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Il capitalismo cambia: fine del primato degli azionisti?

La svolta etica della Business Roundable – che associa molti top manager tra e anche Jeff Bezos e Tim Cook – ha sorpreso ma non ha cancellato i dubbi: ecco cosa dice esattamente il documento approvato

Il capitalismo cambia: fine del primato degli azionisti?

La Business Roundable (BRT) è un’associazione con sede a Washington D.C. La BRT ha un certo peso specifico nella vita politica ed economica degli Stati Uniti. Associa infatti un cospicuo numero amministratori delegati (CEO) di grandi aziende multinazionali americane della nuova e della vecchia economia. Il suo scopo è promuovere politiche che favoriscano il business. Tra i suoi membri figurano Jeff Bezos, Tim Cook, Mary Barra, Jamie Dimon, che ne è il presidente, e Alex Gorsky (CEO di Johnson & Johnson) che ne è il segretario.

Recentemente la BRT ha messo mano al documento fondativo dell’associazione, “The Statement on the Purpose of a Corporation”, che impegna i propri associati a seguire le policy espresse in questa dichiarazione. Era dal settembre 1997che la BRT non sentiva il bisogno di emendare il documento, Statement on Corporate Governance, che aveva emesso in quella data. Adesso questa necessità sembra essere diventata impellente.

Lo scorso anno Jamie Dimon, AD di JPMorgan Chase e presidente della Business Roundtable, aveva dichiarato in un’intervista: “Abbiamo esaminato quello che è stato scritto nel 1997 e non concordiamo più con ciò. Non descrive in modo corretto quello che pensiamo debba essere il nostro lavoro”. Nella primavera del 2019 è stato insediato un comitato incaricato di revisionare lo Statement del 1997.

Il 19 agosto 2019 il comitato ha quindi pubblicato un aggiornamento importante. Si potrebbe addirittura parlare di un superamento della frase chiave dello Statement del 1997. Questa: “Il dovere fondamentale del management e degli amministratori è nei confronti degli azionisti della società.”

LA NECESSITÀ DI NUOVE PRATICHE

Indubbiamente la Corporate America sta attraversando uno dei periodi difficili e di crescenti tensioni della sua storia. Nei sui confronti sta montando uno scontento globale per l’ineguaglianza che il capitalismo sta producendo, per i bassi salari, per i compensi degli amministratori e per le pratiche ambientali delle imprese. Il compenso di un amministratore delegato, per esempio, vale 250 volte la paga media di un dipendente. Sorge da molte parti e con forza la pressione a elaborare e attuare una differente etica nel fare impresa.

Di fronte all’incapacità delle classi dirigenti a gestire il cambiamento, e stante la crisi politica ed ideale del liberalismo post-muro di Berlino, alcuni stanno davvero guardando ai leader dei grandi gruppi industriali e tecnologici per una possibile azione suppletiva o di forte supporto al ceto politico.

È probabilmente questa la ragione per cui la Business Roundable ha deciso di spostare decisamente l’asse degli scopi dell’impresa. Adesso l’enfasi non è più sul creare valore per gli azionisti (sharehlders) –che naturalmente resta — ma su quella di crearlo per gli stakeholders, cioè di tutti quei soggetti coinvolti nell’attività dell’impresa. I dipendenti, i consumatori, i fornitori e le comunità locali.

GLI SCOPI DELL’IMPRESA NEL NUOVO ZEITGESIT

I punti cruciali da perseguire per raggiungere questo scopo sono i seguenti secondo lo Statement della BRT (che citiamo testualmente):

  • Offrire valore ai clienti. Continuare la tradizione delle aziende americane nel soddisfare e superare le aspettative dei clienti.
  • Investire nei dipendenti. Il primo passo è attraverso un compenso equo accompagnato da importanti benefit. Essi devono includere anche il sostegno alla formazione e alla riqualificazione volte a sviluppare nuove competenze in un mondo in rapido cambiamento. Promuoviamo la diversità e l’inclusione, la dignità e il rispetto.
  • Trattare in modo equo ed etico tutti i fornitori. Dobbiamo impegnarci per essere dei buoni partner per le altre società, grandi e piccole, che ci aiutano a portare avanti la missione dell’impresa.
  • Sostenere le comunità in cui lavoriamo. Rispettiamo le persone nelle nostre comunità e salvaguardiamo l’ambiente con pratiche sostenibili in tutte le attività.
  • Generare valore a lungo termine per gli azionisti, che mettono il capitale necessario alle aziende per investire, crescere e innovare. Ci impegniamo per la trasparenza e l’impegno efficace con gli azionisti.

