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Generali, nobiltà e solitudine

L’Italia non è un Paese per grandi gruppi – Lo standing internazionale e lo stile di gestione del Leone di Trieste meriterebbero una maggiore considerazione – Il caso Fonsai e l’assurdo tentativo di infrangere l’indipendenza del top management delle Generali sono l’ennesima prova del ‘provincialismo’ della finanza italiana – Quei tempi di Cuccia e Desiata.

Generali, nobiltà e solitudine

C’è un’impertinente battuta che circola sui mercati finanziari in queste ore. Eccola: perché le agenzie di rating non hanno approfittato del Festival di Sanremo per declassare ancora una volta l’Italia? Risposta: solo perché non l’hanno visto.

Fortunatamente i mercati stanno facendo tesoro del consiglio di SuperMario Draghi che un paio di settimane fa, di fronte al solito tambureggiare fuori tempo di Moody’s, S&P e Fitch, concluse seraficamente che dovevamo farcene una ragione e imparare a vivere ignorando i rating. E’ quello che le Borse stanno facendo ed è forse la peggiore delle punizioni che le agenzie di rating stanno ricevendo. Se uno non si rende conto dell’importanza del lavoro di bonifica che sta facendo il governo Monti per l’Italia e pretende di emettere rating, può solo fare uno cosa: cambiare mestiere.

Eppure, se fossero meno intellettualmente pigre, le agenzie di rating avrebbero sotto i loro occhi un caso di scuola per censurare, stavolta con qualche ragione, il nostro Paese: basterebbe fare attenzione alle manifestazioni sempre impressionanti dell’autolesionismo e della sottocultura che l’Italia esprime nei confronti dei pochi grandi gruppi che le sono rimasti. E’ stato ed è così per la Fiat senza che nessuno si chiedesse come sia mai possibile che Sergio Marchionne sia tanto osannato da Obama e dagli Stati Uniti e venga considerato una jattura in Italia malgrado abbia preso in mano un gruppo tecnicamente fallito e l’abbia trasformato, con la Chrysler, in un player mondiale. Ma è stato così anche con le due nostre grandi banche (Intesa e Unicredit), in parte con Eni, Enel e con Telecom, e adesso con le Generali.

Il Leone, si sa, non ama le luci della ribalta e ha uno stile di gestione che è un mix di equilibrio e sobrietà, di nobiltà e solitudine. Infatti non ha impiegato molto a rigettare un corpo del tutto estraneo alla sua cultura e al suo understatement come quello di Cesare Geronzi che non aveva nulla a che fare con la prudente lungimiranza, con l’impronta solidamente internazionale e con la severità un po’ asburgica del Leone alato. Non è la prima volta che un gigante internazionale come le Generali è sfiorato da un terremoto come quello che sta scuotendo in questi giorni la finanza italiana e i suoi santuari con il caso Fonsai. E certamente il fatto che due azionisti del Leone come Mediobanca e Palladio si sfidino sul mercato per la ricapitalizzazione e la conquista del secondo polo assicurativo non può lasciare indifferenti i vertici di Trieste.

Pensare però che il top management delle Generali sia così ingenuo e così improvvido da scendere in campo e da far valere i propri rapporti personali (che riguardano sia Piazzetta Cuccia che Palladio) a vantaggio degli uni contro gli altri è solo frutto di un provincialismo culturale che è abituato a guardare alle vicende della grande finanza dal buco della serratura. Ma è anche un retaggio di altri tempi, di quando l’azionista di maggioranza (che allora come oggi era ed è Mediobanca) pensava di poter disporre della sua partecipazione a Trieste come una semplice pedina dal suo impero. Oggi Cuccia non c’è più e quel salotto buono appartiene a un’altra epoca e a un altro capitalismo. Chi non ricorda però la fierezza e l’orgoglio di un personaggio leggendario della storia del Leone come Alfonso Desiata con cui è cresciuto, sia professionalmente che nelle frequentazioni familiari, l’attuale numero uno delle Generali, Giovanni Perissinotto? Gli scatti di orgoglio e di indipendenza di ieri sono pari al grande senso di responsabilità ma anche al fastidio indispettito con cui oggi il Leone guarda a quello che sta succedendo intorno al gruppo Ligresti. Finora le minacce e le intimidazioni che sono piovute da sponde insospettabili non sono bastate a turbare la tradizionale atarassia della multinazionale triestina.

Ma tirare la giacca alle Generali in una guerra fratricida per un gruppo decotto come Fonsai sarebbe l’ultimo sgarbo che si possa compiere non solo contro il Leone di Trieste ma anche contro l’Italia che dovrebbe coltivare come prodotti da serra i pochi grandi gioielli che ancora ha. Ma questo, purtroppo, non è Paese per grandi player. Anche se il tempo ha sempre dato ragione alla lungimiranza triestina.

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