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Editoria, fare come Netflix? La svolta è vicina

Gli abbonamenti digitali sembrano essere l’ultima chances per un’editoria tradizionale in crisi che cerca di restare a galla ispirandosi ai modelli stranieri – Ma il nodo del prezzo è cruciale – Molti si rifanno a Netflix, ma sarà la strada giusta? Ecco che cosa ha scritto su Ft Alex Barker, global media editor del quotidiano londinese

Editoria, fare come Netflix? La svolta è vicina

Il “Corriere della sera”, un po’ il “New York Times” de noantri, lo ha fatto davvero. Con un’ampia campagna pubblicitaria (con passaggi anche in TV) ha offerto un abbonamento al giornale a 1,99 euro a settimana. Il che significa meno di 10 euro al mese. Durata un anno. Sono sicuro che raccoglierà i meritati frutti di questo passo intrepido. La sfida adesso è quella di mantenere questo prezzo per sempre, come fa Netflix.

Se fosse un prezzo esca, beh! la reputazione del nostro “New York Times” prenderebbe un colpo e un po’ di diaspora di abbonati ci sarebbe. Niente di che, le brutte figure nel ciberspazio passano velocemente. Anche Netflix ne ha fatte parecchie. A un certo punto scompaiono anche da Google.

Per aumentare un abbonamento ben percepito, come hanno fatto anche — raramente — Netflix e Amazon, ci vuole una base di utenti enorme e una fidelizzazione che va ben oltre quella conquistata con i prezzi esca. Anche il prezzo d’ingresso di pochi euro, che è a termine, è una iattura per il consumatore che si deve ricordare di cancellarlo pena il rinnovo automatico.

Basta guardare la Apple che non sa decidersi quando terminare la promozione per Apple TV+ per gli acquirenti dell’iPhone e continua a rinviarlo di mese in mese. Adesso è a ottobre. Gli abbonati pesano in borsa e a volte determinano la capitalizzazione più di qualsiasi altra cosa.

Per ritoccare il prezzo di un abbonamento in relativa sicurezza ci vogliono molti elefanti bianchi nel parco abbonati e poche gazzelle.

OLTRE LA COMPIACENZA

Sembra che una parte del mondo editoriale — un comparto di una complessità inaudita e con un profondo radicamento nella storia culturale di ogni nazione — stia iniziando a filtrare con il modello Netflix.

C’è voluto del tempo e ne occorrerà molto altro. L’industria editoriale è un’industria compiacente, narcisistica e poco incline ai cambiamenti che sono percepiti, il più delle volte, come “mode effimere”. È un’industria fortemente strutturata, gerarchizzata, quasi stratificata a caste. La tecnologia ha un ruolo marginale e raramente i pensieri manager dell’editoria vanno al software. Quelli che ci inclinano durano poco.

L’idea che il contenuto è il re assoluto (content is the king), non aiuta l’industria ad affrontare un tempo nel quale l’alfiere sta mangiando il re e il potere passa alla regina, la tecnologia. Che la tecnologia sia vissuta male, lo si vede: le proposte online di alcune testate sono penose, confuse, le notizie affastellate, l’interattività minima. Sembra che non ci sia più la curatela. Molto meglio l’edizione cartacea! Per non parlare della vischiosità dei sistemi di gestione degli abbonamenti e degli utenti paganti. Manca solo di mandare un fax di conferma!

DIVENTARE UN SETTORE TECNOLOGICO

Se non ci fossero gli aggregatori a organizzargli le notizie, i siti dei giornali sarebbero quello che sono oggi le piazze con la pandemia. E infatti si è visto: quando gli aggregatori hanno staccato la spina, come in Spagna e Australia, il traffico dei giornali online si è ridotto della metà. Giustamente i giornali vogliono essere pagati dagli aggregatori, ma forse potrebbe anche essere il contrario, stante il quadro attuale.

Per non parlare ancora dei libri. Se dopo venti minuti si riesce a scaricare una versione digitale di un libro dall’e-commerce di un editore, bisogna chiamare il numero verde (funzionante dalla 9 alle 18) per iniziare a leggerlo. Con Amazon, dopo 5 secondi dall’intenzione di acquisto, sei subito sulla copertina del libro e puoi iniziare a leggere.

Se l’industria editoriale tradizionale non diventa un’industria tecnologica, si avvia verso l’autunno del suo ciclo storico.

Elon Mask, con la sfrontatezza di cui solo lui è capace, ha definito, tra una vampata e l’altra, il suo ruolo in Tesla come “technoking” e guai a dire che Tesla è un’industria automobilistica. Mai! Tesla è un’industria tecnologica, s**t! Meglio Steve Jobs di Henry Ford!