I FIRMATARI

La dichiarazione è stata sottoscritta da oltre 200 amministratori delegati e presidenti della corporate America.

Qui potete trovare il documento originale e la lista completa dei firmatari.

Ne citiamo alcuni: Julie Sweet di Accenture, Jeff Bezos di Amazon, Doug Parker di American Airlines, Stephen J. Squeri di American Express, Tim Cook di Apple, Randall Stephenson di AT&T, Brian Moynihan di Bank of America, Larry Fink di BlackRock, Dennis A. Muilenburg di Boeing Company, Kewsong Lee del Carlyle Group, D. James Umpleby III di Caterpillar, Chuck Robbins di Cisco Systems, Michael L. Corbat di Citigroup, James Quincey di Coca Cola, Brian L. Roberts di Comcast, Michael S. Dell di Dell Technologies, Darren W. Woods di Exxon Mobil, James P. Hackett di Ford Motor Company, Lachlan K. Murdoch di Fox, Mary Barra di General Motors, David M. Solomon di Goldman Sachs, Ginni Rometty di IBM, Jamie Dimon, JPMorgan Chase, Ajay Banga di Mastercard, James P. Gorman di Morgan Stanley, Safra Catz di Oracle, Ramon Laguarta di Pepsi Cola, Albert Bourla di Pfizer, Keith Block di Salesforce, Bill McDermott di SAP, James P. Keane di Siemens, Oscar Munoz di United Airlines, Mortimer J. Buckley di Vanguard, Alfred F. Kelly Jr. di Visa, Michael Roman di 3M.

VERSO UN NUOVO CAPITALISMO COLLETTIVO?

L’iniziativa ha avuto un’eco vastissima sui media. Il magazine e think-thank liberale, “The Economist”, ha dedicato la copertina all’argomento con il titolo: What are company for. Big Business, shareholders e society. Nel suo editoriale l’“Economist” sembra molto scettico sulla opportunità di spingere verso un capitalismo collettivo. Così chiama il quadro che configura lo Statement della BRT.

“Per quanto ben intenzionata, questa nuova forma di capitalismo collettivo finirà per fare più male che bene”, scrive il giornale. Nel senso che rischia allevare su una classe di amministratori che, non rispondendo direttamente più a nessuno, manca di legittimità. Il rischio è quello di aumentare il potere discrezionale di questi soggetti fuori controllo su ciò che gli stakeholders si attendono dalla impresa. C’è anche il rischio di aprire a ingerenze politiche indebite nel business.

Oltre alla deresponsabilizzazione degli amministratori, il capitalismo collettivo presenta una seconda insidia. Quella di essere prone alla stagnazione. Il capitalismo collettivo, infatti, non sprona il dinamismo e il cambiamento. Prendiamo ad esempio un’era in cui il capitalismo è stato informato da quei principi, quello degli anni ‘60.

LA PERDITA DI DINAMISMO

Aziende come la At&T e General Motors derubavano i consumatori e continuavano a produrre modelli sorpassati e obsoleti dietro lo scudo di perseguire obiettivi sociali come il posto di lavoro a vita o la ricerca scientifica o il sostegno al tessuto sociale delle città dove operavano.

L’“Economist” ritiene che gli obiettivi dell’impresa debbano continuare a essere definiti dagli azionisti, non dagli amministratori o dai politici. Saranno gli azionisti a decidere quali azione intraprendere in favore degli stakeholdesr. Il modo giusto per bilanciare l’interesse degli shareholders e degli stakeholders è quello di lavorare per accrescere il valore nel lungo termine e per adattarsi ai cambiamenti del mercato e dei modi di consumo.

