Condividi

Il Pil non è tutto ma calcolare il digitale non è semplice

Da anni si discute su come aggiornare il calcolo delle nuove attività economiche ma oltre la manifattura c’è l’ignoto – Un articolo dell’Economist

Il Pil non è tutto ma calcolare il digitale non è semplice

Pubblichiamo di seguito la seconda parte dell’articolo The trouble with GDP pubblicato dal magazine “The Economist”, in cui si discutono possibili ed eventuali nuovi modi di calcolare il PIL più in linea con un’economia che si è allontanata molto da uno scenario in cui era il settore manifatturiero a trainare l’economia e di conseguenza la crescita e la prosperità di una nazione. La conclusione del settimanale di Londra è piuttosto sconfortante ed è affidata al freddo e anche cinico umorismo che connota questa testata che è anche uno dei più importanti think-thank mondiali.

Tentativi di aggiornare il PIL

Malgrado quanto si è detto, ci molte cose incluse nel PIL che cadono fuori dall’economia di mercato. Molti servizi pubblici sono forniti senza costi per il consumatore e per decenni il valore attribuito a queste risorse nel PIL è stato il prezzo della fornitura. È successo solo recentemente che gli statistici hanno iniziato a misurare direttamente alcune parti dei servizi del settore pubblico, conteggiando, per esempio, il numero degli interventi effettuati dal servizio sanitario o il numero degli studenti che frequentano le scuole.

Anche alcuni ambiti del settore privato sono misurati indirettamente. La proprietà immobiliare è uno di questi. Ciò avviene indipendentemente dal fatto che i proprietari affittino o memo la proprietà in cui vivono. Le locazioni misurano il valore trasferito dagli inquilini come pure gli introiti dei proprietari che rendono disponibili gli immobili. Ma nei casi in cui è il proprietario stesso ad abitare l’abitazione di proprietà, deve essere imputato una larga parte del valore immobiliare.

La finanza è un’altra attività che per la maggior parte viene misurata obliquamente (e malamente). In genere i servizi finanziari non sono pagati direttamente dal consumatore: le banche si procurano grande parte dei loro ricavi caricando più interessi sui prestiti di quanto ne paghino sui depositi. Per catturare il valore aggiunto, gli statistici usano imputare una cifra, lo “spread”, cioè il divario tra un tasso esente da rischi e il tasso effettivo del prestito: poi moltiplicano questa valore per il numero dei prestiti concessi. Il problema con questa misurazione è che lo “spread” del prestito misura il rischio di cui la banca si fa carico. Per esempio, alla fine del 2009, il settore finanziario in Gran Bretagna era sull’orlo del collasso. Ma poiché il timore di fallimenti bancari stava mandando lo spread alle stelle, le cifre del PIL registrarono un picco nel valore aggiunto dal settore al PIL nazionale.

Dato che gli statistici cercano di catturare nei loro modelli sempre nuove forme di produzione economica, nuove attività vengono aggiunte continuamente al PIL. Nel 2013 un accordo a livello europeo sulla standardizzazione del PIL, ha incluso il valore derivante dalla vendita di droghe leggere e quello prodotto dai lavoratori e dalle lavoratrici del sesso. In Gran Bretagna il cambiamento ha aggiunto lo 0,7% al PIL. Quanta credibilità si debba dare a questi numeri è oggetto di discussione. Gli statistici devono far ricorso a fenomeni piuttosto triviali e grezzi per capire che cosa sta succedendo: si presume che il mercato del sesso a pagamento possa espandersi in linea con la quantità di popolazione di sesso maschile e il prezzo d’ingresso nei club della danza del ventre viene preso a parametro del prezzo della prestazione sessuale.

Lasciando da parte l’appropriatezza di queste approssimazioni, Paul Samuelson potrebbe essere stimolato a rimuginare sulle implicazioni del PIL derivanti dal matrimonio di una donna con il suo gigolo. Robert Kennedy si sarebbe chiesto se una nazione stia veramente andando meglio quando il suo commercio di droghe e di sesso è bello che florido.