IL NUOVO SCENARIO DEI MEDIA

A proposito di Steve Jobs. 11 anni fa, proprio in questi giorni, il mercuriale capo di Apple spiegò chiaramente quello che stava succedendo nel mondo dei media e dell’informazione. Durante la presentazione dell’iPad al museo di arte moderna nella zona dell’erba buona a San Francisco, Steve Jobs disse:

“Una volta i media erano separati, ciascuno era per conto suo sul proprio canale di distribuzione. Un contenuto competeva solo con un contenuto affine. Oggi tutto è cambiato. Tutti i media sono insieme e competono tutti nello stesso ambiente: uno schermo connesso a Internet”.

Le conseguenze di questo cambiamento le ha esposte bene il team di Amazon quando, nel 2014, in un post sul Kindle Store ha scritto:

“Bisogna non dimenticare che i libri e i giornali non competono soltanto con i libri o con i giornali. I libri e i giornali competono con i videogiochi, la televisione, i film, Facebook, i blog, i siti gratuiti di notizie, Twitter e altro ancora. Se noi vogliamo sviluppare una sana cultura della lettura dobbiamo adoperarci seriamente perché i libri e i giornali possano competere con questi altri tipi di media”.

Ed eccoci a punto: “Gran parte di questo lavoro consiste nel fare in modo che libri e giornali costino di meno”.

NON RESTA CHE NETFLIZZARSI

Niente di più vero e di più necessario da sviluppare per fare la cosa giusta nel ciberspazio. La grande informazione, come abbiamo visto nella triste dialettica tra verità e contro verità propria di quest’epoca polarizzata, è un patrimonio insostituibile che deve continuare a sopravvivere e a produrre filiazioni di alto livello giornalistico sul piano etico e professionale.

Ma per far questo, e non cadere nell’area della sussistenza e del mecenatismo, il grande giornalismo ha bisogno di lettori e di risorse. E per ottenere queste non può che netflizzarsi. Prospettiva che è ancora olio di ricino per le persone dei media tradizionali, ma che è panna montata per i consumatori. Netflix è un modello che conoscono tutti, semplice da adottare e da abbandonare, sostenuto dalla finanza e dagli investitori e soprattutto funzionante.

Ma c’è il problema immenso del prezzo dell’abbonamento. Come fanno gli editori a vendere ai prezzi di Netflix?

Alex Barker, global media editor del quotidiano The “Financial Times”, spiega perché possono e devono farlo. Seguiamolo, anche se il FT non usa per niente il modello Netflix, perché può permetterselo. Buona lettura!

SE CI FOSSE REED HASTINGS A CAPO DI UN GIORNALE

Cosa farebbe Reed Hastings se gestisse un giornale al posto di Netflix? Saprebbe far meglio dei suoi colleghi della ex-carta stampata? Forse sì; non ci sarebbe pubblicità, proprio come su Netflix e il “Daily Hastings” sarebbe un’impresa finanziata dagli abbonamenti.

Di fronte alla enorme sfida commerciale al core business dell’editoria, Hastings probabilmente resisterebbe all’impulso di investire in settori adiacenti, come gli eventi o l’e-commerce. Invece metterebbe tutto nelle redazioni e nei contenuti.

[Mettere soldi nella redazione è quello che ha fatto Jeff Bezos al “Washington Post” e i risultati si sono visti].

Ma il segno maggiormente distintivo di una ipotetica gestione Hastings potrebbe essere qualcosa di più prosaico: il prezzo. I manager dell’informazione dicono che quando parlano con Hastings, lui fa sempre notare che gli abbonamenti che stanno proponendo ai lettori sono semplicemente troppo costosi. Venendo da un uomo che ha costruito una media company con più di 200 milioni di abbonati, questo potrebbe essere un parere su cui vale la pena riflettere bene.

LA CIAMBELLA DEGLI ABBONAMENTI

I manager delle news guardano agli abbonamenti come un percorso di redenzione dopo anni di calvario per il declino delle entrate della stampa e della pubblicità. Ma i prezzi alti degli abbonamenti sono anche un indizio della distanza che questa industria deve ancora percorrere nella ricerca di un modello di business digitale sostenibile e realmente scalabile.

Con 27 dollari al mese negli Stati Uniti, per esempio, si può comprare l’accesso mensile a Netflix (condivisibile) insieme a quello a Disney Plus e alla libreria di 70 milioni di canzoni di Spotify. Per quella stessa cifra, è possibile anche abbonarsi a uno, ma solo a uno, di questi quotidiani online: “New York Times”, “Boston Globe”, “Los Angeles Times”, “Times” di Londra.

[Se li volessimo tutti occorrerebbero più di 100 dollari. La domanda è anche un’altra: quanti abbonamenti può ragionevolmente sostenere un consumatore a 30 euro a pezzo? Quale potrebbe essere il budget mensile di un consumatore medio di prodotti dell’industria culturale? Il media columnist del “New York Times” dice di spendere circa 1500 dollari l’anno in contenuti, che viene circa 125 dollari al mese. Ma lui è il media columnist del più importante quotidiano del mondo e lo fa di mestiere! Supponiamo che il consumatore medio possa investire 60 euro al mese in abbonamenti digitali (escludendo Tv satellitare e via cavo). Ne vorrà certamente uno per il film, uno per la musica, uno per lo sport, avrà sicuramente Amazon Prime. Quanto resta per i quotidiani, i libri, le riviste (come “TheEconomist” o “Der Spiegel”). Non certo 30 euro per ciascuno! A questo punti, sia pur come ripiego, decise di lasciarsi informare da Facebook o da Google o da altri aggregatori. Anche perché tramite questi servizi gratuiti può superare la paywall per un limitato numero di accessi al sito del grande giornale].