Questa scelta potrebbe portare a un altro passo, decisivo, per riformare il capitalismo delle trimestrali. Cioè l’allargamento della proprietà e la sua condivisione anche attraverso politiche fiscali che favoriscano l’ingresso di nuovi soggetti nelle compagini aziendali. Purtroppo l’attuale concentrazione non favorisce questo processo che può essere garantito solo dalla competizione.

“L’occidente ha bisogno di innovazione, di proprietà distribuita e di aziende che si adattano rapidamente alle esigenze della società. Questo è il tipo di capitalismo veramente illuminato”, conclude il magazine di Londra.

Una visione che collima su un punto centrale, quello del primato degli azionisti e non degli amministratori nelle decisioni di carattere sociale ed etico, con gli esponenti della Scuola di Chicago. Questi ultimi continuano a muoversi nel solco di Milton Friedman che è stato il teorico massimo del profitto come scopo supremo dell’impresa in un libero mercato.

LA PRESSIONE PER DARE CORPO AI PRINCIPI DELLO STATEMENT

La Oxford University’s Saïd Business School e la Berkeley law school hanno invitato i firmatari dello Statement ad uscire dalle dichiarazioni generiche e stilare dei punti precisi e dei tempi entro i quali intendono realizzare i principi che hanno sottoscritto. Questo porrebbe fine al malinteso che l’unico dovere fiduciario degli amministratori è nei confronti degli azionisti.

Molti dei firmatari del documento hanno assicurato che l’associazione presto elaborerà delle proposte più dettagliate sul modo di realizzare gli intenti dichiarati nello Statement. “Questo è solo il primo passo” ha detto Chuck Robbins, amministratore delegato di Cisco. E può essere davvero così.

Nancy Koehn, professore di storia della Harvard Business School, ha dichiarato al “New York Times”: “Stanno rispondendo al nuovo Zeitgeist. Capiscono che l’ordinaria amministrazione non è più accettabile. È però una domanda senza risposta se queste imprese vogliono davvero cambiare il loro modo di operare”.

E sembra essere proprio questo il punto centrale come sottolinea Anand Giridharadas, autore di Winners Take All: The Elite Charade of Changing the World. “La magnanimità e il volontarismo non risolveranno questi problemi. Se la Business Roundtable fa sul serio, già da domani dovrebbe iniziare gettare il suo peso a favore delle proposte legislative in grado prendere il toro per le corna oltre questi discorsi da divano.”

LA SPONDA POLITICA

Ci sono state anche importanti reazioni in ambito politico. La senatrice democratica e candidata alla presidenza, Elizabeth Warren, ha affermato che la dichiarazione sarebbe “senza valore” se non si concretizzasse in cambiamenti importanti nei comportamenti delle grandi imprese. Tra questi comportamenti virtuosi menziona un minor ricorso al riacquisto delle quote azionarie da parte degli azionisti, salari più alti per i dipendenti e una retribuzione degli amministratori che sia commisurata ai salari dei dipendenti.

La Warren dichiara di voler difendere il capitalismo dai suoi stessi eccessi autodistruttivi, differenziandosi così dalla corrente “socialista” del Partito democratico. Al riguardo ha delle idee piuttosto radicali. Idee che indubbiamente propagano delle onde di ansia nella corporate America. Secondo la Warren i grandi gruppi dovrebbero agire sulla base di una concessione pubblica ottenuta dalla comunità in cui operano. Nel momento in cui la comunità giudica essere venuto meno lo scopo sociale dell’azienda, questa licenza potrebbe essere revocata.

Sia la Warren sia la corrente socialista trova molti consensi, seppur minoritari, tra le giovani generazioni.

Molto più liquidatorio il giudizio di Bernie Sanders, l’esponente più in vista della corrente socialista del Partito democratico. Il senatore del Vermont ha commentato con queste parole la dichiarazione della Business Roundtable: “Non credo neppure per un attimo a quello che hanno detto. Se fossero stati sinceri avrebbero dovuto parlare di innanzare il salario minimo a una soglia di sopravvivenza e della necessità per i ricchi e i potenti di pagare la loro equa quota di tasse”.

Interessante anche l’opinione di Andrew Ross Sorkin sul “New York Times”. Andrew Ross Sorkin è opinionista e corrispondente finanziario del quotidiano di New York e autore del bestseller Too big to fail. Il crollo (2009).

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