Il rompicapo di aggiustare correttamente il prezzo

Una ulteriore complicazione è che, nonostante tutte le raccomandazioni degli statistici di non prendere il PIL come una misura del benessere, i due fattori sono intrecciati nel più ingannevole dei modi, cioè attraverso il calcolo di aggiustamento dell’inflazione. L’inflazione misura la quantità di denaro da pagare in più rispetto all’anno precedente per raggiungere lo stesso livello di reddito. È veramente arduo misurarlo come output.

Prima di tutto, un cambio del prezzo di un prodotto influenzerà la quantità che i consumatori potranno acquistarne. Se si alza il prezzo delle mele rosse, la gente comprerà più mele verdi: se il prezzo del manzo si impenna, la gente acquisterà carne di maiale. Ci sono degli espedienti per catturare questa specie di sostituzione quando si misurano i prezzi. Uno è l’aggregazione media geometrica delle quotazioni di prezzo. Sommando il prezzo di “n” merci e poi prendendo l’ennesima radice del prodotto si ottiene l’aggregazione da cui ricavare il grado di commutazione proporzionale della variazione dei prezzi relativi. Sembra cervellotico e lo è: ma svolgendo questa operazione in modo corretto si ha un effetto di abbassamento dell’inflazione di un mezzo punto o simile. Cambiamenti più estesi nelle preferenze dei consumatori sono rilevate aggiornando il peso di ciascuna categoria di merci nell’indice generale dei prezzi.

Poi, ci sono gli aggiustamenti collegati ai cambiamenti nella qualità dei prodotti. Il modello più recente di smartphone potrebbe costare di più di quello dell’anno prima, ma se è così deve essere migliore. Se gli statistici si concentrano solo sui cambiamenti dei prezzi nominali, potrebbero sopravalutare il tasso d’inflazione senza cogliere i miglioramenti nelle prestazioni. Un comitato consultivo di eminenti economisti, istituito dal Senato americano a metà degli anni Novanta e presieduto da Michael Boskin della Stanford University, ha stimato che il mancato aggiustamento della qualità dei nuovi prodotti ha fatto sì che la reale inflazione è stata sopravvalutata di almeno lo 0,6%.

Questo aggiustamento richiede anche un maggiore uso della stima “edonistica”, una tecnica che cattura il valore implicito di ogni particolare attributo di un prodotto, valutando quanto ogni variazione di questo attributo vada ad incidere sul prezzo del prodotto: per esempio, quanto paga un consumatore in più per una lampadina più efficiente? Una volta che viene stabilito il prezzo implicito di ciascun attributo – velocità di calcolo o memoria, per esempio, di un telefono – i prezzi sono modificati di conseguenza.

La valutazione edonica

La valutazione edonica aiuta. Ma si tratta di un lavoro intensivo e impegnativo perché i valori impliciti devono essere aggiornati spesso per ottenere una certa accuratezza; alla resa dei conti solo una piccola parte dei prezzi sono aggiustati in questo modo. Inoltre arrivano parecchi problemi quando l’aspetto quantitativo si amplia a tal punto da divenire qualitativo. Un moderno televisore a schermo piatto è una “bestia” del tutto differente dal piccolo panciuto apparecchio televisivo a tubo catodico degli anni ottanta.

Tali aggiustamenti sono ancora più difficili da effettuare per i servizi, che tendono ad essere sempre più personalizzati mentre le merci, per la maggior parte, sono ancora standardizzate. Il valore di una cena, per esempio, dipende dalla cucina e dagli ingredienti, ma anche dalla velocità del servizio, dalla rumorosità della sala da pranzo, dalla distanza tra i tavoli e via dicendo. Ciascuno di questi fattori può cambiare nel tempo.

Il vero valore dei servizi del settore pubblico è ancora più difficile da calcolare nel tempo. Il numero degli interventi sanitari può essere contato trimestre per trimestre. Il loro effetto sulla salute e la longevità del paziente non può essere apprezzato che dopo anni o decenni.

