struttura dedicata e autorevole a livello centrale: la creazione dell’Agenzia per la coesione territoriale andava in questa direzione, ma non ha dato finora i risultati sperati).

Il ministro per la coesione territoriale, allo stato attuale, ha un ruolo basato prevalentemente sulla moral suasion nei rapporti con gli altri interlocutori – regioni e ministeri – oltre che nelle relazioni con il ‘partenariato economico-sociale’ su cui insistono i regolamenti comunitari (ma nell’ultimo governo non è stato a lungo nominato neanche un ministro con le deleghe relative).

La scommessa di puntare sugli interlocutori istituzionali decentrati (le regioni in particolare) non ha funzionato – pur con le differenze che si sono manifestate e vanno certo riconosciute – perché, dati i caratteri del sistema politico, ha finito per favorire una frammentazione delle risorse, oltre che una difficoltà di spesa, in larga parte dovute alla intermediazione politico-burocratica e alla scarsa capacità di progettazione. Ciò non significa – è bene sottolinearlo – che tutti gli interventi siano stati inefficaci o abbiano avuto effetti perversi e che tutti i governi locali si siano comportati allo stesso modo. Certamente però vi è stata una dispersione delle risorse e l’impatto complessivo è stato insoddisfacente.

In altre parole, sistemi politici regionali e locali fortemente sensibili al reperimento del consenso attraverso meccanismi distributivi, spesso clientelari, e interventi assistenziali, combinandosi con le debolezze e la scarsa autonomia delle burocrazie, hanno condizionato a fondo l’uso dei fondi europei e del FSC.  Nei contesti regionali, gli interessi localistici sono riusciti a ‘catturare’ più facilmente i decisori, spingendoli alla dispersione delle risorse e alla logica distributiva, mentre risorse non facilmente divisibili, come le infrastrutture non vengono realizzate o sono fortemente ritardate. D’altra parte, il governo, per motivi di consenso politico a breve, ai quali ho prima accennato, ha difficoltà a impegnarsi adeguatamente nel contrastare le spinte localistiche.

Si determina piuttosto una sorta di divisione degli interventi tra ministeri e regioni con una evidente difficoltà a programmare in modo integrato le risorse sia quelle dei fondi europei che quelle nazionali (che pure in base alla stessa normativa istitutiva del FSC dovrebbero essere programmate unitariamente, prevedendo per l’FSC la destinazione riservata a grandi interventi infrastrutturali materiali e immateriali).

L’USO DEI FONDI EUROPEI E LE POLITICHE DI SVILUPPO

In definitiva, i fattori ai quali ho fatto schematicamente riferimento lasciano chiaramente intravedere il rischio che il nuovo ciclo dei fondi europei 2014-20 non riesca a contrastare efficacemente i difetti già emersi nelle esperienze precedenti: frammentazione, dispersione, ritardi specie su interventi non divisibili a benefici diffusi (beni collettivi e tutela e valorizzazione di beni comuni).

I primi dati disponibili in termini di spesa e di stato di avanzamento dei progetti per il ciclo in corso, anche nel confronto con gli altri paesi, confermano queste preoccupazioni. Sarebbe quindi necessaria una profonda riforma della governance delle politiche di sviluppo che tenga conto delle specificità del contesto istituzionale. Ma questo è politicamente costoso, richiede tempo e un impegno politico adeguato, capace di coinvolgere i governi regionali e locali e allo stesso tempo di indirizzarne e controllarne l’operato; dal lato delle politiche richiede la scelta di una chiara strategia selettiva e di un centro autorevole e qualificato di responsabilità a livello di governo che la sostenga.

Tutto ciò negli ultimi anni non è stato realizzato, nonostante l’enfasi sui risultati raggiunti, proprio per non compromettere gli equilibri di consenso con i potentati locali. La crisi che ha investito ancor più profondamente il Mezzogiorno avrebbe richiesto invece un cambiamento, con un uso più selettivo e rapido delle risorse non trascurabili che sono potenzialmente disponibili. E avrebbe richiesto una chiara consapevolezza che lo sviluppo del Paese è fortemente legato a quello del Mezzogiorno. Così non è avvenuto. E’ dunque aumentato un disagio economico e sociale e un’insoddisfazione verso le istituzioni pubbliche che ha influenzato il voto. Resta però da vedere se tale insoddisfazione troverà risposta in una svolta che ponga il tema delle istituzioni al centro del problema dello sviluppo del Mezzogiorno.

* L’autore, ordinario di sociologia economica all’Università di Firenze, è stato ministro per la coesione territoriale nel Governo Letta e il testo qui pubblicato è quello della sua relazione al seminario del Gruppo dei 20 organizzato dal professor Paganetto a Firenze

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