IL GAP DI PREZZO CON GLI ALTRI MEDIA

Ci sono naturalmente differenze di approccio alla questione abbonamenti fra le varie testate. Alcune — come “Le Monde” e il “Washington Post” — propongono abbonamenti a 10 dollari al mese. Altri, come il “New York Times”, scontano pesantemente le tariffe d’ingresso, per poi tariffare a 27 dollari al mese. Le pubblicazioni più specializzate, come il ‘’Wall Street Journal”, il “Financial Times” e “Bloomberg”, fanno pagare tariffe più elevate sicuri che l’utenza business le può sostenere.

[Per esempio il Financial Times per la versione digitale anastatica del quotidiano (FT epaper) fa pagare 50 euro al mese, per il sito, dove non si capisce niente (almeno per me) 20 euro al mese].

Ma qualunque sia l’approccio, non c’è dubbio che il confronto del prezzo di abbonamento con gli altri media o attraverso altri indicatori — come quello dell’investimento in contenuti per dollaro di abbonamento — è ancora sconfortante per i consumatori di notizie. Gli editori sono latitanti.

Per esempio Netflix spende 17 miliardi di dollari nella produzione di contenuti. Si tratta di un investimento bastevole a pagare tutte le redazioni in America e fors’anche in Europa. PwC ha stimato, per gli editori di informazione, entrate per 22 miliardi di dollari quest’anno. Solo una minima frazione di questi ricavi viene spesa per il giornalismo e le redazioni.

Le entrate degli abbonamenti digitali sono una manna caduta dal cielo per fronteggiare il declino della stampa e della pubblicità. Alcuni editori fanno però troppo affidamento sui fan lealisti, affezionati alla testata e pronti a sostenerla anche con un prezzo fuori mercato. Donald Trump ha anche dato una mano, in termini di abbonati, ai grandi giornali. Ma se Trump era un vulcano in eruzione Biden è una candela per l’informazione. Di tutta la filantropia che si è riversata sui giornali nel quadriennio trumpiano, ne resterà poca.

Che la filantropia possa funzionare lo dimostra il caso del “Guardian”. Il giornale di Manchester ha iniziato a chiedere contributi volontari nel 2016 e ora ha più di 900.000 “sostenitori” che versano almeno 5 sterline al mese.

IL CATENACCIO DEGLI EDITORI

Come proposta di investimento, l’informazione è chiaramente diversa dallo spettacolo che passa su Netflix o dalla musica su Spotify. Spesso non va oltre un pubblico locale e l’informazione è un bene immediatamente deperibile.

Questo stato di cose ha alimentato una mentalità difensiva all’interno dell’industria. La maggiore priorità degli editori è stata il controllo dei costi e la generazione di entrate da parte di una base di lettori fidelizzati. La politica, cioè, degli elefanti bianchi che funziona a meraviglia nel mercato delle app. Ma che paga meno in questo comparto media.

In più di un decennio, da quando, cioè, sono stati introdotti i paywall, solo una manciata di editori ha raccolto più di un milione di lettori paganti. E la maggior parte degli abbonati è disposta a pagare per una sola pubblicazione.

UNA NUOVA FASE?

La strategia di Hastings per Netflix è stata totalmente diversa: ha investito nella tecnologia e nella qualità dei contenuti, con tariffe aggressive tese a costruire un pubblico di massa in tutto il mondo.

Il “New York Times” (5 milioni di abbonamenti digitali) e il “Washington Post” (quasi 3 milioni) stanno entrando in una fase di più ambiziosa espansione. Entrambe le testate hanno ampliato di un terzo le loro redazioni a confronto anche del periodo d’oro della stampa. Il “New York Times” pensa di poter attrarre una quota di pubblico pari a 100 milioni di lettori.

Per quel tipo di scala potrebbero essere necessari maggiori investimenti. Le testate d’informazione più piccole, finanziate dai lettori, devono anche affrontare scelte difficili relative al tipo di redazione e alla missione per servire al meglio il pubblico di riferimento.

Rasmus Kleis Nielsen, direttore del Reuters Institute dell’Università di Oxford, ha descritto questa sfida come una sfida per la sopravvivenza “nella battaglia più competitiva per l’attenzione della gente che abbiamo visto nella storia umana”. Per lui la faccenda sta in questo modo:

“Mentre il giornalismo ama descriversi come un business coraggioso e insostituibile, sorge il dubbio se gli editori abbiano davvero afferrato l’enormità della sfida che li attende”.

Fonte: Alex Barker, What news publishers can learn from Netflix, “The Financial Times”, 18 marzo 2021

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