Come ha mostrato la commissione Boskin, i nuovi prodotti sono davvero un rompicapo. In teoria il loro valore per il consumatore è dato dalla differenza tra il prezzo di riserva (cioè il prezzo che i consumatori sono pronti a pagare) e il prezzo effettivo; questa differenza è nota come il surplus del consumatore. Succede che i nuovi prodotti entrano nell’indice dei prezzi al consumo senza tale aggiustamento.

Poi ci sono le novità ad ampliare la gamma dei nuovi prodotti. Per esempio, il numero dei canali TV o degli antidolorifici da banco in America è enorme. Nel 1970 se ne erano presi in considerazione cinque ciascuno. Sebbene la gente si lamenti che ce ne sono troppi, questa enorme varietà è un grande vantaggio. Ma resta del tutto invisibile alla misurazione del PIL. Per il PIL l’output di un milione di scarpe di una misura e di un colore è lo stesso di quello di un milione di scarpe di differente misura e colore.

Il beneficio di tanti nuovi prodotti non è semplicemente raccolto dal PIL. I costi iniziali delle piattaforme digitali di servizi, come Facebook e Twitter, sono esorbitanti. Ma il costo marginale è prossimo allo zero e il prezzo al consumo è normalmente inesistente. Per convenzione globale, merci a prezzo zero sono escluse dal conteggio del PIL. Così come lo sono tutte le forma volontarie di produzione come Wikipedia e i programmi open-source. Alcune di questa attività gratis sono incluse nel conteggio; sebbene non vi sia alcun costo per una ricerca su Google, i consumatori pagano un prezzo nascosto fornendo informazioni e attenzione, che i pubblicitari comprano. Ma i ricavi della pubblicità sono ben al di sotto dei benefici che i consumatori ottengono.

Nuovi tipi di stima: tempo di utilizzo e traffico Internet

Un’indagine condotta da Sir Charles Bean ha delineato due possibili approcci nel valutare i servizi digitali. Uno è quello di stimare il valore del tempo trascorso su Internet. Il Bureau of Economic Analysis, la principale istituzione statistica americana, ha utilizzato il livello salariale di mercato per stimare il valore delle attività domestiche come cucinare, fare le pulizie e stirare. Seguendo un approccio simile Erik Brynjolfsson e Joo Hee Oh del MIT hanno stimato che il beneficio in termini di prosperità dei prodotti gratuiti di Internet ha raggiunto uno 0,74% su basse annua al PIL americano tra il 2007 e il 2011 (altri studi hanno proposto una stima più contenuta, per esempio 0,3%).

L’altro approccio usa la crescita del traffico su Internet come punto di riferimento. L’indagine Sir Charles Bean menziona una ricerca che ha rilevato, in Europa occidentale, una crescita del traffico internet del 35% su base annua dal 2006 al 2014. Se l’output del settore IT è cresciuto con la stessa proporzione, il PIL ufficiale del Regno Unito dovrebbe essere dello 0,7% più alto per ciascun anno nel periodo considerato. Non succede però che proprio tutti i servizi siano forniti gratuitamente; lo sono certamente alcuni per i quali prima si pagava come le chiamate telefoniche interurbane e internazionali. Alcuni prodotti fisici sono diventati dei servizi digitali il cui valore è difficile da tracciare. È accaduto, per esempio, che si ascolta sempre più musica, ma i ricavi dell’industria discografica si sono contratti di un terzo dal suo picco in era pre-internet. I consumatori compravano cartine delle città, mappe stradali e quotidiani. Pagavano un’agenzia per prenotare le proprie vacanze. Adesso fanno sa soli, un’attività che non passa nel PIL.

Dato che il commercio migra online, si spende sempre meno nei negozi fisici, fenomeno che nuovamente si traduce in meno PIL. Proprio come la ricostruzione dopo un terremoto (che però spinge il PIL in alto) non rende la gente più ricca di prima, allo stesso modo aprire meno negozi di prima non la rende più povera.

