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Green economy: l’industria italiana cammina ma non corre. Solo un’impresa su 3 è a buon livello

L’industria italiana è incamminata verso la green economy ma la percentuale di quelle virtuose è bassa. Uno studio pone il evidenza le difficoltà delle PMI

Green economy: l’industria italiana cammina ma non corre. Solo un’impresa su 3 è a buon livello

Le imprese italiane si muovono con cautela sulla via della diversificazione energetica e a leggere certi dati le cose dovrebbero andare molto meglio. Per i vari tipi di aziende vanno considerate innanzitutto le differenze di fatturato, la localizzazione, la voglia manageriale di affrontare il futuro senza o con bassi impatti esterni La green economy con interessi trasversali e volontà di cambiamento ha bisogno di molte cose e chi non la affronta oggi resterà escluso dai commerci internazionali. Uno studio di CRIF, azienda multiservices e di business information sugli impatti ESG (Environmental, Social e Governance ) in Italia ha confrontato i comportamenti di 150 mila aziende. Quelle che non hanno ancora avviato un percorso di transizione sostenibile e che mostrano un livello basso di adeguatezza agli standard mondiali sono l’8%. Più della maggioranza si è, invece, avvicinata al tema, ma è inchiodata a livelli medio-bassi. Soltanto un 30% di aziende è in uno stadio avanzato, mettendo mano a produzione e commercio. Nel percorso green contano i bilanci, come si diceva, per cui le aziende lente a recepire i cambiamenti sono legate ai calcoli finanziari di anno in anno. Gli ultimi due anni hanno penalizzato tutti, ma ciò che è mancato è stata una strategia efficace da parte dello Stato. Il cambio da un governo all’altro con l’attuale esitante su scelte di fondo sulla nuova economia ,non ha aiutato in modo strutturale il passaggio a forme di produzione ecosostenibili. E se non c’è stata una visione strutturata, ci sono stati tanti interventi disarticolati spinti più dalle lobby che da una centrale strategia di lungo termine. D’altra parte dal 2021 l’Italia tutta ha fatto ” atto di fede nel PNRR” come la soluzione salvifica. Anche per Giorgia Meloni che a suo tempo non lo ha votato.

Le PMI sono in affanno

Le imprese che nell’outlook CRIF sono più leste a cambiare, sono quelle che fatturano più di 10 milioni di euro l’anno. CRIF le ha censite a fine 2022 con più di 150 indicatori ESG che alla fine si sono tradotti in giudizi decrescenti da molto alto, a molto basso. “Dal nostro outlook, che si contraddistingue per viste originali e multidimensionali che coniugano analisi sulla sostenibilità di imprese, consumatori e immobili, si evince che solo 1 impresa su 3 può dire di essere a un livello avanzato del proprio percorso verso un’economia sostenibile” dice Marco Macellari, manager di CRIF. Si può obiettare che abbiamo in mano un report che sottende la filosofia degli investimenti e che l’Italia è in ritardo su tutto ciò che porterà ( speriamo) ad un mondo senza emissioni mortali. Ma per progredire e crescere ci vogliono soldi. Il passaggio a forme innovative ha bisogno di specializzazioni- che pure mancano nel nostro Paese- ma in primo luogo servono capitali a buon mercato. Da questo lato lo studio, secondo Macellari, “ conferma il ruolo fondamentale della finanza green nell’abilitare prima e accelerare poi questo percorso virtuoso.” La faccia nascosta delle imprese che stentano a raggiungere i livelli eco internazionali, sono le PMI. Sono realtà lontane dai fatturati milionari. Non sono quotate in Borsa, hanno dipendenti contati a decine e non a migliaia, hanno tradizioni antiche, su di loro si regge il 90 % dell’economia italiana. Nella loro coscienza imprenditoriale sono forse le più predisposte a cambiare. Una grande impresa sa fare da sola e agisce in modo coordinato con la politica, la finanza, l’Europa. Le piccole e medie, in definitiva sono le più bisognose di supporto verso la transizione sostenibile.

Gli impatti sull’ambiente esterno

Tra i principali fattori ESG che hanno dato corpo allo studio c’è il fattore ambientale. Quell’aspetto che attira l’attenzione delle autorità pubbliche sui piccoli imprenditori. Molte ricerche sorvolano. Inquinano ? Quanto inquinano ? Quali processi controllano ? Scaricano fumi nell’aria? Per capirci, i rischi ambientali legati a realtà che danno lavoro, le quali o cambiano o moriranno. Qualche volta per spirito corrivo queste imprese sono imbrigliate in negoziati sindacali sulla digitalizzazione o nella forbice tra capitale umano e capitale tecnologico a basso impatto. Abbiamo un panorama eterogeneo con Lombardia e Piemonte Regioni classificate migliori. In totale il 6% delle PMI italiane è esposto a impatti dei rischi fisici acuti e il 16% a rischi cronici in uno scenario di continui cambiamenti climatici e degrado ambientale. L’ESG Outlook ha sviluppato anche un modello per valutare il peso finanziario a lungo termine della transizione. Un modello che tiene conto dei costi, dei ricavi e degli investimenti rispetto a scenari futuri. « I costi derivanti dalla transizione (costi diretti per la carbon tax e investimenti), espressi come percentuale del fatturato- spiega la società- variano ampiamente ». Ci sono settori ad alta intensità energetica come l’estrazione mineraria, i trasporti, la chimica e i prodotti metallici su cui gli impatti ambientali valgono tra il 3 e l’8% annuo sul fatturato. Nel settore dei servizi, nelle attività immobiliari o del commercio l’impatto sfiora appena lo 0,5%. Andrà meglio nei prossimi mesi con sostegni più diretti ? Quanto è compatibile questa speranza con le normative europee ? Il governo lo farà? Non si sa. Almeno fino a quando continueremo a raccontare accordi o piani specifici senza una forte e credibile strategia nazionale che non può giungere che dal governo. Avanti con il prossimo report.

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