Questi problemi non inficiano l’uso del PIL. Ma data la direzione presa dal cambiamento tecnologico in un mondo sempre più digitale, tali problemi diventano sempre più seri e le loro soluzioni diventano sempre più complicate e approsimative. Misurare il surplus del consumatore di nuovi prodotti o di prodotti gratuiti poggia su ipotesi coraggiose; le stime variano ampiamente in rapporto a quelle che sono state utilizzate in precedenza. Essere coerenti nel tempo esige la capacità di misurare il surplus del consumatore di beni e servizi che siano ben definiti nel paniere del consumatore. Il problema è che il consumatore cambia gusti e prodotti di riferimento sempre più rapidamente.

Misurare una rivoluzione

La cognizione della difficolta del compito si può avere guardando le stime della crescita dell’econiomia in un altro periodo di impetuoso cambiamento tecnologico – la rivoluzione industriale.

Il PIL è utilizzato principalmente per misurare le economie contemporanee, ma alcuni storici dell’economia si sono avventurati ad applicarlo anche al passato, arrivando alla conclusione che si è verificato un improvviso decollo della crescita economica dopo il 1750; un fondamentale studio postbellico ha valutato che il PIL per lavoratore è cresciuto dell’1,4% annuo nella prima metà del XIX secolo, un tasso senza precedenti.

Negli anni Ottanta, una ricerca di Nicholas Crafts dell’università di Warwick ha scoperto che il surplus di invenzioni trasformative dell’industria del XVIII secolo è stato stimato troppo parzialmente: la crescita folle si è verificata in realtà solo in pochi settori dell’economia. Così egli abbassa il valore della produttività a un meno rivoluzionario 0,5% annuo.

Una successiva generazione di colleghi di Crafts, capeggiata da Steve Broadberry, ha pubblicato una ricerca che spinge la valutazione ancora un po’ più in basso.

Anche considerando tempi più recenti, è stato difficile trovarsi d’accordo sulle stime del PIL in fasi di forti cambiamenti economici. Per esempio non viene considerato correttamente il cambiamento del surplus del consumatore dovuto, per esempio, alleo sviluppo delle ferrovie e dell’industria collegata.

Un numero per tutti gli scopi?

“È un grosso errore pensare che un numero serva a tutti gli scopi”, dice Sir Charles. Il problema è che, stando così le cose, il PIL rischia di servire sempre peggio tutti questi scopi. La Banca d’Inghilterra è diventata così cauta sulle stime del PIL che pubblica un intervallo di numeri sia per le previsioni sia per le serie storiche. La sua ultima proiezione pone il la crescita attuale del PIL in Gran Bretagna in un intervallo compreso tra lo 0 e il 4%. Tale iper-scetticismo può sembrare un po’ sciocco. Ma non è forse più assurdo proclamare, con grande assertività, che il PIL della Cina è calato dal 6,8 al 6,7% nel primo trimestre dell’anno, quando è abbastanza certo che non è accaduto?

Se il confronto del PIL di un trimestre con un altro è poco raccomandabile, quello di 10 anni con i precedenti 10 anni è a dir poco pericoloso. L’America’s Census Bureau calcola che nel 2014 la resa immobiliare mediana, aggiustata dell’inflazione, sia stata appena più elevata di quella registrata 25 anni prima. Ciò significa che il tenore di vita di un americano tipico è stato stagnante per un quarto di secolo. Ma per un cittadino americano medio il costo delle cure mediche è rimasto veramente immutato tra il 1989 (a prezzi del 1989) e oggi (a prezzi correnti), chiede Ken Rogoff dell’università di Harvard?

Se le cifre del PIL misurano realmente quello che cercano si misurare, questa è la domanda da farsi e anche la domanda cui trovare una risposta razionale. La sfida, dice Nordhaus nel suo paper sulla luce, è di costruire delle misurazioni che “diano conto dei vasti cambiamenti nella qualità e nell’assortimento di beni e servizi che consumiamo”. Ma ciò significa trovare dei modi per confrontare la posta elettronica con il fax, l’auto senza guidatore con l’auto del 1910, i dischi di vinile con i servizi di streaming e le protesi personalizzate con le stampelle della mutua. Forse potrebbe farlo solo Einstein.

La probabilità è, però, che, dopo aver dato una rapida occhiata, torni immediatamente a dedicarsi a una scienza semplice come la fisica.

Commenta